Processo Trentalange, nuovo round. Stavolta alla Corte federale d’Appello, la difesa che chiede l’accoglimento del reclamo e dunque la cancellazione dell’inibizione sostenendo la nullità persino del deferimento mentre la procura federale rintuzza sino a rinculare, sino ad accontentarsi (nella richiesta) della conferma della sentenza di primo grado, senza cioè ribadire le richieste (più pesanti) formulate davanti al Tribunale federale. Si procede a colpi di spada e di fioretto, in punta di diritto. Si va a caccia della verità. Dimenticato dall’opinione pubblica, allontanato dal governo calcistico, il “caso D’Onofrio” continua ad affollare le aule della giustizia sportiva. Vi torna dopodomani. Vi torna così, carte alla mano.
Per arrivare alla condanna di Alfredo Trentalange i giudici del Tribunale Federale Nazionale hanno dovuto creare un nuovo capo d’imputazione, uno non presente tra i sette avanzati nel deferimento del procuratore capo federale Giuseppe Chinè (e dall’aggiunto Giorgio Ricciardi) e dunque un capo d’incolpazione per il quale l’imputato e la difesa non hanno potuto difendersi. E ancora: il nuovo capo d’incolpazione è stato creato mixando tra due capi d’imputazione, depennando cioè il primo di una parte e aggiungendovi l’addebito presente in un altro dei sette capi d’accusa, addebito questo che però il collegio del Tribunale federale Nazionale ha rigettato. Il frutto di questo collage è stato così quello di condannare l’ex presidente dell’Aia per un addebito pretendendo di giustificarlo con i fatti di un altro addebito per il quale però gli stessi giudici hanno pronunciato in primo grado l’assoluzione, e l’hanno fatto basandosi su una telefonata la cui esistenza non è stata provata agli atti, della quale non si conosce nemmeno l’eventuale tenore e contenuto, una telefonata che se pur ci fosse stata non potrebbe entrare negli atti perché ha già abbondantemente superato i tempi di prescrizione, dunque il capo d’incolpazione è inammissibile (e tardiva l’ammissione del teste, nel caso di specie l’avvocato Sandroni) pur se invece la Procura federale l’ha ritenuta disciplinarmente rilevante.
E ancora: il secondo sopravvissuto capo di condanna rispetto ai sette avanzati da Chinè è arrivato senza che il procuratore Figc “si sia accorto che è radicalmente escluso dall’articolo 35 del regolamento dell’Aia che rimette alla Figc il potere di regolare l’attività amministrativa e contabile dell’Aia e stabilisce che la vigilanza e le verifiche contabili e amministrative spettano al Collegio dei revisori dei Conti e agli organi della segreteria generale Figc”. Dunque spettavano ad altri i controlli e ad altri apprestare i modelli, modelli e controlli in realtà esistenti: se l’ex procuratore capo Aia Rosario D’Onofrio, cui viene attribuita (c’è scritto nella sentenza) “una straordinaria attitudine mistificatoria” è riuscito a presentare note spese con documenti di viaggio falsificati e ad ottenere i rimborsi (oltre 4mila euro) lo deve per la mancata diligenza dei dipendenti che dovevano verificare la veridicità dei documenti, e in questo caso i dipendenti Figc di cui l’associazione italiana arbitri è una costola. Sono queste solo alcune delle contestazioni che compaiono nel reclamo presentato dal pool difensivo dell’ex presidente dell’Aia alla Corte federale d’Appello contro la sentenza di primo grado che, sancendo l’inibizione di tre mesi per Trentalange, ha però dimezzato la richiesta di condanna della procura Figc. Accolti solo un capo e mezzo dei sette d’imputazione formulati da Giuseppe Chinè che, sotto i propri occhi, s’era visto sbriciolare l’intero impianto d’accusa (leggi qui). Giovedì c’è il secondo round: a decidere sarà la Corte federale d’Appello a sezioni unite, presidente del collegio il giudice Torsello.
Accusa in difesa e difesa all’attacco. I legali della difesa (Bernardo Giorgio Mattarella, Avilio Presutti, Paolo Gallinelli, Marco Laudani) hanno affilato le armi, chiedono l’integrale accoglimento del reclamo. Chiedono che la sentenza di (parziale) condanna sia completamente azzerata: chiedono l’assoluzione di Trentalange. Si spingono ancora più a fondo, fino a rivoltare la lama nell’inchiesta e nelle accuse avanzate dalla procura federale: risalgono a monte, fino a chiedere l’integrale reiezione del deferimento. Perché, secondo gli avvocati, nel “caso D’Onofrio” non solo Trentalange non ha colpe né responsabilità, non ha commesso violazioni né è responsabile di omissioni: per i legali il deferimento è nullo e le decisioni assunte erronee. A corredo scrivono una serie di motivazioni: perché ad esempio la Procura non ha assolto all’obbligo di un reale contraddittorio, perché non sono state ammesse prove testimoniali e documentali, perché sono stati violati i diritti della difesa, perché si è arrivati a costruire un capo d’accusa (ex novo) non presente nel deferimento come fosse un collage, e dunque l’illegittima immutazione dell’addebito porta alla nullità della sanzione (l’incolpato non può essere chiamato dal deferimento a difendersi rispetto a determinati fatti e poi venire condannato dalla decisione per fatti diversi), perché nello specifico le due affermazioni di responsabilità sono sbagliate (inciso: l’approdo al Collegio di Garanzia dello Sport presso il Coni è certo). Intanto dopodomani c’è il secondo grado. Chinè e l’aggiunto Giorgio Ricciardi si sono presi tutto il tempo utile prima di presentare le controdeduzioni: ritengono che il reclamo sia inammissibile e infondato, che l’atto del “deferimento abbia assolto la funzione essenziale di informare il deferito dei fatti materiali posti a suo carico”, che gli addebiti non sono stati mutati né che ci sia stato un collage, “è potere del giudice riqualificare il fatto giuridico”, che i “dettagli della testimonianza dell’avvocato Sandroni inducono a ritenere pienamente veridici i fatti riferiti, essendo inimmaginabile che, al solo fine di nuocere a Trentalange, il teste si sia indotto ad inventare di sana pianta le circostanze testimoniate”, e che sulla questione dei controlli, «la responsabilità del presidente Trentalange deve ritenersi fondata, nei mesi precedenti ai fatti relativi alle spese di D’Onofrio, si erano già verificati numerosi casi di associati Aia (arbitri/assistenti) che avevano presentato spese non veritiere”. Chinè quindi chiede alla Corte di rigettare il reclamo di Trentalange non riproponendo però la sua richiesta di primo grado (cioè sei mesi di inibizione). Gli vanno bene i tre inflitti dal Tribunale federale nazionale. Scrive nel ricorso: “Merita di trovare integrale conferma quanto già deciso dal giudice di prime cure”. Alle controdeduzioni della Procura replica e ribadisce la difesa di Trentalange: è stato creato un nuovo fatto sul quale non vi è stata alcuna difesa in primo grado, la “sentenza di condanna si basa su un diverso addebito. La sentenza, sulla base del materiale probatorio acquisito, non avrebbe potuto ritenere come accertata l’esistenza della fantomatica telefonata Trentalange-Sandroni. Predicare una teorica responsabilità di Trentalange sui controlli è impossibile. Tra lui e il fatto si sovrapponevano due diversi livelli di controlli“.
Il processo e il cubo di Rubik. E così il processo a Trentalange, che poi in realtà sarebbe il processo sul “caso D’Onofrio” si arricchisce di nuovi, affilati, elementi. E così, archiviata senza sussulti ma anche senza vetrina l’elezione del nuovo presidente e del nuovo Comitato nazionale – del resto il candidato era unico e unico era anche il listino collegato, avanti così per un altro anno e poi di nuovo tutti alle urne, certo le 50 schede bianche su 310 votanti sono un segnale da non trascurare per il presidente Aia Pacifici e nemmeno per quello della Figc Gravina – intorno alla casa di vetro dell’Aia (ma pure della Figc) volteggia una domanda insidiosa, insistente, insinuante: quale sorte toccherà al presidente Alfredo Trentalange nel processo sportivo di secondo grado? Giovedì 27 aprile se ne dibatterà davanti alla Corte federale d’Appello: nel reclamo i legali dell’ex presidente dell’Aia formulano e fondano uno dei motivi d’appello nella “violazione del cosiddetto divieto di sentenze a sorpresa”. Sei mesi dopo l’arresto per narcotraffico del procuratore Aia Rosario D’Onofrio si resta davanti a un rompicapo che somiglia al cubo di Rubik: si montano, spostano e invertono i lati ma la soluzione ancora non c’è, l’accertamento delle (presunte) responsabilità ha portato sinora al ritiro tessera dell’ex presidente della sezione di Cinisello Balsamo, al riuscito stratagemma di D’Onofrio che s’è sottratto al processo sportivo e all’inibizione di tre mesi per l’ex presidente dell’Aia. Poi stop. Poi nulla.
Il collage. Il lungo iter che ha portato al deferimento, al processo di primo grado e alla condanna sono alle spalle (leggi qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui), adesso all’orizzonte si profila un’altra battaglia. Animata. Nella quale, oltre a chiedere l’accoglimento del reclamo e la nullità del deferimento, gli avvocati difensivi insistono per l’ammissione di testi e documenti. Nella sentenza di primo grado con la quale Trentalange è stato inibito per tre mesi il Tribunale federale, riconoscendo la violazione dell’art.4 comma 1 del codice di giustizia sportiva, ha riconosciuto l’ex presidente Aia come responsabile di due dei sette capi d’accusa (in realtà un capo e mezzo d’imputazione, nemmeno due): l’omissione d’iniziative che accertassero i requisiti professionali di D’Onofrio e la mancata adozione di modelli organizzativi idonei a prevenire “il compimento di atti contro la lealtà da parte di D’Onofrio”, in sostanza l’adozione di modelli di controllo sulle richieste di note spese avanzate da D’Onofrio.
Bisogna però partire da queste due (una e mezzo) violazioni per capire il senso delle richieste della difesa e come la sentenza di primo grado fatichi a reggersi. Perché nel primo capo d’incolpazione era contestato anche l’accertamento dei requisiti di moralità e, per motivare l’addebito, i giudici hanno dato per certa una telefonata (e il contenuto della telefonata) di cui non ci sono prove agli atti, e perché nel secondo caso i controlli sono sostanzialmente in capo alla Figc e non all’Aia. È su questi due punti che la tesi difensiva diventa sferzante.
La telefonata, il mix, il nuovo addebito. Metà del capo a) d’incolpazione già tranciato dagli stessi giudici del Tribunale federale che hanno depennato l’accertamento dei requisiti morali: infatti “nessuno avrebbe potuto accorgersi della vita segreta di D’Onofrio a causa della sua straordinaria attitudine mistificatoria” sottolineano gli avvocati della difesa. Però scrivono anche che, per poter condannare Trentalange, i giudici hanno dovuto creare un nuovo addebito, facendo una sorta di collage tra due capi, di cui uno però non riconosciuto come violato, in sede di sentenza, dagli stessi giudici. Possibile? Possibile. Cioè, per poter affermare che “Trentalange avrebbe omesso di valutare i requisiti professionali di D’Onofrio, hanno utilizzato una parte del capo b delle accuse, quello cioè nel quale si addebitava a Trentalange una telefonata a Sandroni, componente della Commissione Disciplina Nazionale”. Come frutto del collage, ecco che il collegio difensivo scrive: “Si è così giunti così al nuovo capo di incolpazione a) (quello per il quale Trentalange è stato condannato) che suona più o meno così: Trentalange ha nominato alla carica di Procuratore Nazionale Aia un soggetto delle cui capacità professionali aveva motivo di dubitare essendo a suo tempo intervenuto in suo favore con una telefonata all’avvocato Sandroni (che tali capacità aveva messo in dubbio)”. È l’aspetto che forma l’oggetto di un apposito motivo di appello, quello per “violazione del principio di immutabilità dell’addebito e per la violazione del divieto di sentenze a sorpresa”: da questo spunto nasce la constatazione di come Trentalange non abbia potuto difendersi da questo capo (nuovo) d’imputazione.
Gli avvocati ricordano poi come “D’Onofrio dopo un periodo presso la procura regionale lombarda, viene nominato membro della Commissione di Disciplina nazionale e vi rimane per tre consiliature sotto la presidenza Nicchi. Fin qui nessuno ha niente da ridire. È seriamente credibile, in un tale contesto, l’obiezione mossa dalla Procura a cose fatte secondo la quale Trentalange, prima di mettere il giudice D’Onofrio a capo dell’ufficio inquirente, avrebbe dovuto chiedergli di documentare i suoi requisiti? Una tale ipotesi si giustifica soltanto a posteriori, una volta che siano conosciuti tutti i fatti. Ma, ex ante, chi seriamente avrebbe potuto chiedere i precedenti a uno che faceva il giudice da oltre 12 anni? E che ancor prima aveva fatto il procuratore regionale in Lombardia? Dunque, Trentalange, nel dare per scontati i requisiti professionali del D’Onofrio, non ha tenuto una condotta diversa da quella di chiunque si fosse trovato al suo posto in quel momento”. Così il pool difensivo scrive nel ricorso che poi si sposta legandosi al capo b (capo per il quale v’è stata assoluzione da parte del Tribunale federale) perché una parte dei fatti posti a base dell’addebito è stata utilizzata per “costruire il nuovo capo di deferimento a)” (cioè quello mixato, quello per il quale è arrivata la condanna). La Procura aveva ritenuto disciplinarmente rilevante la deposizione dell’avvocato Sandroni che affermava di aver ricevuto una telefonata, qualche giorno dopo il 25 maggio 2018, con la quale lo pregava di essere clemente nei confronti di D’Onofrio. “Tutti sanno che in materia disciplinare vigono due principi: l’obbligatorietà della segnalazione e quello della tempestività dell’azione”. Pur essendo già inammissibile per tardività – la prescrizione è maturata a giugno 2022 – gli avvocati accentrano l’attenzione su un aspetto ancor più preciso: che ci sia stata la telefonata lo dice Sandroni ma non c’è una prova agli atti di questa telefonata. E ancora, chiedono gli avvocati: “Trentalange poteva essere così sprovveduto da esporsi con un protegè di Nicchi (antagonista nella corsa all’Aia) per chiedergli un favore?”. E ancora: “È singolare che a suo tempo Sandroni si sia guardato bene dal segnalare alla Procura una telefonata che oggi ritiene meritevole di censura”. Da questa presunta telefonata dal contenuto ancora ignoto si arriverebbe all’assunto che “Trentalange avrebbe acquisito la consapevolezza di una scarsa capacità giuridica di D’Onofrio” e dunque non avrebbe dovuto nominarlo procuratore capo: una decisione che non sta in piedi per i legali dell’ex presidente dell’Aia.
I rimborsi. Per i legali di Trentalange non convince nemmeno la motivazione con la quale l’ex presidente Aia è stato ritenuto responsabile di non aver impiantato dei controlli capaci di intercettare possibili frodi dei rimborsi, e dunque per aver consentito a D’Onofrio di lucrare 4500 euro. Ma l’accusa (avanzata dalla Procura e confermata dal Tribunale federale) pare dimenticare l’esistenza di una direttiva che disciplina i controlli che sono in capo alla Figc e quella di un funzionario che ufficialmente è investito dei controlli. Scrivono i difensori. “Risulta infatti che già il 5 aprile 2019 Francesco Meloni (all’epoca segretario Aia) aveva incaricato Angelo Donisi dei controlli in questione. Si legge infatti in tale documento: Caro Angelo, nell’ambito della riorganizzazione dell’ufficio rimborsi Aia, ti chiedo di sovrintendere al processo di raccolta, controllo e autorizzazione per la messa in liquidazione dei rimborsi, sia delle diarie periodiche che delle spese, inerenti gli organi direttivi centrali (Assemblea dei Presidenti di Sezione, Comitato Nazionale, Consiglio Centrale, Comitato dei Garanti. Organi di Giustizia e altre commissioni associative). Risulta poi che tale incarico in capo al Donisi era stato confermato dal nuovo Segretario Aia Silvia Moro con nota 12 maggio 2021”. In base a questa ricostruzione agli atti, il pool difensivo contesta la decisione perché ha completamente ignorato il sistema di controlli presente e le direttive regolamentari, non ha accertato che a Donisi era affidato questo controllo sui rimborsi e che nel caso di specie “il tribunale federale non si è cioè accorto che la direttiva Meloni affidava a Donisi il controllo della domanda di rimborso (e quindi non una semplice occhiata ma, appunto, un controllo pieno) e che nell’ambito di questo controllo Donisi avrebbe certamente dovuto avvedersi delle contraffazioni del D’Onofrio. Questo perché, nel caso considerato, le contraffazioni del D’Onofrio incontravano il limite e la necessità di disporre di validi numeri di prenotazione (PNR) e di validi QRCode. Con la conseguenza che l’evento che il TFN addebita al Trentalange per aver omesso di introdurre un sistema di controlli andava viceversa addossato al funzionario che, chiamato al controllo, quel controllo non ha effettuato e non si è così avveduto che la maggior parte dei pezzi di carta forniti dal D’Onofrio a supporto delle domande di rimborso erano appunto dei pezzi di carta, in larga parte sprovvisti del necessario e notissimo QRCode”.