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L’Italia del calcio: scommesse, affari, amnesie e barzellette. Da Calciopoli a Corona

Però, a pensarci: che sfiga, che sfortuna, che maledizione. Sarà stato per forza un altro colpo di pirateria, altrimenti non si spiega. No, proprio non ci voleva. Proprio mentre gli evergreen Gabriele Gravina (70 anni), Giovanni Malagò (64), Andrea Abodi (63) e persino Franco Carraro (84) magnificavano l’assegnazione all’Italia pallonara di metà Euro 2032, cadeau dell’Uefa dello sloveno Ceferin (si terrà tra 9 anni, gli stadi e le città dove si disputeranno le gare non più le promesse 12 ma appena 5, ma non si sa ancora in quali stadi, a Roma? Quale? A Milano? Dove, quale?) in coabitazione con la Turchia del dittatore Erdogan, proprio mentre la Lega Serie A s’avviava alla decisiva (!?) riunione sull’assegnazione dei diritti tv dopo un’estenuante questua iniziata a giugno col cappello in mano per provare almeno a incassare come quanto nell’ultimo triennio per evitare che saltasse il banco (la differenza adesso scesa a 27,5 milioni di euro, e niente di fatto anche oggi, nuovo rimando e nuove zuffe tra presidenti tra chi vuol chiudere per il quinquennio, chi per tre anni, chi invece vuole il canale e chi ancora il canale più il fondo) ancor prima di iniziare la nuova stagione, proprio mentre i primi dati degli ascolti (su otto giornate) del campionato di serie A colavano a picco (-3 milioni per ora, immaginarsi a fine stagione se il trend non peggiora…), proprio mentre la Nazionale di calcio, abbandonata dal suo ct a Ferragosto, si preparava a due decisive sfide per evitare che ai due Mondiali di fila saltati si aggiunga pure la figuraccia dell’Europeo mancato dalla nazionale campione uscente che intanto contende il secondo posto ad una nazione in guerra da due anni qual è l’Ucraina, è piovuta come dal cielo una nuova disgrazia, ma così tanto imprevista che quasi tutti – vertici governativi e calcistici, quotidiani e tv, calciatori e opinionisti – hanno faticato e faticano ancora a darle un nome, figurarsi un aggettivo.

“Italia, Betting Scandal” ha titolato qualche giorno fa il quotidiano inglese “The Sun”. Però è risaputo: quello è un tabloid, è un giornale scandalistico, è “spazzatura”. Rovistando invece tra tv e giornali italiani in questo trambusto condito da notizie, anticipazioni social, illazioni, fake news, chat e liste di proscrizione – ma alimentare il caos, avvolgerlo e inquinarlo forse non contribuisce a far perdere potenza e credibilità alla vicenda? – s’è passati da un fenomeno isolato all’epidemia, dalla leggerezza alla ludopatia, dall’ingenuità al vizio, dallo svago per noia alla disperazione, da giocate “innocenti” su altri sport a puntate di migliaia, se non centinaia di migliaia di euro, sulle proprie partite di calcio, dalle chat dei calciatori ai nodi della malavita, dalle “trasgressioni di pochi e ben pagati calciatori di A” al lunario da sbarcare “per i giocatori delle categorie inferiori”, dal divieto di scommesse all’illecito sportivo, un confine “severo” (omessa denuncia, divieto scommesse, illecito sportivo) regolamentato dalla giustizia sportiva mentre per quella penale e amministrativa in questi casi sarebbe appena una dolce ed innocua carezza. Una multa stabilita da una legge del 1989 che compare quantificata ancora in (poche) lire.

Ogni giorno una novità, ogni giorno un cambio di rotta, ogni giorno un aggiornamento di cifre e colpevoli tra distinguo e appelli, tra proposte e annunci: in fondo il copione è sempre lo stesso, immutabilmente recitato sempre dagli stessi protagonisti. Come dimenticare ad esempio – sono passati appena undici mesi – il caso D’Onofrio, il procuratore nazionale degli arbitri e pregiudicato all’insaputa di tutti, (ri)arrestato a novembre 2022, accusato di traffico internazionale di stupefacenti – anche lui accusato di ludopatia (giocava e scommetteva pure lui) come risulta agli atti dell’inchiesta federale e di quella penale, tanto che godeva di permessi speciali per recarsi a sedute di terapia anti-ludopatia? Come dimenticare è una domanda retorica. Nessuno sapeva prima, e nessuno ha saputo dopo, e nessuno se l’è più chiesto: l’Italia e l’Italia del pallone hanno già tutto dimenticato; dopo gli strali e le inchieste, nessuno ha pagato se non Rosario D’Onofrio, non più procuratore Aia e attualmente di nuovo sotto processo penale a Milano. Giocando sul nome in codice (Rambo) da questo sito (leggi qui) era al tempo partita una proposta: ma perché non farci una serie televisiva? Perché non darle il nome di “Inventing Rambo” come fosse il riuscitissimo seguito di “Inventing Anna”, la storia della finta ereditiera tedesca (in realtà russa) Anna Sorokin che qualche anno fa si scoprì come avesse truffato mezza New York e sulla quale Netflix ci ha appunto costruito una serie?

Magari, per recuperare soldi e riguadagnare visibilità internazionale, il calcio italiano che undici mesi fa (ma poi, che si fa, non si ritorna pure sulle plusvalenze?) ha perso una ghiotta occasione per cedere i copyright (altro che pirateria), potrebbe ripensarci almeno adesso. Un titolo a effetto alla fine si troverebbe.

“I treni del gol”, “Last bet” e “Dirty Soccer” – ma solo per tornare non troppo indietro nel tempo a inchieste sulle scommesse del pallone tricolore tritate e pompate ma poi finite in bolle di sapone tra giudizi sportivi e penali – potrebbero servire da spunto, magari ci si potrebbe provare con la regalità del calcio tricolore, una roba del tipo “Il calcio di Fagioli e Corona”, tanto per giocare (si fa per dire) sul cognome del primo calciatore indagato e  su quello di chi ad agosto aveva lanciato la bomba via social, rimasta però senza detonazione ed esplosa solo dopo la pubblicazione di un articolo su “La Stampa”, di un altro sul web de “la Repubblica” e molto più modestamente su questo sito (leggi qui). E giocando pure sull’imminente impegno della nazionale del ct Spalletti e del presidente del Club Italia Gravina che domani sfiderà la reale Inghilterra dell’anziano re Carlo e del baby-fenomeno Bellingham.

In campo senza gli azzurri Sandro Tonali e Nicolò Zaniolo che giocano in squadre di club inglesi e che, dopo Nicolò Fagioli, sono finiti sul registro degli indagati della Procura della Repubblica di Torino e poi su quella federale del procuratore capo, il solertissimo Giuseppe Chinè: l’avviso di garanzia consegnato nel ritiro della nazionale, nel centro tecnico-federale di Coverciano (a Coverciano c’è anche la scuola allenatori italiana, diretta da vent’anni da Renzo Ulivieri, squalificato per tre anni per una vicenda di calcioscommesse a fine anni ’80) mentre la Nazionale si preparava a una gara di qualificazioni per Euro 2024. Sembra passata già un’eternità e invece sono trascorsi appena cinque giorni da quest’altra notte scura e cupa per il calcio italiano: sembra già passata un’eternità perché in fondo nessuno ne parla e ne scrive più. La polizia nel ritiro della Nazionale. Roba impensabile. Però si deve dimenticare, non si può ricordare, non bisogna sottolineare: è questa la terapia efficace. La polizia giudiziaria a Coverciano è un fatto gravissimo – certo, c’è stato subito chi si è premurato di scrivere o di commentare in tv come la circostanza sia nata soltanto perché per colpa del pregiudicato Fabrizio Corona che annunciava nomi d’indagati o presunti indagati via social bisognava anticipare la consegna dell’avviso indagini per evitare l’inquinamento di prove e al contempo per difendere i presunti accusati dallo sciacallaggio e che l’avviso sarebbe arrivato al termine della sfida con l’Inghilterra (ci crediamo?) – un altro serissimo colpo alla credibilità e all’immagine del calcio italiano. Niente però, la notte degli avvisi di garanzia s’è dissolta al rischiare dell’artificioso giorno. Come si fa a non ricordare come Calciopoli (era il 2005) esplose “grazie” a una intercettazione fatta per conto della Procura di Napoli in un’indagine a carico di un clan camorristico sulle scommesse clandestine? Si fa, si fa: del resto il calcio è proprio sfortunato, va avanti così per anni immacolato, fin quando non arriva un’indagine che parte da un motivo (ad esempio accadde anche per l’indagine di Cremona, è accaduto per D’Onofrio) e approda al pallone. Bisogna dimenticare, voltare pagina. Dar un calcio al pallone di fango, ripulirlo dalle verità.

C’è ancora qualcuno che ricorda come il 14 giugno 2022 la polizia giudiziaria piombò nel cuore del ritiro dell’under 21 azzurra per arrestare il dirigente accompagnatore (ex presidente del Pescara) Vincenzo Marinelli (leggi qui), accusato non però di scommesse? È passato troppo tempo. Un anno e mezzo. Cosa mai si può pretendere? Cancellare, resettare.

E allora è inutile star lì a ricordare, inutile star lì a ripescare dagli atti, dalle foto, dalle parole. Inutile rinvangare il passato. O forse no. Ad esempio. Era il 2016 quando in una conferenza stampa la Figc annunciò l’accordo di sponsorizzazione con una società di scommesse, un brand leader nel mondo del betting, uno dei maggiori concessionari di gioco in Italia. La maglia azzurra con lo sponsor tra le mani dell’allora segretario generale (sarebbe meglio dire dg) della Federcalcio Michele Uva, il brand fu annunciato come premium sponsor delle nazionali italiane di calcio fino a tutto il 2018,  lo sponsor visibile negli allenamenti (e nei pre e dopo-partita), in campo con tutte le maglie azzurre disponibili: dall’Under 15 alla Nazionale maggiore. L’allora presidente Figc Carlo Tavecchio presentò la partnership come base di un progetto culturale per veicolare il gioco consapevole e responsabile: «È una partnership incentrata sui valori, una parte fondamentale dell’accordo prevede l’impegno in attività sociali, rafforzando così il lavoro della Federcalcio nella promozione della cultura della legalità e per la diffusione di comportamenti consapevoli all’interno del mondo del calcio».

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Tuoni, fulmini e saette. Pochi giorni e il brusco dietrofront, dopo una campagna arrivata anche su parte degli scranni in Parlamento. Il dietrofront fu affidato a una “velina” dell’Ansa, mica in prima persona. Questa, nel dettaglio: “Nessuno sponsor sulla maglia della Nazionale. È bene chiarire che accordi di questo tipo non prevedono alcun logo sulla maglia, che rimane del tutto pulita (come da regole Fifa), e neppure sulle tute. L’immagine che si vede in giro è solo una photo opportunity, un dono di tipo personale come quelli fatti tante volte a sponsor, politici, appassionati e giornalisti”. Quindi una photo opportunity, un dono, un omaggio, un cadeau come di solito si fa a politici e giornalisti: così c’era scritto nella velina. Veline che passano e ripassano adesso, parole che risuonano e che si ripetono da anni. In fondo politici e giornalisti anche adesso di questo discutono, anche su questo fanno distinguo, anche di questo scrivono e sentenziano, sempre preoccupati e definitivi pur senza ancora il quadro (almeno parziale) della vicenda: scommesse legali e illegali, opportunità, moralità, ipocrisie, caccia alle streghe e ai delatori.

Se ne leggono, se ne sentono e se ne ascoltano tante. Almeno dal 2018: il “Decreto Dignità” che vietava le forme di sponsorizzazione dirette e indirette e «qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro, effettuata su qualunque mezzo di comunicazione e durante le manifestazioni sportive, artistiche o culturali» era appena stato approvato ed ecco venir subito giù una valanga di critiche, battaglie, richieste. Continue preghiere ed estenuanti pressioni dal mondo dello sport, soprattutto da quello del calcio: a sgranare il rosario basterebbe digitare adesso sul motore di ricerca di Google date, nomi e riferimenti per ri(scoprire) come da cinque anni il sistema calcistico nazionale – dal presidente Figc Gravina a quello della Lega serie A (ce ne sono stati tre di presidenti nel breve lasso di tempo), dal presidente del Coni Malagò fino all’attuale ministro dello Sport Abodi passando per politici, presidenti di club, giornalisti e opinionisti – chieda che quel decreto venga, se non abolito, almeno sterilizzato. Numeri, parole, strali. “Perché è un’ingiustizia, perché è una finzione, perché causa ingenti danni allo sport e al calcio italiano che organizza le manifestazioni e non può ricevere incassi da chi organizza legalmente le scommesse favorendo quelle illegali e quindi la criminalità, perché è un’ipocrisia”. Ecco, a proposito d’ipocrisia: perché – ma come semplice avvertenza come si fa nei bugiardini dei prodotti farmacologici – i quotidiani o le emittenti radiofoniche o televisive che indirettamente e lecitamente dal mondo delle scommesse legali ricevono forme di pubblicità e sponsorizzazioni, non dichiarano questi accordi (non le cifre) accanto agli editoriali che distinguono, che sentenziano, che differenziano (già che si trovano, potrebbero pure farlo le testate che hanno accordi di partnership o scambio merci con le istituzioni sportive e calcistiche nazionali)? Avanti nella confusione, avanti distinguendo tra scommesse legali e illegali, come se fosse questo il nodo.

Perché è comunque vietato per un tesserato giocare su siti legali o illegali, eppure rischia di passare (sta passando) questa “sottile”, effimera differenza. Persino il ministro Abodi vi è inciampato ieri l’altro mentre era a Capri, al convegno dei giovani industriali e che in un colloquio con l’inviato de “La Stampa” ha detto: «Deve essere chiara la differenza tra gioco legale e illegale. Il gioco legale è trasparente, ha dei limiti alle somme che si possono spendere e i pagamenti sono tracciati. Il gioco illegale non ha nulla di tutto questo. Si deve contrastare la ludopatia, che è espressione di un disagio sociale, ma non si può rendere clandestino un settore economico che è regolato dallo Stato e dal quale lo Stato trae benefici».

A difesa del fortino calcio il ministro, e a difesa pure di chi politicamente (la Lega) o calcisticamente (Lotito) chiede conto di quest’ennesimo scandalo alla Figc e al suo presidente. Che è anche presidente del Club Italia. Se nemmeno l’Assocalciatori presieduto dal vice-presidente federale Umberto CalcagnoScommesse dei calciatori? Non si parla di illeciti ma di giocate che non hanno inciso sulla regolarità delle gare. Il sistema ha fatto formazione, evidentemente non è bastato a creare anticorpi») non si è mai accorto di nulla come si può pretendere (!?) che il presidente della federazione che sovraintende anche all’organizzazione di tutte le nazionali possa essere responsabile delle trasgressioni di alcuni nazionali, e figurarsi di quelli che in nazionale mai ci sono stati e mai ci arriveranno? Alimentare questa responsabilità precisa è un’assurdità, ma alimentarla e farla alimentare da alcuni quotidiani serve anche per “aggirare” la vera questione, per difendere chi governa il sistema calcistico e per evitare di occuparsi delle reali responsabilità. Certo, l’attenuante anche qui è stata già servita: il sistema da anni prevede e mette in campo azioni d’informazione e prevenzione nei confronti dei calciatori. E altre, adesso, ne metterà in campo: c’è da scommetterci.

“Integrity tour” si chiama. Un viaggio tra i calciatori e tra i club del calcio italiano. Un pianeta di extraterrestri dove mai nessuno, tranne sempre dopo che l’ennesima bomba sia scoppiata, si accorge mai di qualcosa. Niente. Tutti troppo presi da altro. Ma poi: nei club esistono ancora dirigenti che abbiano il tempo e l’esperienza di accorgersi da uno sguardo, da un comportamento, da una partita, che qualcosa non vada all’interno del proprio club? E che dire dei procuratori, “professionisti” pagati fior di quattrini dai calciatori professionisti sempre a caccia di nuovi contratti che non colgono mai un’abitudine deviata, un malessere, una sofferenza, dei propri assistiti? Possibile che se tra tanti calciatori che scommettono (legalmente o illegalmente) non ci sia almeno un dirigente oppure un procuratore che scommetta, legalmente o illegalmente? Scommesse legali o illegali, sempre scommesse sono: si punta e si sommette sui gol, sulle vittorie, da un po’ persino sul numero di angoli, ammonizioni, espulsioni. Come si fa a non pensare come un calciatore possa anche indirettamente “alimentare” una giocata anche su siti legali, magari facendo una soffiata all’amico, al parente, ad un conoscente? Prendersi un cartellino in fondo è un gioco da ragazzi. Qualche mese fa c’è stato persino un tesserato Aia che ha telefonato due ore prima di una partita a un arbitro (Rapuano) per informarsi di cosa ne pensasse delle ammonizioni (leggi qui).

«Il 70% dei calciatori italiani scommette, questo avevo colto dalla mia indagine, me lo avevano confessato i calciatori»: l’ha ricordato ieri l’altro l’ex pm della Procura della Repubblica Roberto Di Martino che condusse un’inchiesta (era il 2011) sul mondo delle scommesse calcistiche. Sono passati più di dieci anni. Anche allora arrivarono i distinguo, anche allora alla spettacolarizzazione subentrò la normalizzazione. Accadrà anche stavolta. È già tutto scritto: i patteggiamenti, le note stampa dei club che s’affrettano a rivelare come non fossero a conoscenza e che poi subito si sono attivati con la procura federale (da notare il comunicato con quel “ha tempestivamente e immediatamente preso contatto con la Procura federale Figc” della Juventus del 13 ottobre sul “caso Fagioli” in risposta alle illazioni di Corona, calciatore ascoltato in procura il 28 settembre (Chinè però riceveva le carte da Torino il 5 settembre, e prima ancora il 29 agosto veniva contattato dai legali di Fagioli) e chissà se nella visita di cortesia del 20 settembre di Ferrero e Calvo in via Allegri non si fosse parlato anche di questo) le iniziative del sistema come quelle annunciate dalla Figc e dal presidente Gravina (“La Figc vuole dare un segnale forte”, titolava stamattina “La Gazzetta dello Sport”) e anche dalla Lega serie A. La stessa Lega che qualche anno fa aveva (pare a sua insaputa) come partner per le trasmissioni delle gare all’estero un’agenzia di scommesse di origine russa e con trascorsi non troppo trasparenti. Eppure era il “presenting partner” internazionale della serie A.

È già venuta fuori la terapia, e ci resterà ancora per molto, almeno fin quando non verrà abolito o sterilizzato quel divieto: a pensarci, forse hanno ragione loro, è tutta colpa del “Decreto Dignità”. Viene aggirato da anni, però forse è meglio abolirlo. Hanno ragione loro: via l’ipocrisia. Meglio guardare in faccia la realtà. In fondo quotidiani e settimanali pubblicano nelle pagine una serie di pubblicità legate alle scommesse, gli inserti settimanali dedicati alla comparazione delle quote si sprecano. Una valanga. Come quella che viene giù nel corso di trasmissioni radiofoniche e televisive, mica soltanto durante la trasmissione delle partite quando, annunciato da un gingle, compare la quota in un riquadro sullo sfondo verde. L’intervallo della partita di turno, l’intervallo che rimbalza nello studio, riempito ogni volta da un rimando alle quote live che spot e signorine sorridenti propongono, suggeriscono, indicano. Come ha sottolineato Angelo Carotenuto su “Lo Slalom” secondo l’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) è tutto nella norma: non è pubblicità, è uno spazio d’informazione pure questo.

E qualcuno nel mondo dell’informazione deve averlo recepito alla lettera: ci sono gruppi editoriali e broadcaster che infatti si sono messi in proprio, fondando agenzie on line legali. Basta un clic, basta iscriversi e poi collegarsi al sito. E infine giocare, puntare, azzardare. È tutto fun. È un mondo (economico) da difendere. A tutti i costi.

Perché il calcio italiano è tutto ammantato di scommesse, è una scommessa nella sua stessa traballante esistenza. È tutto un invito alla giocata, all’azzardo, alla vincita: è l’aria, è l’ossigeno che respirano i calciatori e gli spettatori, gli sportivi e i tifosi, i giovani, le donne e gli anziani. Perché far finta di nulla, perché continuare poi ad aggirare la legge? Ad esempio, perché costringere le società di calcio a chiudere accordi con brand di società e agenzie di scommesse senza che possano però presentarli per quello che sono, invece costrette entrambe le parti a mascherarlo, ad aggirarlo quell’accordo. Come fanno? Basta modificare la parte finale del logo, del brand, della scritta: aggiungere dopo il punto termini come news, tv, informazione. È un gioco. Anzi, un giochetto.

Dai dati presi sui siti ufficiali dei venti club di A: solo Atalanta, Genoa, Frosinone e Empoli non hanno chiuso accordi per quest’anno. La sponsorizzazione indiretta compare sue due maglie: su quella del Lecce e su quella della Salernitana, lo sponsor è il secondo sponsor sulla casacca di gioco. Il resto è nell’elenco: Bologna (top partner), Cagliari (premium partner), Fiorentina (infotainment partner e value-sources partner), Napoli (official partner), Lazio (premium partner), Verona (premium partner), Udinese (premium partner), Juventus (partner), Inter (official training kit partner e value added services partner), Milan (premium partner), Roma (infotainment partner), Monza (main partner), Torino (partner) e Sassuolo (official infotainment partner).

E mentre il pallone rotola su un campo di serie A, mentre trasmissioni e partite di calcio sono interrotte dalla comparazione delle quote, sui cartelloni a bordocampo degli stadi di serie A compaiono scritte, loghi, brand legati alle scommesse legali. Compagne di viaggio di calciatori, dirigenti, tifosi e spettatori. Tutti potenziali scommettitori. Tutti, seguendo le parole del ministro Abodi che rivendica “il diritto alla scommessa”, che avrebbero diritto alla scommessa e dunque all’accesso. In Inghilterra, lì dove il mondo delle scommesse è nato e lì dove per anni ha finanziato anche il mondo del calcio, dopo una serie di norme (poco) restrittive quest’estate è stata approvata una norma (hanno detto sì 18 dei 20 club di Premier League) che prevede come entro il 2027 si arrivi alla definitiva abolizione della possibilità di chiudere accordi, diretti e indiretti, con società del betting.

In Inghilterra intanto domani la Nazionale di Spalletti proverà a far risultato sul campo, e gli sponsor della Nazionale si augurano anche un risultato positivo nello share. Share che, si immagina, toccherà vette d’ascolto finora mai nemmeno sognate il programma “Avanti Popolo”, condotto su Rai Tre da Nunzia De Girolamo. Domani ha tra gli ospiti Fabrizio Corona, pronto a far nuovi nomi nello “scandalo del betting”, ormai calato nelle vesti di giornalista d’inchiesta che detta il ritmo e il tempo. Un ex ministro della Repubblica che da conduttore tv intervista sulla tv di Stato un pregiudicato (sentenza confermata dalla Cassazione) per giunta condannato per estorsione ostativa: alzi la mano chi, solo una settimana fa, ci avrebbe scommesso una lira. Anche solo una lira. Così. Per gioco.

 

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