Cerca
Close this search box.

Malagò e il Coni vietato da finzioni di Stato: Meloni e Abodi premiano e salvano solo l’ancien regime federale. Palla a Corte Costituzionale

Tiene banco la vicenda su proroga, rinnovo o chiusura per il presidente del Comitato olimpico nazionale mentre si muove la politica ed emergono i nomi dei primi candidati: Casasco, Salis, Bianchedi, Pancalli spinto da Pagnozzi, Zaia e persino Carraro... Aggirata la norma che ha abolito il limite dei tre mandati, il profilo di incostituzionalità e la strada dei ricorsi anche al Tar Lazio. La partita non è finita
Meloni, Malagò e Abodi all'Olimpiade di Parigi

L’affare Malagò, più e prima ancora che la questione Coni, tiene in sospeso, avviluppato e avvinghiato, il mondo politico e quello sportivo. Va avanti così da giorni, anzi da mesi; anzi per meglio dire da almeno un anno e mezzo, da quando cioè in una notte d’estate, sotto la regia del deputato e capogruppo forzista Paolo Barelli (potente presidente della Federnuoto sulla quale regna da ben sette mandati) e del fedele collega forzista Casasco (braccio destro del ministro Tajani) il Parlamento italiano disse sì a un emendamento (infilato in un decreto della Pubblica Amministrazione) grazie al quale, in barba alla legge numero 8 del 2018 (la famigerata legge che porta il nome del ministro renziano Luca Lotti) veniva abbattuto lo storico limite dei tre mandati. Un provvidenziale salvataggio arrivato giusto pochi minuti prima dell’irreversibile naufragio: destinati all’oblio e a cedere un trono (con rendita) detenuto da decenni, 24 presidentoni (su 50) si ritrovarono così improvvisamente resuscitati da quella legge ed avevano poi cercato di giustificare il colpo di mano nascondendosi dietro una sentenza della Corte Costituzionale che, pochi mesi dopo, aveva giudicato illegittimo il limite dei tre mandati, ma con riferimento agli organi territoriali delle federazioni (che sono però cosa ben diversa dalla presidenza).

Insomma, varata la legge che cancella il limite dei tre mandati, i relativi beneficiari si sono nascosti dietro una sentenza della Corte Costituzionale che (lo vedremo tra poco) è stata fatta passare, all’italiana, per un “liberi tutti tranne uno”, dove il tranne uno è il presidente del Comitato olimpico nazionale italiano, cioè il presidente dei presidenti di federazione, cioè il presidente che dovrebbe portare avanti il movimento sportivo italiano e che dovrebbe controllare l’operato delle federazioni e dei loro rispettivi presidenti. Questo, perché il Coni è un ente pubblico mentre le federazioni sono enti privati (ma sul punto si tornerà meglio tra un po’).

Dopo il “libera e avanti tutti” sarebbe intervenuta qualche mese dopo l’operazione firmata in calce dal ministro dello Sport Andrea Abodi: per decreto veniva stabilito che i presidenti oltre il terzo mandato potessero sì candidarsi ma che per essere eletti, continuando beatamente a regnare, dovessero superare uno sbarramento superiore al 50% più 1 dei voti, e cioè dovessero conseguire i due terzi dei voti dei votanti, dunque superare il quorum del 66,7%. Inciso: a febbraio scorso e poi ad aprile, non paghi, sarebbe partita una fronda, capeggiata dai presidenti di lungo corso (tra cui Petrucci e il defunto Chimenti) che puntava all’abolizione del quorum maggiorato, portando avanti la questione nelle stanze di Palazzo H, lì dove sarebbe risuonata forte la voce proprio di Malagò che, difendendo l’impegno e l’onore del ministro (Abodi dovrebbe ricordarsene…, leggi qui e qui) avrebbe messo spalle al muro gli astanti prima che venisse riscritto e votato lo Statuto Coni con i nuovi principi informatori con cui adeguare quelli delle federazioni sportive. Una grazia (importante) i rivoltosi e longevi regnanti l’avrebbero comunque ottenuta dal ministro: in caso di mancato quorum (e mancata elezione propria o dello sfidante, dunque nel caso di nulla di fatto) i presidenti uscenti restano in carica (senza però potersi più ricandidare) per gestirla sino alle successive operazioni di voto potendo magari così scegliersi il delfino, il manichino, insomma il profilo più caro e vicino cui affidare il proprio regno potenzialmente condizionando la campagna elettorale.

Fatta la legge, e trovato l’inganno, sul tavolo scotta così da oltre un anno una sola questione: cosa fare di Malagò che è alla fine del suo terzo mandato, che non potrà più candidarsi mentre alle porte sta per irrompere l’Olimpiade invernale che si terrà in Italia e per la quale Malagò è presidente della “Fondazione Milano-Cortina 2026”? Concedere una proroga di un anno, concedergli la possibilità di un quarto mandato oppure tenere la porta chiusa, sbarrata, calata definitivamente? Da mesi si discute e si ipotizzano soluzioni politiche e legislative assai strampalate, provando a infilare un intervento ad hoc prima nel Decreto Omnibus (intervento saltato) prima dell’estate e adesso, ad esempio, nel Milleproproghe che viaggia insieme all’approvazione della Legge di Bilancio: i tempi sono sempre più stretti, e forse per questo anche il presidente Malagò qualche giorno fa ha detto come «entro fine gennaio si dovrebbe sapere, io non chiedo e non voglio chiedere più niente, chi lo fa lo sta facendo a titolo personale o d’amicizia o di apprezzamento visti i risultati».

La questione Malagò è diventata un caso di Stato. Sul versante politico tace la premier Giorgia Meloni mentre lavora sott’occhio (ma mica tanto) il ministro del Mef Giancarlo Giorgetti che mai ha amato (affetto ricambiato) Malagò. Dopo gli (stirati) sorrisi di due anni fa quando, pochi giorni dopo essere entrata a Palazzo Chigi, aveva incontrato il presidente del Cio Bach insieme al presidente del Coni, la Meloni ha lentamente fatto calare il gelo: già visibile un anno fa in tribuna all’Olimpico in occasione di una partita dell’Italrugby al “Sei Nazioni” (leggi qui), la premier ha disertato qualche giorno fa la cerimonia di premiazione dei “Collari d’oro” inviando però un messaggio celebrativo dei successi italiani nello sport e nell’ultima Olimpiade, senza mai far riferimento al presidente del Comitato olimpico. E mentre anche nel trasversale mondo politico si affacciano e si nascondono amici e avversari, amici finti e finti nemici, si segnalano solo in ordine cronologico le ultime parole pronunciate sulla questione da Abodi in risposta a quel «resto fatalista» pronunciato, sospirando, dall’amico Malagò… Così il ministro: «Il fatalismo è un buon modo per affrontare la vita. Siamo tutti artefici del nostro destino, i fatti sono noti ma con tutto il rispetto per gli avvenimenti che riguardano una sola persona, io resto al servizio di un’intera comunità». E ancora: «Ragioniamo per il bene comune. Con Malagò ci sono state delle incomprensioni, ma lo spirito di amicizia ci consentirà di dare dei segnali per il senso della nostra missione e del nostro dovere», provando così ad arrestare il corso di un fiume composto da frasi, veleni e stoccate riversatosi con prepotenza nel bel mezzo dell’Olimpiade parigina sullo sport tricolore, dandone un’immagine da retrobottega; e al tempo intanto gli strali venivano riservati anche alla Figc e al suo presidente Gravina, invitato (gentilmente) ad alzare i tacchi.

Il ministro che, appena quest’ultimo 30 novembre, aveva detto «troppe cose non sono state fatte negli ultimi quattro anni dal calcio e dalla federazione», è lo stesso ministro che da giorni sembra però abbia accantonato ogni pensiero sulle evoluzioni del mondo calcistico che poi è quello che tiene in piedi l’intero carrozzone, non una parola sulla scontata candidatura di Gravina al suo terzo mandato che plebiscitariamente verrà ratificato dalle urne il 3 febbraio quando potrebbe essere stato cioè già notificato l’annunciato (probabile) rinvio a giudizio del numero uno della Federcalcio per ora indagato (indagini chiuse) dalla Procura di Roma per autoriciclaggio. Gravina che pare ben spalleggiato trasversalmente dalla politica, con in prima fila, oltre le simpatie del centrosinistra, Forza Italia guidata dal vice-premier Antonio Tajani mentre Lega e Fratelli d’Italia sembrano contrarie.

Eppure, a proposito di mandati e abolizione al limite dei mandati, lavora l’altro vice-premier: Matteo Salvini vuole che Zaia continui a governare il Veneto e che lo faccia proprio mentre si disputerà l’Olimpiade invernale, e per questo quindi lavora all’abolizione del limite dei tre mandati. Se accadesse per la politica, accadrebbe anche per il Coni, che è Ente pubblico?

«Quarto mandato? Rispondo a chi dice che c’è una legge dello Stato, è vero ma bisogna raccontarla tutta, perché la legge dello Stato è cambiata due volte per tutti eccetto che per il Coni. Se la legge fosse rimasta com’era all’inizio non ci sarebbe nulla da dire ma siccome qualcuno ha aperto a tutti e per uno strano gioco della vita anche a chi oggi è a capo di un Ente pubblico, prendi il Cip, alla fine della fiera, l’unica sedia rimasta fuori è quella del Coni. Di fatto si è creata una legge ad entem più che ad personam»: visti i fatti (considerato persino che Angelo Sticchi Damiani ha ottenuto con il 90% dei voti il suo quarto mandato di fila alla guida dell’Aci, l’Aci è Ente Pubblico ma sostiene di essere federazione sportiva e si appiglia dunque alle leggi sportive sulle federazioni, enti privati, per farla franca), come dare torto allora a Gianni Malagò, a prescindere da simpatie e antipatie, da risultati e gestioni, da amicizie e favori? Come non porsi un serio problema sulla figura di chi dovrà condurre e guidare un movimento olimpico che per medaglie, allori, fama e immagine è nella top-ten mondiale, specie se questa scelta avverrà su basi politiche, se sarà condizionata da ostracismi e veleni, se non verrà fatta sul merito, se nel sistema sportivo italiano sembra esistano leggi in contraddizione tra loro?

Sono, questi, giorni di grandi manovre. Si muove la politica, e si muove lo sport. «Se non potessi candidarmi, non appoggerò nessuno, non sarebbe giusto. Lo farei solo se ci fosse un candidato che sfrutti appoggi del mondo della politica e non quelli dello sport», ha detto soltanto pochi giorni fa Malagò mentre in superficie e in sottofondo appaiono (e scompaiono) ipotesi, congetture, sponsorizzazioni, candidature. Sembra se ne stiano tutti in coperta, eppure i nomi circolano, dividono e corrono sopra un filo esile, sottile, traballante. C’è chi ipotizza la candidatura del presidente Cip (Comitato italiano paralimpico, anch’esso ente pubblico) Luca Pancalli dietro il quale si muoverebbe l’ex segretario generale del Coni Raffaele Pagnozzi, sconfitto proprio nel 2013 da Malagò. È data per super attiva (specie nei salotti romani) l’attuale vice-presidente del Coni Silvia Salis e, a proposito di ex atlete, si fa anche il nome dell’ex schermitrice Diana Bianchedi mentre nell’ombra si muove (eccome se non si muove) l’onorevole di Forza Italia Maurizio Casasco da poco rieletto (è in carica dal 2005) a capo della Federazione medici sportivi italiani e legatissimo all’onorevole forzista Barelli, avversario antico di Malagò. Sul fronte politico ci sarebbe poi sempre l’ipotesi Zaia se non dovesse restasse governatore del Veneto, lì dove tra l’altro è in bilico la candidatura di un leghista, perché Fratelli d’Italia e Forza Italia pensano ad altro. E c’è persino, oltre al profilo dell’immancabile Luca Cordero di Montezemolo, chi ha fatto circolare il profilo dell’ottuagenario Franco Carraro (o anche, del figlio Luigi che pareva destinato, su pressioni governative, alla Lega B e che poi proprio dalla stessa politica è stato stoppato) che intanto si è così invece espresso sulla questione Malagò: «Malagò? Avrà dei difetti ma il suo affetto per gli atleti è unico. Il prossimo n.1 del Coni? Non ho un nome. Nel 2026 ospiteremo i Giochi invernali di Milano-Cortina e quelli del Mediterraneo a Taranto, importanti per il governo a causa del Piano Mattei. Spero che, rispetto a una riforma che preclude a Malagò un altro rinnovo, ci sia una deroga. Si rischia di rompere un equilibrio».

Intanto, è stata fissata la data elettorale: gli 83 votanti infileranno il 26 giugno la scheda con il nome del presidente del Coni. Sarà inizio estate mentre adesso, in questi giorni di freddo, sta concludendosi la lunga, velenosa e tortuosa tornata elettorale per le presidenze delle federazioni sportive. Su 50 federazioni, 24 presentavano candidati presidenti oltre il terzo mandato di fila. In attesa di conoscere i presidenti Figc (si vota il 3 febbraio con unico candidato Gravina, si voterà il 3 febbraio anche nella Federgolf dove c’è da sostituire il defunto Chimenti, eletto in estate col settimo mandato) e Federciclismo (si vota il 19 gennaio come per la federazione rotellistica nella quale Sabatino Aracu insegue il suo nono mandato di fila, è in carica dal 1993 e non ha intenzione di mollare) come sono andate le elezioni, quali conclusioni bisogna trarre? Si è andati incontro all’auspicato ricambio così come pure auspicava la legge, è filato tutto liscio, c’è stato spazio per un ampio dibattito democratico e partecipativo? Alle domande, rispondiamo con i dati di fatto.

La stragrande maggioranza (oltre il 95%) dei presidenti oltre il terzo mandato, è stata rieletta. In molti di questi casi (quasi tutti) l’unico candidato presidente era quello oltre il terzo mandato. In tutti questi casi, è stato rieletto con maggioranze bulgare, pari se non superiori al 95% dei voti espressi. C’è stata solo una sorpresa-rovesciamento: nella Fir (rugby), dove però l’uscente e sconfitto Innocenti inseguiva il secondo mandato, mentre in molte federazioni si è assistito a uno spettacolare e desolante confronto fatto di scontri, ricorsi, denunce, esposti, promesse, prebende, incarichi ed estromissioni, spesso decise da organi estranei allo sport (o da organi di giustizia sportiva nominati dai presidenti-uscenti-candidati) senza però che la parola sport mai comparisse.

In primavera c’era stato il ricorso vittorioso di Roda nello sci (leggi qui). L’estate era invece proseguita coi veleni nel nuoto (bocciato il ricorso del deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli, leggi qui) e poi si è proseguito così: nell’atletica (ha rivinto Mei, bocciato il ricorso di Leone), negli sport equestri (vincente l’uscente Di Paola), nel tennis Binaghi (Barazzutti a bocca asciutta), nel basket che ha appena riconfermato Gianni Petrucci al suo quarto mandato di fila (la prima volta nel basket fu nel ’93, bissando poi per il quadriennio successivo prima di passare al Coni, anche qui quattro mandati – all’epoca si poteva – per poi tornare al basket) e l’elenco potrebbe continuare (quasi) all’infinito. È capitato anche che un presidente passi da una federazione all’altra pur senza che tra queste vi siano affinità (Miglietta stava prima al Badminton e ora, col 98%, è passato alla federazione pesi), ed è plasticamente evidente come i “dinosauri” sportivi continuino a regnare indisturbati, dopo il via libera della scorsa estate, sfruttando un indubbio vantaggio. E così Barelli è al suo settimo mandato, Binaghi (altro acerrimo rivale di Malagò) al tennis dal 2001, Aracu dal ’93 come Luciano Rossi alla Fitav, capita che Iacoianni (Motonautica) dopo 27 ininterrotti anni lasci il timone e la barca al fidato Viscione perché desidera fare solo il consigliere federale e, a proposito di barche, che solo in una federazione dove era presente un candidato oltre il terzo mandato (canottaggio) l’uscente Abbagnale abbia ceduto il timone a Tizzano.

E allora? Allora non resta che provare a scrivere una sorta di lettera (come faceva in tv un fenomenale e inimitabile Andrea Barbato) e entrare brevemente – carte e legge alla mano – nel merito di una questione (scomoda) che pare nessuno voglia davvero affrontare, e che va ben oltre la difesa (o l’attacco) sulla vicenda Malagò. E allora, provando a far cadere finzioni, ci proviamo.

Illustre presidente del Consiglio Giorgia Meloni, caro ministro dello Sport Andrea Abodi, cari Barelli, Casasco, Chimenti (purtroppo deceduto), da poco Petrucci e tra poco (il 3 febbraio) anche Gravina… Ma siamo proprio sicuri che la sentenza della Corte Costituzionale (numero 183/2023) volesse la rielezione in blocco di tutti questi presidenti di lungo corso, che da anni e anni (assieme ai loro fidati) determinano gli indirizzi delle federazioni sportive di rispettiva appartenenza e vi esercitano un potere incontrastato (domandare a Rampelli e Valori per fare un piccolo esempio)?

Falso, falso, falso. Diversamente da quanto i diretti interessati hanno voluto far credere all’indomani del “d.l. Abodi” del 31 maggio 2024 (quello che ha previsto la possibilità dei presidentoni di essere rieletti anche oltre il terzo mandato purché con percentuale superiore al 66% dei consensi), la Corte Costituzionale non era affatto di questa idea.

La Corte aveva detto che una norma che limita la possibilità di essere rieletti svolge una funzione meritevole che è quella di «stimolare e sostenere un […] ricambio direttivo ai vertici delle federazioni sportive nazionali», di sottrarre «le federazioni sportive nazionali al rischio di cristallizzazioni nell’assetto gestionale» e di «garantire efficienza e credibilità alle istituzioni sportive del nostro Paese». Il divieto di rielezione oltre i tre mandati – aveva spiegato la Corte – «tutela anche l’interesse della federazione, la cui efficienza e la cui imparzialità potrebbero essere compromesse dalla formazione di un “gruppo di potere” interno all’organo direttivo, che ne metta a rischio la stessa autonomia e che impedisca il fisiologico ricambio della rappresentanza». Dunque la Corte Costituzionale ha ribadito che la rotazione nelle cariche è la migliore medicina per la democrazia interna di ogni federazione. Ma allora (si domanderà il lettore) che cosa è, e perchè, la Corte Costituzionale ha annullato? La Corte ha annullato il tetto dei tre mandati solo per gli organi periferici delle federazioni (dove le cariche sono gratuite e spesso non si trova neppure chi è disposto a sacrificare il suo tempo libero per svolgere i relativi compiti). Nulla invece ha detto la Corte quanto al limite dei tre mandati per le cariche negli organi direttivi nazionali e per la presidenza (dove invece non mancano compensi e potere). È dunque corretto e certamente vero pensare che, chiamata a pronunciarsi sui presidenti nazionali, la Corte Costituzionale avrebbe confermato la regola della rotazione dopo i tre mandati (che sono comunque già una vita…). Tant’è: per gli interessati la Corte Costituzionale avrebbe invece detto che il principio di rotazione sarebbe incostituzionale; e, come c’era da attendersi, i fatti hanno purtroppo dimostrato che la rotazione nelle cariche delle federazioni sportive non è per nulla garantita dalla soglia del 66%: uno a uno, infatti, i presidentoni sono stati tutti rieletti. Nemmeno in politica (e persino dopo che i M5S hanno abolito il divieto di terzo mandato) la rielezione è poi così sicura….

Non c’è dunque miglior prova che il d.l. Abodi sull’abolizione del divieto del quarto mandato è chiaramente incostituzionale e lo è esattamente per le stesse ragioni indicate dalla Corte Costituzionale nella sentenza 183/2023. Alla faccia del principio di democrazia interna e di rotazione nelle cariche, i risultati delle elezioni delle federazioni di questi mesi e di questi ultimi giorni ci dimostrano infatti come per i “gruppi di potere” che governavano sia stato un gioco da ragazzi superare il 66%.

Ovviamente, non è detta l’ultima parola. Non è infatti escluso (anzi, è auspicabile) che qualche candidato non eletto possa nuovamente interessare la Corte Costituzionale della questione. Magari potrebbe farlo proprio l’avvocato Valori, che di queste problematiche certamente s’intende.

E non è difficile pensare che la soglia del 66% sarà sicuramente ritenuta incongrua dalla Corte: al candidato che magari governa la Federazione da tre lustri o più si è chiesto di avere appena il 15% in più della maggioranza del 51%, cioè quella comunemente richiesta per essere eletti. Una miseria rispetto al peso del potere egemonicamente esercitato per anni dentro la federazione: chi è in carica da anni, ha da anni amministrato la giustizia (vedi ad esempio Fiv, leggi qui) dispensato incarichi, nomine, contributi e onorificenze; come si può soltanto ipotizzare che tutto questo non sia in grado di mettere fuori gioco chiunque voglia proporsi per dare un nuovo volto a una federazione? La vicenda Petrucci (l’ultima elezione in ordine cronologico) è emblematica: candidarsi contro un presidentone è, allo stato attuale, una missione impossibile. È come se in una gara di distanza, dopo che il presidente uscente ha scelto data della gara, percorso e giuria, allo sfidante fosse concesso un vantaggio di pochi metri..

Dunque, la parola alla Corte Costituzionale. Prima, ovviamente, al Tar del Lazio, un’istituzione quest’ultima che di recente ha mostrato notevole sensibilità per i diritti anche nel mondo sportivo e che, non a caso, ha interpellato persino la Corte di Giustizia UE per far sì che le condanne disciplinari sportive, quando sono ingiuste, possano essere cancellate (oggi si può avere solo il risarcimento del danno… col paradosso che se il Tar dice che la sanzione era sbagliata non si può comunque non continuare a scontarla nell’ordinamento sportivo, cosa che per molti significa perdere il lavoro…).

D’altra parte, la bizzarria del sistema è tale che mentre i presidenti di lungo corso continuano ad avere vita facile, diverso è il trattamento che viene riservato al presidente del Coni. Gli avversari di Giovanni Malagò si trincerano dietro l’affermazione che le federazioni sportive sono soggetti privati mentre il Coni è un ente pubblico.

Ma questa è la balla delle balle.

E non lo diciamo noi, lo dice la Corte Costituzionale. Nella stessa sentenza 183/2023 la Suprema Corte è stata infatti netta nel ricordare che le federazioni sportive costituiscono «un fenomeno organizzativo nel quale la connotazione privatistica della forma associativa rivestita dalle stesse federazioni convive, per definizione, con la valenza pubblicistica di parte delle attività svolte».

Che cosa vuol dire? Vuol dire che, per la Corte Costituzionale, le federazioni sono in parte soggetti privati e in parte soggetti che, pur privati, esercitano funzioni di diritto pubblico normalmente proprie di enti pubblici. La tanto sbandierata differenza tra federazioni e Coni è dunque un argomento debole.

Anzi, un argomento debolissimo se si considera che anche il Coni è un soggetto pubblico sui generis. Normalmente infatti il presidente di un ente pubblico non è eletto dagli associati dei soggetti controllati, ma è nominato dallo Stato. E, per il Coni, l’elezione ad opera dei presidenti delle federazioni si spiega con il fatto che, nel 1914, il Coni nacque come soggetto privato su iniziativa comune delle federazioni, che cercavano un soggetto terzo al quale affidare la gestione dei compiti di preparazione olimpica. Dunque, le federazioni sono soggetti privati a metà, ma anche il Coni è un soggetto pubblico a metà.

Non si spiega allora perché i presidenti delle federazioni possano essere rieletti anche a vita mentre il presidente del Coni (che fa anche lui parte dell’ordinamento sportivo e che viene eletto dai presidenti delle federazioni) può restare in carica soltanto per un certo numero di mandati.

La conclusione è facile. Tutto il sistema è illogico e non è per nulla ispirato a una ragionevole visione complessiva del “sistema sport”. Sarà casuale che la riforma è stata voluta e votata da una maggioranza di governo che ha al suo interno due presidentoni (Barelli e Casasco) e che sia proprio quella stessa maggioranza a impedire che lo stesso trattamento venga riservato al presidente del Coni? Certo Malagò ci ha provato: il 16 dicembre ha dato a Barelli (capogruppo di FI alla Camera) il Collare d’oro; ma basterà l’agognato Collare a far cambiare idea a Barelli che presidia la Camera, forte anche della presenza di Casasco (altro presidentone beneficiario della riforma al 66%)?

 

© 2024 Riproduzione riservata

Correlati