Franco Baresi, detto pure kaiser Franz, in campo venticinque giorni dopo l’operazione al menisco, recuperato in extremis senza mai mettere il piede sul prato ma solo sul fondo di una piscina, lui che non sa nuotare e nell’acqua piena di cloro e speranze s’immerge col ciambellone, tira alle stelle. Sballa e sbaglia pure Massaro, compagno al Milan e compagno di sventura: proprio loro, i preferiti di Sacchi. L’ultima speranza di un torrido e tardo pomeriggio italiano si chiama Roberto Baggio ma nemmeno lui salva l’Italia: dai rigori, dallo scoramento, dall’incredulità, dal senso di vuoto, dalla delusione. Il tiro del divin Codino è una freccia spuntita che si perde nello spazio, ed è quella che consegna alla sconfitta, al pianto, all’incredulità. La maledizione dal dischetto diventa il “Dramma di Pasadena”, il tempio del football americano, lì dove il 17 luglio del 1994 si consuma la più amara e cruenta rivincita del calcio mondiale. E’ il Brasile che vince dodici anni dopo l’epico e indimenticato pomeriggio del Sarrià. E’ il Brasile che finalmente può sorridere due mesi dopo un’altra tragedia nazionale perché al Gran Premio di Imola l’anima e il cuore di Ayrton Senna sono usciti alla curva del Tamburello e sono volati lì, in cielo dove è finito pure il pallone di Roby Baggio. Due mesi dopo invece è un altro tamburo a battere, ed è un rintocco deciso, senza appello, senza ritorno. L’unico rumore dentro una finale monocorde, melensa, monotona, mascherata. Il Brasile entra nella storia del calcio: verdeoro tetracampeao, sono loro i primi a vincere quattro volte i Mondiali. Baresi piange a dirotto, è lì inginocchiato e nessuno riesce a consolarlo, ad arrestare quel fiume di acqua e disperazione, a portarlo via dal patibolo in diretta planetaria. E’ il fotogramma che resta, è l’ultima immagine delle telecamere prima che venticinque milioni di italiani spengano la tv: il piscinin a terra che piange, che piange proprio come un bambino. Lacrime irrefrenabili, come le lacrime di un ragazzino – lacrime incredule, orgogliose e fiere – di dodici anni prima e che, dodici anni dopo, proprio nello stesso momento e in quel giorno torrido, torna a sorridere, ricomparendo sulla scena: “Volevo vedere come andava, avevo paura di essere di nuovo il simbolo della tristezza del Brasile”.
Trenta secondi, mancano soltanto trenta secondi ma pure le lancette del tempo si sono fermate, come avvizzite, arse dal caldo. Sono immobili, impalate davanti a quello spettacolo di assalti disperati e difesa a oltranza, di ripartenze brucianti e di resurrezioni benedette. Klein pensa al figlio in guerra mentre ha il fischietto in bocca ma niente, indica il calcio d’angolo mica la fine di quel supplizio. Non si respira al Sarrià, non si respira in Italia e non si respira nemmeno dall’altra parte del Globo, in Brasile: 60 milioni da una parte, 120 milioni dall’altra, e tutto il pianeta che non stacca gli occhi dalla tv. Non si respira nemmeno nell’area di rigore italiana, intasata da ventuno anime mentre Eder spazza via il cartellone pubblicitario della Coca Cola (quella che si prenderà i Mondiali del ’94) perché con quel suo sinistro potente e affilato ha l’ultima possibilità di cambiare il destino di una partita che pareva senza pronostico e invece tutto è andato magnificamente all’incontrario per l’Italia. La parabola disegna un pallone arcuato e maligna ma i pugni di Zoff lo respingono, Cabrini di testa lo allontana mentre subisce fallo, preso da quei muscoli di simpatia e nervi che rispondono al nome di Toninho Cerezo. Passano altri trenta secondi, il doctor Socrates tenta il furto però la quercia friulana allunga le braccia. Klein finalmente fischia. E’ finita, la più incredibile partita di qualsiasi Mondiale, la più emozionante partita di sempre, ha emesso il verdetto: l’Italia in semifinale, il Brasile torna a casa.
È il 5 luglio del 1982, e mentre Dino Zoff bacia sul collo Enzo Bearzot, mentre Paolo Rossi (ri)diventa Pablito (ribattezzato così quattro anni prima al Mondiale di Argentina, leggi qui), sulle tribune del Sarrià si dividono gioia e dolore. È la fine di un dolore per Rossi (condannato due anni prima, leggi qui), l’inizio dei tormenti per i verdeoro. Sventolano le bandiere tricolori, piange la torcida. Piange pure Josè Carlos Vilella junior. Ha nove anni, è in piedi in tribuna autorità, suo padre è il legale della Fluminense e amico di Joao Havelange, il potente e discusso presidente della Fifa. Indossa la maglietta del Brasile Josè Carlos, al suo fianco c’è la mamma, ex Miss Fluminense. Bella, bellissima. Ma anche i belli e ricchi piangono. Anche lei piange. Prova ad asciugarsi il viso, a ricomporsi il trucco sbavato sulle guance che cola, ed è un altro fiume in piena. Dal campo la scorge Reginaldo Manente, celebre fotografo del quotidiano “Jornal da Tarde”, già tre premi Esso ricevuti come miglior fotografia dell’anno. Cerca lo scatto che racchiuda quella partita senza senso, quella che ha gettato un’intera nazione nello sconforto: sette infarti, quattro suicidi e un omicidio in un bar solo nelle prime ore dopo la tragedia calcistica. Sa bene Reginaldo che una foto, spesso, vale più di mille parole. Sa bene che uno scatto può racchiudere emozioni, sensazioni, umori. Una foto a volte non ha bisogno nemmeno del titolo: è la foto che diventa prima pagina. E allora scavalca la barriera protettiva mentre la Guardia Civil tiene a freno la gioia azzurra, si arrampica sulla tribuna e mette a fuoco l’obiettivo. E’ un istante, come quello che minuti prima ha consentito a Paolo Rossi di rifilare la terza zampata a quel Brasile così troppo sicuro di sé, così sicuro di vincere anche se gli sarebbe bastato un pareggio per passare e invece dopo il secondo gol segnato da Falcao, avanti tutti e tutti a testa bassa. Anche la mamma di Josè Carlos china la testa, Carlos Manente allora si sposta mentre i suoi occhi si spalancano. Davanti a lui c’è un bambino, non avrà dieci anni. Piange a dirotto, composto nel suo dolore. La maglietta è gialla così come il sole che fa capolino su quel catino, lo sguardo è fisso, immobile, perso nel vuoto, il petto in fuori pieno di orgoglio e le lacrime di dolore che gli rigano il volto. Piange quasi a singhiozzo ed è nel momento in cui trattiene il respiro che Manente lo accoglie nell’obiettivo della sua Reflex. Diventerà la foto simbolo della sofferenza di un Paese: il caporedattore centrale Mario Marinho appena la vede arrivare in redazione a San Paolo attraverso la linea telefonica ha un sussulto, decide all’istante. Sì, sarà quella la foto a tutta pagina che aprirà l’edizione più dolorosa e drammatica, la più significativa di quella partita assurda, asfissiante, agonica. La foto di quel bambino che piange a tutta pagina e sotto, a corredo, soltanto il luogo e la data: Barcelona, 5 de julho de 1982. Come fosse una tomba, lì nel giorno e nel luogo della morte di un sogno. Quell’edizione batterà ogni record di tiratura e vendite, quella foto varrà a Manente la quarta statuetta del premio Esso, quell’immagine consegnerà alla fama nazionale Josè Carlos Vilella junior.
Quando torna a casa, lui che è di Rio de Janeiro, non sa della foto, e non lo sa nemmeno il papà: il Brasile è sterminato, il Jornal da Tarde esce nello Stato di San Paolo, e solo la città di San Paolo sono venti milioni di anime. Quattro anni dopo, Mondiali in Messico. Un amico di famiglia vede la foto in una trasmissione sportiva, lo riconosce e chiama il padre di Josè. “Il bambino del Sarrià” ha finalmente un nome e un cognome, le tv fanno a gara per intervistarlo, ospitarlo: il padre lascia fare, contento di tanta e inaspettata pubblicità. Il Brasile esce ingloriosamente in Messico, ed esce pure a Italia ’90. Josè studia Giurisprudenza quando nel ’94 il Brasile parte per la spedizione negli Usa. Parte come sempre con il favore del pronostico, parte un’altra volta a caccia del quarto titolo, quello che sembrava già suo in Spagna nel 1982 e invece l’Italia…
E invece c’è un’altra volta l’Italia sul cammino dei verdeoro. E’ il 17 luglio del 1994 e le due nazionali, stanche, sfilacciate, si giocano nella finale secca la possibilità di essere la prima nazionale a vincere per la quarta volta il titolo iridato. Josè ha ventidue anni, quando squilla il telefono a casa sente che il padre sta prendendo accordi con una catena televisiva brasiliana che ha deciso di fissare le telecamere in casa e di seguire, passo dopo passo, minuto dopo minuto, la finale Italia-Brasile con gli occhi e negli occhi di Josè Carlos. Si sa, il Brasile è la patria delle telenovelas, si piange e si fanno ascolti da record. Josè Carlos scappa, va via, si rifugia a casa di un amico. Non vuol rivivere quel giorno lontano dodici anni. Non se la sente. Quando la troupe arriva a casa papà e mamma sono nello sconforto. Parte la caccia a Josè Carlos per tutto il quartiere di Sao Conrado. Nulla. Quando Baggio tira alle stelle quel pallone, il Brasile diventa campione; è dolce la rivincita dopo dodici anni di attese e paure e Bebeto non ha bisogno nemmeno di tirare l’ultimo calcio di rigore. Il “dramma del Sarrià” è finalmente archiviato, tocca all’altra parte dell’Oceano trovare un titolo a quella disperante finale: sarà la “maledizione dal dischetto”. E mentre in Italia le rotative stampano, Josè Carlos torna finalmente a casa. “Non volevo diventare un’altra volta il simbolo della delusione del mio Brasile”, dirà ormai avvocato famoso anni dopo. Nel suo studio a Florianopolis ha affisso la gigantografia di quella prima pagina, ormai solo un dolce ricordo. Lui e Riccardo Manente si sono scambiati la stampa e la dedica. In una c’è scritto: “Per il mio amico fotografo Manente, da Josè Carlos, ex piagnucolone”. Nell’altra, invece: “Per l’amico Josè Carlos che, nonostante a suo tempo sia stato così triste, mi ha portato molte gioie. Un abbraccio dal suo ex sconosciuto amico, Reginaldo Manente”.
La vita però, riserva sorprese. E’ lì, sempre lì, ad aspettare che il cerchio si chiuda. Perché i conti in sospeso, prima o poi, vanno eliminati. Per non esserne prigionieri. Josè Carlos per tutto il Brasile resta il volto e l’immagine di ogni delusione Mondiale: Spagna, Messico, Francia, Germania, Sudafrica. Per i Mondiali di casa nel 2014 la carta di credito Visa organizza una mega campagna pubblicitaria. “Tutti sono i benvenuti in Brasile, anche i nemici”. E pure i carrasco, cioè i boia. Lo è pure Paolo Rossi, quello della tripletta al Sarrià. Lo invitano a Rio per fare da testimonial. Protagonista in uno spot insieme ad un 41enne avvocato. Li mettono di fronte, girano lo spot, parlano del Brasile, parlano di quella partita ma senza sorprese, come due commentatori qualsiasi. Il giorno dopo invitano di nuovo Paolo Rossi sul set, di fronte a lui c’è un’altra volta Josè Carlos. Stavolta è una carambata, l’ex ragazzino ha in mano la gigantografia di quella foto, gliela mostra e poi abbraccia Paolo Rossi. “Questo sono io nel 1982, queste sono le mie lacrime, sei stato tu a farmi piangere”. Lacrime. Applausi. Sipario.