Ci sono partite per la vittoria e la gloria. E sfide che si giocano tra la vita e la morte. Ci sono stadi dove esulti: abbracci chi ti è accanto, ti aggrappi alla speranza, in bocca assapori il gusto del trionfo. E ce ne sono altri dove piangi e ti disperi: la speranza è morta, il dolore non passa. E dalla bocca – manca pure la rabbia – ti esce soltanto: ma perché? Ci sono stadi come l’Arechi: lì per davvero quando finisce la gente comincia un pallone. E ci sono stadi come lo Squitieri: lì davvero un vescovo benedice una fila infinita di bare disposte a metà campo. Ci sono domeniche ubriacanti, chiassose come solo le domeniche del pallone. E ce ne sono altre, meste e silenziose, come la domenica di una terrificante tragedia. Questo è il racconto di una domenica, la più bella nella centenaria storia della Salernitana eppure la più mesta. Perché è pure la domenica di un paese sventrato, divelto, cancellato: un’intera montagna è venuta giù seppellendo neonati e anziani, medici e vigili del fuoco. Salerno e Sarno, separate da 25 chilometri, unite da una data diventata storia: domenica 10 maggio 1998. Una domenica che non passerà mai.
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E’ una domenica di sole eppure nulla risplende. Le strade e i quartieri di Salerno sono imbandierati, tutto colora di granata e la lettera A è incisa dappertutto. Ai balconi di un palazzo di fronte al dismesso Vestuti sono esposti ventuno drappi: su cinque piani sventolano le caricature dei giocatori, del presidente e dell’allenatore. Sopra di loro c’è un cubitale e colorato grazie, sotto un cavalluccio color granata da un lato, una lettera A stilizzata all’altro angolo. In nove mesi quel gruppo ha scritto una favola, ha azzannato le avversarie sin dalla prima giornata, e alla prima c’era di fronte lo spauracchio Verona. Strapazzato, sottomesso, surclassato. Due gol segnati e due rigori sbagliati, una sorta di dispaccio a tutti i naviganti. E’ di sabato, è appena il 30 agosto, fa tanto caldo e l’Arechi è già tutto un fuoco. E’ già Rossilandia: attenti a voi che entrate, quest’anno sarà uno sballo. Da quel giorno la Salernitana non si sarebbe più fermata. Ha vinto e fatto divertire, è a un punto dalla serie A e mancano ancora addirittura sei giornate alla fine. Ha stracciato il campionato. Ha riscritto record. Ha fatto la storia. Novanta minuti separano Salerno e la Salernitana da un traguardo rincorso cinquanta anni: era il ’47, era Viani, era il “vianema”, erano Onorato e Margiotta. Ormai tutto è compiuto, la storia sta bussando alla porta: contro il Venezia è solo una formalità, novanta minuti da sbrigare in fretta e poi finalmente sì, quel momento diventerà eternità. In quarantamila saranno all’Arechi, biglietti esauriti dal lunedì e incasso record, 819 milioni di lire. Sono tornati dal Nord e persino dal Canada, dagli Stati Uniti e dalla Germania: emigranti di ritorno per un giorno, migliaia di chilometri per dire: oh, c’ero pure io a Salerno e all’Arechi quel giorno. Sì, non era mica un sogno.
E’ una domenica di festa, è la domenica più attesa da mezzo secolo. Eppure per le strade della città non si sente una voce, non suona un clacson né una trombetta; non sfila una macchina, altro che caroselli, bandiere e bancarelle. E lì, sempre a piazza Casalbore, lì sempre davanti al vecchio Donato Vestuti, dai balconi di un altro palazzo pende un altro striscione. Fino al giorno prima quel terrazzo era bardato dal drappo della Granata South Force, il gruppo ultras che ha guidato una curva intera incantando l’Italia, alla testa di un fiume di tifosi ovunque, tanto per dire cinquemila a Foggia e mille a Venezia nel giorno del famoso e indimenticabile sorpasso, coniato e accompagnato dal coro “La capolista se ne va…”. La capolista 19 gare dopo è ancora lassù in cima ma adesso cosa vuoi cantare? Ora e adesso c’è solo da pregare. Il drappo l’hanno sostituito con un altro, è steso su tre piani perché come si fa a contenere, come si fa spiegare, come si fa a non condividere: “Festeggiare è un piacere di tutti. Essere solidali un onore di pochi. Nel nostro piccolo siamo con voi”.
E’ una domenica di sole e pure il cielo è beffardo: per quattro giorni ha piovuto senza tregua, da martedì pomeriggio fino a sabato. In città, e soprattutto a Nord della provincia. A Sarno dal primo pomeriggio del 5 maggio cadono millimetri che poi diventano centimetri, e anche Sarno è imbandierata e colorata. Nelle strade e nei vicoli ci si prepara a un doppio evento: l’8 è il giorno della processione di san Michele, due giorni dopo si festeggerà la serie A. Sì perché anche a Sarno il cuore batte granata e dire che il giorno prima è stato inaugurato un club di tifosi della Salernitana. Sarno si prepara e aspetta, Sarno da lì a minuti invece sarà sommersa. Terra, fango, detriti, il fiume più inquinato d’Italia in piena, un’intera montagna – Monte Saro, la montagna spaccata – che viene giù. La prima valanga subito dopo pranzo: c’è chi corre, chi scappa, chi purtroppo non ce la fa. A Villa Malta arrivano i primi feriti, la macchina dei soccorsi però tarda a scattare eppure quel fiume impetuoso che sta travolgendo case e cose è già in video amatoriali che fanno il giro dei tg e delle redazioni. Sottovalutano. Non a Sarno, a Siano, a Bracigliano, a Quindici che sta dall’altra parte della montagna. Lì si piange e si prega: centri abitati sommersi, schiacciati, divelti da una furia, da madre natura che si ribella alle ferite, all’inquinamento, allo stupro di massa del territorio praticato da decenni. Smottamenti, frane, crolli, straripamenti. Quattro paesi isolati che disperati provano a chiedere aiuto. E invece altro fango, altra terra, altra melma. Poco prima della mezzanotte, è la notte tra il 5 e il 6 maggio, sarà apocalisse. Soprattutto per Episcopio, frazione collinare di Sarno. Un’altra frana violenta, la più violenta: l’ospedale Villa Malta sarà completamente sommerso. C’è chi si butta dalle finestre, chi scappa ma resterà inghiottito per sempre: due medici, tre infermieri, il portiere padre di undici figli, cinque pazienti tra cui due bambini. All’alba inizierà la conta: morti, dispersi, sfollati. A Bracigliano ritrovano il cadavere di una mamma e dei suoi tre figli. Morti a Siano, morti a Quindici, morti a Sarno. Tanti, troppi: è domenica 10 maggio e ancora non si conosce con precisione quanti. Cancellato un paese: recinti, orti, giardini, piazze, strade, ponti, case. Baracche sradicate e abitazioni divise in due, tetti che nascondono abitazioni sommerse, alberi divelti. Una montagna gonfia d’acqua è la fotografia più nitida. Eppure a venticinque chilometri bisogna giocare. Così è stato imposto.
Altro che domenica di feste sfrenate e di gioia esagerata: è una domenica di angoscia e di lutto quella che vivono Salerno e la sua vasta provincia. La Salernitana dei record ha provato a fermarsi. Niente da fare. Il presidente Aliberti ha chiesto a Figc e Lega un rinvio: niente, dovete scendere in campo. Concedono solo il lutto al braccio e un minuto di raccoglimento in tutti gli stadi. Delio Rossi e il suo gruppo hanno la testa altrove come i tifosi mentre partono raccolte di fondi e aiuti: non si può giocare con la morte dentro casa. I numeri di un’impresa ora sono puntini: 17 vittorie, 14 pareggi e 2 sconfitte, 56 reti segnate e 25 subite, più 7 sulla seconda e più 16 sulla quinta a sei giornate dalla fine. Numeri impressionanti ma i numeri impressionanti sono purtroppo altri, quella domenica mattina. 119 morti (la conta andrà avanti per giorni, saranno 160 le vittime della tragedia), tremila sfollati, cento feriti. Non c’è la luce del giorno né il buio della notte. Né un’alba né un crepuscolo a Sarno, dove tre giorni dopo l’alluvione troveranno vivo un 22enne che oggi è il vice-sindaco, Roberto Robustelli. Aggrappato a un pilone di cemento, ormai un manichino di creta che settimane dopo sarà ricevuto all’Arechi da tutta la Salernitana.
Campioni di vita: così saranno definiti quel giorno. Campioni di vita giocatori e tifosi, persino Sandro Mazzola scrive per complimentarsi e dare coraggio. Aveva sei anni quando papà Valentino morì a Superga e scrive: “Il calcio può aiutare a ritrovare una ragione di vita”. Sarà, ma come si fa pensare al calcio e alla vita quella domenica mattina? Come si fa a scendere in campo? Su un altro campo di calcio – lo Squitieri di Sarno – ci sono allineate novantasei bare, e tante sono quelle bianche. Le hanno trasportate camion militari, le hanno appoggiate a metà campo per i funerali. In cinquemila dentro uno stadio per l’ultimo addio. “Lasciateci soli” urla un papà quando arrivano il presidente della Repubblica Scalfaro e il premier Romano Prodi. Eppure il piombo del dolore non ne rallenta la marcia, nemmeno quella della storica partita che Salerno e la Salernitana dovranno disputare con la morte nel cuore. Luca Fusco è il più giovane del gruppo, è del quartiere Mariconda: il suo è il sogno cullato da migliaia di ragazzi salernitani, il suo è quello che si è realizzato. Vestire di granata e correre verso la serie A: a volte succede. Eppure quella domenica, lui come tutti gli altri, non vorrebbe giocare. E pensare che un altro Fusco, si chiamava Natale e aveva 15 anni, sarà ritrovato cadavere sotto il fango proprio la domenica mattina. “Ci sono eventi che ti fanno capire quanto sia poca cosa il calcio ma noi vogliamo fare fino in fondo il nostro dovere. Giocheremo per vincere. Sarà anche questo un modo per dimostrare la nostra solidarietà alle famiglie alluvionate. Tempo per far festa ce ne sarà. Non oggi, non col Venezia”, ha detto Delio Rossi prima di entrare in campo. Nove mesi prima – era il 29 giugno 1997 – in diecimila erano andati in un altro stadio a salutarne il clamoroso ritorno. “Salerno dai, ricominciamo” aveva sussurrato, emozionato tra bandiere al vento, slogan e osanna. Un delirio al Vestuti, in diecimila a battere le mani pure per Aliberti, il presidente capace di riprenderselo ricostruendo con pazienza un rapporto andato in frantumi. Un mese di trattative condotte in segreto, la prima telefonata alla moglie del profeta e poi proprio Maria Rosaria che diventa gancio, trampolino, ponte: Delio dice sì ma non bisogna dirlo a nessuno, perché in campionato ancora si gioca. Ci credevano pochi, anzi praticamente nessuno. Non i tifosi, non il 99% della stampa, e neppure i calciatori. “No dai, non è possibile”. Quando però a fine giugno Aniello Aliberti salì fino a Giulianova dal patron della Gis gelati Scibilia per scucire 800 milioni di lire – la cifra stabilita dal Pescara per l’acquisto di Renato Greco, una sorta di indennizzo per lo scippo – davanti al Vestuti ghiaccioli e cornetti andarono via come il pane. Come le tessere d’abbonamento nell’estate dei sogni: 15.143 e all’Arechi ogni domenica di campionato sugli spalti saranno almeno in venticinquemila. Quarantamila (33.195 divisi tra paganti e abbonati) per il giorno della promozione ne sono arrivati. E sembra di riviverla, quella domenica pomeriggio. La domenica più bella eppure più mesta della storia granata. Non ci sono striscioni e non ci sono bandiere, il passaparola dei tifosi è stato spontaneo: festa rimandata, oggi soltanto presenza e testimonianza. Amore per la maglia, vicinanza per Sarno, Siano, Bracigliano.
Le immagini, più delle parole. Un’ora e mezza prima del fischio di Sirotti, i giocatori mettono piede sul prato. L’Arechi li ha aspettati in silenzio. Un silenzio enorme, infinito. Sbucano quelli della Salernitana e per un momento lo stadio si infiamma. Un applauso frenetico, liberatorio. Kolousek ha lo sguardo perso nel vuoto e Greco lo sveglia con un ceffone paterno. Rossi ha gli occhiali scuri, nemmeno si ferma e va verso la panca. Artistico scuote la testa e Zironelli, l’avversario, lo abbraccia. Dalla curva parte il coro, secco, spontaneo: “La capolista eccola qua, la capolista se ne va”. Due minuti e lo stadio freme, pare quasi dimenticare l’angoscia, il dolore, la morte. Però come si fa a non ricordare? “La nostra solidarietà oltre la gioia” sta scritto sul primo striscione che sbuca. Salerno palpita e prega per Sarno, per Siano, per Bracigliano. Lì la morte è stata una valanga, lì l’alluvione ha trascinato e travolto speranze, cento e più vite. Tante, troppe: no, non si può festeggiare, la serie A attesa 50 anni può comodamente aspettare. Chi se ne frega, entrerà ma senza far troppo rumore. Nella Sud ci sono novemila anime e solo uno striscione: “Una grande gioia non potrà mai cancellare un immenso dolore”. E’ scritto di bianco e di granata: il colore della Salernitana è anche il colore della Sarnese. I cento tifosi del Venezia sono di arancio, di nero e di verde: sventolano le bandierine tricolori e poi le ripongono. C’è un solo colore, ed è quello di tutti. Sarà pure retorica però è questo quello che accade. “Uniti nel vostro dolore”: lo striscione è piccolo, l’applauso è lungo. I giocatori rientrano negli spogliatoi, sul prato sfilano dieci tifosi arrivati da Siano e con lo striscione arrivano davanti alla curva Sud trasportati e sollevati dall’applauso. “Siano ringrazia per la solidarietà”. Dopo tocca a quelli di Bracigliano. “Bracigliano vi ama e vi ringrazia”. Minuti che non passano, minuti che si fermano solo quando, mezz’ora dopo, Salernitana e Venezia sono finalmente in campo. I granata si sistemano a centrocampo per la foto di rito: non un sorriso, non una smorfia. “Un giro di campo, nessun eccesso negli spogliatoi. Eccezionali sono stati, specie nella foto di gruppo prima della partita: i miei ragazzi sono veri uomini”, dirà poi Delio Rossi negli spogliatoi. Quando Sirotti fischia il minuto di raccoglimento l’Arechi si scioglie. Giacomo e Giovanni Tedesco pregano, si coprono il volto. Rossi è una statua. Applaudono tutti, persino l’arbitro. La partita inizia eppure non si sente una voce. Non un urlo. Non un applauso. Nulla. Nemmeno il rumore del pallone. Sono cinque minuti irreali. I primi cinque minuti. Poi dal megafono del leader della Sud parte un urlo sincopato, strozzato, struggente: “Tifiamo”. Nella Sud spunta un altro striscione. Spiega: “Purtroppo la vita continua”.
Continua pure la partita ma la partita (!?) è come se non ci fosse. Non in campo – alla Salernitana basta un punto per la matematica promozione e sarà l’unica partita casalinga della stagione che chiuderà senza gol, il Venezia è secondo e il punticino a Novellino serve – e nemmeno sugli spalti. Un’ora e mezza di nulla. Fino alle ore 17.44 quando l’emozione inizia a salire. Mancano quattro minuti alla fine. Quarantamila bandiere spuntano all’improvviso, come il suono assordante delle sirene che rompe quel silenzio carico di angoscia. E’ come un tempo sospeso, una breve parentesi, una finestra spalancata per prendere un po’ d’aria. L’appuntamento con la storia è finalmente arrivato e allora dalla curva li chiamano uno a uno i protagonisti dell’impresa, battono le mani e cantano cori. Ce n’è per tutti, da Polito che è il terzo portiere fino ad Aliberti che è il numero uno del club. Rossi se ne sta accanto alla panca, quelli accanto si abbracciano e saltellano. Lui niente. Si accorge solo che gli hanno smontato la panchina, non può più rintanarsi. “Ma come avete fatto?” chiede ma nessuno gli risponde. Alle 17.48 Sirotti finalmente fischia. E’ fatta, è finita, è serie A. E’ come un tempo sospeso. Aliberti corre verso Rossi, l’abbraccia e gli ricorda: “Mister, stavolta non abbiamo sbandato”. Bergamo è lontana tre anni, Rossi e la Salernitana ce l’hanno appena fatta eppure la curva ebbra dell’Arechi non si accontenta. “Portaci in Europa, Delio Rossi portaci in Europa”. Fusco e De Cesare sono nel cerchio di centrocampo, prendono una rincorsa di 50 metri. Sono i due ragazzi di Salerno il cui sogno è diventato realtà: corrono verso la Sud, la felicità è una foto, un momento, un ricordo. Come il giro di campo, uno soltanto: i giocatori lo fanno con un enorme bandierone. C’è disegnato un cuore, c’è impressa una dedica. “A voi”. Poi tutti via, tutti a casa. Senza brindisi, senza eccessi: sarebbe stata sarabanda se solo fosse stato un altro giorno. Ma il giorno è adesso e come si fa a gioire con la morte nel cuore. Se ne vanno tutti, persino i quarantamila tifosi: non un carosello, non una sfilata, non un mortaretto. Nulla, c’è solo il silenzio che si è rimpadronito della città 15 minuti dopo le fatidiche 17 e 48. L’ora della storia da tenersi dentro, quasi come fosse una vergogna di averla vissuta proprio quel giorno. No, ma quale vergogna: onore e rispetto ci sono stati quel giorno. “Campioni di vita” titolò un quotidiano, la dedica più genuina a Salernitana e Salerno. Tutte cose che restano. La vergogna, l’unica vergogna, è che i colpevoli di quella strage – gli assassini di Sarno, Siano, Bracigliano e sono passati ventidue anni – non abbiano mai realmente pagato quel conto di morte.
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