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E Luca Fusco corre ancora sotto la Sud

Fusco è il recordman di presenze granata: i suoi nove anni di Salernitana raccontati tra aneddoti e curiosità
Luca Fusco scambia il gagliardetto con Maurizio Lanzaro

Non è la prima, quella da prassi non si dimentica. E nemmeno l’ultima, quella che di solito non si digerisce mai. E’ la sesta e l’accompagna da quel giorno. 10 maggio 1998, ore 17.48. La Salernitana è appena tornata in A dopo 50 anni di rincorse e il 20enne Luca Fusco – è appena la sua sesta presenza granata – corre verso la curva Sud, lì dove pallone e passione sono una cosa sola. Da metà campo sono 50 metri: la rincorsa, un tuffo, i pugni al cielo. No, non è un sogno. Sono passati 22 anni da quel giorno. Oggi è il 10 maggio 2020: Luca Fusco di anni ne ha 42 anni ed è nella storia della Salernitana. Primatista assoluto per presenze in campionato: 235. Lui però pensa sempre a quella. Era appena la sesta. E quel giorno gli sembra ancora un sogno.

10 maggio 1998, ore 17.48: la Salernitana è in serie A. Nel cuore e nella testa di Luca Fusco cosa batte, cosa passa?

Cuore a mille, testa frastornata. Il mio cuore è da sempre granata, davanti ne ho quarantamila come me. E’ il coronamento di un sogno, al mio primo anno da professionista. Luca Fusco è un ragazzo di Salerno che, pronti via, si risveglia in A. Un ragazzo fortunato.

“Ama la Salernitana, oggi avrà un motivo in più”: negli spogliatoi la dedica è per sua nonna.

Purtroppo nonna Maria non c’è più. Era il suo compleanno il giorno del mio esordio in B. Dopo la partita con l’Andria corsi per farle gli auguri, lei mi aspettava con la torta.

10 maggio ’98, è appena finita e lei corre verso la curva Sud. Nella Sud c’è suo fratello.

Enzo è sempre stato un ultras. Non perdeva una partita, neanche in trasferta. In curva pure a Piacenza l’anno dopo, il giorno di quella maledetta partita.

Lei è mai andato in curva?

I primi ricordi al Vestuti, raccattapalle o nei Distinti. Ai ragazzi delle giovanili davano una tessera.

La prima volta?

L’avversario non lo ricordo, avevo tra i 7 e gli 8 anni. Nei Distinti con zio Raffaele. La scena è poco nitida, un po’ rivedo il campo e un po’ risento i cori della curva.

Il primo giocatore che le viene in mente?

De Vitis, bruciava il difensore con uno scatto. Fortissimo, bomber vero. I bambini sono attratti dagli attaccanti. Quando arrivò De Falco pensai: quest’anno è serie B e invece niente.

Contro il Taranto, giugno ’90: la serie B dopo 25 anni. Lei?

Nei Distinti. Da un anno ero nel settore giovanile e il bello stava cominciando. E poi…

E poi?

In campo Di Bartolomei. Campione, esempio. Uno dal suo passato – Roma, Milan – che indossava il granata. Un modello irraggiungibile, per classe e personalità. Pensai: un giorno anche io vorrei fare il giro di campo con le bandiere della Salernitana che sventolano.

Come quelle al San Paolo, quattro anni dopo.

Vista dalla curva con tanti amici. Un’onda granata. Che emozioni, che partite. Una Salernitana fortissima. Ci penso e ancora non ci credo. Io che applaudo Breda, Grimaudo, Tosto. Anche io che canto “Delio Rossi alè”…

Quattro anni dopo la corsa sotto la Sud la farà lei, con un altro giocatore di Salerno.

Io giovanissimo e fortunato, Ciro De Cesare invece che esulta dopo anni di gavetta, un po’ meno fortunato di me. Aveva girato tanto e lontano, prima della consacrazione.

Vi eravate messi d’accordo?

No, quel giorno fu tutto trattenuto ma spontaneo. Ciro mi dice: ce la fai per un tuffo? Lui mi pare non fosse nemmeno in panchina, un po’ glielo dovevo.

Fusco e De Cesare: ragazzi del quartiere Mariconda che conquistano la A con la maglia del cuore. C’è un significato dalle vostre storie?

La sua è storia di rivincita, la mia di una favola. E’ la scena che qualsiasi bimbo di un quartiere di Salerno vorrebbe vivere. Noi bravi e fortunati ad esserci.

Mariconda, quartier generale granata almeno all’epoca.

Abitavo al parco Padova, di fronte al pastificio Amato, proprio sopra il campo di Santa Maria a Mare. In quegli anni al parco San Matteo c’erano tanti giocatori della Salernitana.

Una bella compagnia?

Stavamo sempre insieme. Quell’anno avevano casa Napolioni, Tosto, Di Vaio. Spesso ci ritrovavamo a casa di Vittorio. Io però frequentavo anche i miei amici, loro si ritrovavano più spesso. Ma alla cena del giovedì c’eravamo tutti. Musica, barzellette, scherzi. Risate. Ventuno giocatori e una sola anima.

Ore 17.51 del 10 maggio ‘98, Aliberti abbraccia Rossi: “Mister, stavolta non abbiamo sbandato”. Lei dov’era l’11 giugno del ’95?

Atalanta-Salernitana la vidi coi miei, a casa. Diretta su Rai3, noi incollati al televisore. Il film mi ripassa davanti agli occhi, non si è mai cancellato: il gol di Ganz, la punizione all’incrocio di Strada. Ci credevo, la Salernitana sfiorò il raddoppio, il colpo di testa di Valentini fu un’ingiustizia. Meritavamo la serie A.

Lei era nel settore giovanile: si allenava con loro?

No, dall’anno dopo con la Primavera di Fabiano. Un altro anno maledetto: la Salernitana di Colomba partì male, poi si riprese. Anche quella volta la promozione volò via per un soffio.

Ore 17.50 del 10 maggio ’98, Rossi s’alza dalla panchina altrimenti casca: si è appena accorto che gliela avete smontata. Di chi fu l’idea e perché?

Chi non ricordo, forse Giacomo o Vittorio, i soliti casinisti insomma. Il mister era sempre riservato, introverso. Ogni fine gara lui in panchina e noi a far baldoria. Pensammo: smontiamogliela, così verrà pure lui a festeggiare. La serie A era troppo grande, lui ci aveva condotto al traguardo. Non poteva uscirsene così…

Che tipo era?

Bravo e preparato. Esigente e onesto. Nello spogliatoio mai sentito parlare di sfortuna o arbitri. Noi attaccavamo ma eravamo la miglior difesa.

“A Fusco non ho regalato niente, era pronto e preparato”.

La mia fortuna è stata incrociare un allenatore che non badava al nome, alla carriera, al procuratore. Contava solo il lavoro. In allenamento prima che in partita. Uno coraggioso: non era facile buttare nella mischia un ragazzo senza nemmeno una partita in C, e poi in quel contesto. Oggi si punta a valorizzare i giovani anche per una questione economica. Vent’anni fa non era così semplice, e non era da tutti.

A proposito di peso sulle spalle: lei il giro finale all’Arechi quel giorno lo fece portandosi Tedesco sulle spalle.

E’ tra le foto a cui tengo di più. Giacomo mi diceva sempre: ti porto in A ma tu mi porti sulle spalle. Mantenni la promessa. Non arrivavo a 65 chili ma Giacomo era uno spasso. Allegro, socievole. Amici subito, amici tuttora.

Dopo il giro di campo come festeggiaste?

Non festeggiammo. Nulla, solo una bottiglia nello spogliatoio, il gavettone ad Aliberti, a Rossi, persino a Mennea. Non c’era voglia di far festa, la tragedia di Sarno ci aveva scosso. Non è che non potevamo, non volevamo. Tempo poi ce ne sarebbe stato, a fine giugno stavamo ancora in strada e nelle piazze.

A proposito, ma quei capelli rossi?

Idea di Giacomo e Vittorio. Solo che sbagliarono miscela tra schiuma e tintura. Dovevano essere granata e invece i capelli vennero rossi.

“Sottolineo l’equilibrata manifestazione di gioia della squadra. Un giro di campo, nessun eccesso nemmeno negli spogliatoi. Eccezionali, specie nella foto di gruppo prima della partita: i miei ragazzi sono uomini”. 10 maggio ’98, le parole di Delio Rossi.

Una tragedia immensa. Quella di Sarno ci toccò tutti. Quel giorno si celebravano i funerali e tutti quei morti meritavano il rispetto e l’onore di tutti. Come chi li stava piangendo. Anche il pubblico fu straordinario: i tifosi della Salernitana anche quella volta dimostrarono di essere i più forti d’Italia.

I primi 5 minuti giocati nel silenzio assoluto.

Un momento surreale, però quell’applauso dopo 5 minuti fu come una liberazione. Avremmo voluto una vittoria da dedicare a Sarno ma forza e testa proprio non c’erano.

Il suo stato d’animo prima di entrare in campo?

La sera prima non chiusi quasi occhio ma non per la tensione. Come gli altri sapevo che la partita col Venezia ci avrebbe dato matematicamente una serie A ormai in pugno da tempo. La nostra bellissima cavalcata meritava un altro finale.

Magari sette giorni prima, a Genova.

Pareggiammo e il Torino vinse. Però ormai era fatta, i tifosi ci lanciarono le bandiere, noi con quello stendardo a forma di A sul prato di Marassi iniziammo il conto alla rovescia.

10 maggio ‘98, ore 17.48. E’ serie A, Sirotti ha appena fischiato. Le dice qualcosa quest’arbitro?

No, un arbitro a fine carriera?

25 gennaio ‘98, all’Arechi c’è Salernitana-Andria, è l’esordio di Fusco in granata. Arbitra Sirotti da Forlì.

Davvero? Dai, non ci credo.

Quando capì che avrebbe giocato?

Cudini e Ferrara squalificati, difesa decimata: iniziai a intuire il giovedì. Rossi mi schierò tra i titolari nella partitella. Non disse nulla e restai in attesa fino alla domenica. Rossi avrebbe potuto sempre cambiare, pensavo tra me. E poi venivamo dalla prima sconfitta, a Foggia. Momento delicato.

Quando seppe di giocare?

Negli spogliatoi il mister diede la formazione prima del riscaldamento. Lesse l’undici ma non una parola in più. Mi trattò come gli altri, non come un esordiente. Si fidava di me, di questo lo ringrazierò sempre. Andò bene anche se finì 1-1. Non voleva caricarmi di responsabilità. Furono i compagni a incoraggiarmi. Ricordo il sorriso di Balli, l’abbraccio di Ferrara, l’applauso dei compagni.

In coppia Franceschini, coppia inedita. Difficoltà in più?

Cudini e Ferrara erano i titolari, Ivan il primo rincalzo da quando era andato via Moro. Ci integravamo bene: lui massiccio e io veloce, lui più marcatore e io più libero. Ottimo rapporto con Ivan. Siamo rimasti sempre in contatto.

Franceschini diplomandosi a Coverciano: “A Salerno il mio unico anno senza ritiro pre-gara. Un beneficio”. E’ così?

Anche per me quello è stato l’unico anno senza ritiro pre-partita. Importante? E’ stato l’anno in cui siamo andati in serie A. Ora sorrido quando leggo dell’importanza del ritiro.

Rossi e la società si fidavano di voi.

Fu una scelta azzeccata. Programma fisso in casa. Il sabato ci ritrovavamo al ristorante ‘O Scuorzo alle 19. Il prete diceva messa nella sala al primo piano, poi tutti a cena. Mezz’ora a chiacchierare, alle 22 a casa. Ci andavo a piedi, era a due passi. Domenica mattina appuntamento allo ‘O Scuorzo, pranzo alle 11.30, poi a piedi fino al parco Arbostella dove c’era il pullman che ci portava all’Arechi. Quando arrivavamo era emozione, trasporto, adrenalina. Non eravamo 21, eravamo trentamila ogni domenica.

Un altro calcio.

Rossi era molto scaramantico, i risultati arrivavano e non cambiò. Anche l’anno dopo iniziammo così, poi decise di cambiare. Ma non andò male per i ritiri, eh.

Maggio ’97: lei vince il Nazional Dilettanti con la Cavese. Maggio ’98: lei arriva in A. Sprint che nemmeno Mennea.

Con me dalla Primavera della Salernitana c’era anche Paolo Miranda. Tappa decisiva per la mia maturazione. Ero under e quindi giocavo sempre però Capuano credeva in me. Giocare in una piazza calda davanti a settemila spettatori mi è servito, non mi ha fatto poi sentire troppo il salto.

Torna alla Salernitana e un dirigente: difficile faccia strada, quella postura lo limita negli spostamenti.

Le critiche mi hanno sempre stimolato ma poi non era nemmeno una critica. A 12 anni mi ruppi la spalla, fermo quattro mesi. Un infortunio che mi ha portato ad avere il braccio destro un po’ più largo del sinistro. Brutto da vedere sì (risata) ma la carriera l’ho fatta.

Del ritiro estivo cosa ricorda?

Cinquanta giorni tra Tenna, Polla e Lagonegro. Un’estate infernale, il ritiro non finiva mai. Però in quei 50 giorni gettammo le basi per una stagione da record, lì si formò il gruppo. Si lavorava tanto con Rossi ma ci divertivamo. Ero al primo anno, entrai nello spogliatoio coi piedi di piombo. Galeoto, Tosto, Giacomo Tedesco, Balli: mamma mia che risate, che allegria. La fatica non ci pesò mai. Stare 50 giorni in ritiro d’estate è dura. Vorrei vedere ora…

Voi avevate però Grimaudo, l’uomo in più.

Anche Claudio conquistò la serie A anche se lui a maggio del ’98 non c’era. Quando si vince un campionato, quando si raggiunge un obiettivo importante, il merito è anche di chi ti ha preceduto. Se non hai basi forti poi fai fatica, è giusto rendere merito a chi ha lavorato prima di te, a chi ha seminato e magari non ha raccolto.

Quante ne combinò quell’estate?

Claudio fu un trascinatore, il protagonista del ritiro. Scherzi e risate anche in allenamento, non solo in albergo o nei momenti di relax. E poi lui tirava il gruppo. Faceva i mille metri con gli stivali e nessuno lo prendeva, una scheggia e nessuno sulle distanze lunghe riusciva a tenergli testa. Lui e la società decisero poi di separarsi però Claudio è come se ci fosse sempre stato tutto quell’anno.

Che iniziò il 29 giugno ‘97: in diecimila al Vestuti per il ritorno di Rossi che dice: “Salerno, ricominciamo”.

Ero in vacanza a Marina di Camerota. Pensai come tutti: ora sì che la Salernitana può tornare a vincere. Da tifoso ero contentissimo. Poi mi ritrovai con la convocazione…

Quando arrivò il postino?

Prima di andare al mare sottoscrissi il primo contratto, da giovane di serie. Mi dissero: Luca tieniti pronto, salirai anche tu a Tenna, Rossi vuole vederti. Capuano mi voleva un altro anno, andai a Tenna convinto di riandare alla Cavese. Per mia fortuna Aliberti e Rossi dissero: vediamo dopo la prima parte. Convinsi il mister che potevo stare nel gruppo, e che gruppo.

Già, 83’ di Salernitana-Venezia: lei cede il posto a Ferrara. Chi è Ciro Ferrara?

Grande uomo prima ancora che gran calciatore. Spesso si prendono ad esempio giocatori di grandi qualità ma con poco cervello. Ottimo difensore, è sempre stato un modello di serietà. Bravo io quell’anno ad apprendere molto da lui. Aveva dieci anni in più ma era un uomo già fatto. Ora siamo insieme a Castellamare, io alleno la Primavera, lui è il vice di Caserta.

Lei esce col Venezia e sul campo la fascia l’indossa Breda. Chi è Roberto Breda?

Misurato, saggio, poche parole ma sempre quelle giuste nel momento adatto. Un professionista esemplare oltre che centrocampista completo e cervello fino. Dopo un anno sarà lui a cedermi la fascia: onore e onere. Nel 2010 mi telefonò prima che tornasse a Salerno, stavolta da allenatore. E l’ho scavalcato nella classifica di presenze proprio nel giorno in cui era avversario, tecnico della Reggina. Naturalmente all’Arechi.

Fusco, Breda, Ferrara. All-time in ordine di presenze in campionato: che podio, voi la storia della Salernitana.

Tutti e tre quel pomeriggio di 23 anni fa all’Arechi, incredibile davvero. Rispetto a loro e agli altri quell’anno feci poco. Solo 11 presenze, un comprimario. E certo non ero il più forte, però alla Salernitana – 6 anni di settore giovanile e 9 da giocatore – penso di avere dato ben più del cuore, mi ci sono quasi ammazzato. Su questo metto due mani sul fuoco.

La gara che non dimentica di quella stagione?

Salernitana-Cagliari. Perché giocavo, perché con quella vittoria capimmo che la Salernitana aveva in pugno la serie A, perché segnò Tosto e addirittura di testa.

Quando il sentore dell’annata giusta?

A Verona, vincemmo 2-0. In campo e sugli spalti fu battaglia.

C’era nel giorno del sorpasso a Venezia?

In tribuna e fu una partita straordinaria. Rossi ci disse: siete la Salernitana, siete i più forti. In campo fu uno spettacolo. Indimenticabile come il viaggio in aereo coi tifosi. Tutti a cantare: la capolista se ne va, la capolista se ne va… in serie A.

Tedesco nello spogliatoio metteva a palla Onde di Alex Baroni. La canzone che ricorda?

Nello spogliatoio ascoltavamo di tutto, sembrava una discoteca. Però ricordo quelle nel riscaldamento pre-gara. Tipo Cocorito. La gente cantava e ci dava la carica.

La delusione più cocente?

Il 2-3 in casa col Chievo, fu brutto perdere all’Arechi.

I tifosi vi dedicarono uno striscione: solo un incidente.

Lo trovammo all’Arechi nel giorno del primo allenamento. Noi e i tifosi eravamo una sola cosa. Peròcerte sconfitte aiutano. Come quella di Foggia. Fu la prima e fu una batosta salutare. Tornammo in fretta sul pianeta.

In A con 5 giornate d’anticipo, miglior attacco e miglior difesa. Rossi che dice il 10 maggio: ha vinto il gruppo.

Sì quella volta sì ma spesso è un luogo comune. Il gruppo si cementa con i risultati. Più vinci più si crea affiatamento, più sorridi e più si stemperano le tensioni.

A Natale del ’97 vi vestiste da pastori e re magi. Il presepe in una foto che accompagnò un’iniziativa di beneficenza.

L’idea venne a Tano Pecoraro. Noi giocatori le distribuimmo insieme alle Stelle di Natale: testimonial della campagna Ail in pieno centro. La Salernitana e Salerno erano una sola cosa.

Aliberti che presidente è stato?

Società organizzata: ognuno al proprio posto, settore giovanile curato, dirigenti competenti, tecnici preparati, staff completo. Quell’anno non mancò nemmeno una spilla. Il miglior presidente avuto in carriera. Molti diranno: hai visto la fine? Rispondo: certe cose sono più grandi di noi, la verità è difficile da stabilire. Io parlo per quello che ho visto e vissuto.

Lei nell’anno della promozione quanto guadagnava?

Un milione e seicentomila lire: 800 euro di adesso.

L’anno dopo?

Un buon contratto, in A ero quello che guadagnava meno ma era giusto. Ero il più giovane, ancora dovevo dimostrare.

Digressione sull’anno della A: il rosso a Roma, la carezza di Maldini. Un bel battesimo le prime due giornate.

Il rosso a Roma fu un’ingiustizia, non la meritavo, non avremmo perso. Il gesto di Maldini quello di un grande campione. Rossi in settimana mi aveva martellato: sui piazzati Luca devi marcarlo tu, ok? Mi ci appiccicai addosso.  Lo tirai per la maglia, mi accarezzò e disse: aspetta a tirarmi, non vedi che il gioco è fermo?

Titolare in serie A e poi la maglia della nazionale under 21: quell’anno quattro vestivano d’azzurro.

Vannucchi, Marco Rossi e Gattuso ed io: 8 convocazioni e una presenza, in amichevole contro la Repubblica Ceca, il mister era Tardelli. Che vetrina era la Salernitana, e indimenticabili quei viaggi: nei ritiri ci accompagnava il papà di Gattuso che ci caricava tutti nella sua auto. Uno spasso, come Gennaro.

La partita che vorrebbe rigiocare?

Piacenza-Salernitana. Una partita surreale, raccontarla mi viene difficile ancora adesso. Non meritavamo di retrocedere. La serie di combinazioni e quel Perugia-Milan non ci aiutarono a prepararla bene mentalmente. Avremmo dovuto giocarcela dall’inizio senza pensare a nulla ma non era facile, mancavano tanti giocatori. Rincorsa logorante, l’attesa dagli altri campi ci fece inconsapevolmente aspettare il momento giusto. Che non arrivò. La rissa finale fu l’epilogo di un pomeriggio assurdo. Poi la tragedia del treno avrebbe cancellato i rimpianti. Non si può piangere per una partita di pallone quando ci sono morti, come non si poteva gioire l’anno prima con la tragedia di Sarno davanti agli occhi.

Cagni l’anno dopo le tolse la fascia: è giovane, è di Salerno, sente troppo la tensione. Ricorda le parole?

All’epoca mi ferirono. Ma Cagni aveva ragione. E poi al gruppo s’erano aggiunti giocatori come Melosi, Guidoni, Lorieri a cui andò la fascia. Aliberti e Cagni mi spiegarono in sede. Con il tempo capii.

E’ l’anno del primo gol in granata. In un pomeriggio di pioggia e contestazione.

Sotto con la Fermana, segnai di testa sotto la Sud con i tifosi che ce l’avevano con la società. Vincemmo 3-1, da lì partì la rimonta. Eravamo forti, ci mancò l’ultimo spunto.

Tre anni dopo Zeman la schierò mediano contro il Como. Che pensò quando glielo disse?

Ma è impazzito? In settimana non mi aveva nemmeno provato nel ruolo. La formazione la dava solo prima del riscaldamento. E la dava per reparti. Quel giorno, era un venerdì sera: “Oggi giochiamo con Soviero in porta poi da destra a sinistra, Pierotti, Zoro, Cardinale e Cherubini”. Pensai: mi ha fatto fuori. Poi riprese: “Esterni a centrocampo Campedelli e Camorani, Fusco centrale”. Pensai: è impazzito. Un attimo solo, però. Perché Zeman era Zeman.

L’anno dopo il declino e poi l’addio.

Aliberti doveva abbassare il monte ingaggi. Mi disse: Luca c’è una buona offerta del Messina. Accettala, è per il bene tuo e della Salernitana. Qualche mese prima se ne erano andati per gli stessi motivi Tedesco e Zoro. Non potevo dire no.

Il suo primo ricordo dell’Arechi da avversario?

Dopo 12 anni di granata, mi portò fortuna. Il Messina vinse 3-0, fui accolto dagli applausi.

Di nuovo granata nel 2007, altri tre anni. Una promozione e poi due stagioni balorde chiuse da una retrocessione umiliante e poi da un’inchiesta giudiziaria.

Ho sempre dato tutto per la Salernitana. Ne sono orgoglioso e non me ne pento. Fui tirato in una vicenda nella quale non c’entravo nulla. Ero innocente e l’ho dimostrato. Ne sono uscito completamente pulito e devo dire grazie a me stesso innanzitutto. Non ho mai mollato e non ho mai scaricato le colpe su altri.

Primo maggio 2010, Salernitana-Mantova. Gioca 45’, poi  verrà sostituito da Pippa. E’ la sua ultima in granata.

Avrei voluto chiudere in un altro modo ma non c’erano più le condizioni. Tirai avanti fino al record di presenze assoluto in campionato. Ci tenevo, me lo dovevo.

Suo figlio Gerardo è nell’under 15 della Salernitana. Se potesse fargli rivedere una partita del papà, quale sceglierebbe?

Undici aprile 1999, Salernitana-Inter 2-0. Per l’atmosfera, per il senso di dominio sulla partita, per il tifo, perché ci fu solo una squadra in campo. Era l’Inter di Ronaldo, Zanetti e Zamorano eppure li annientammo. Semplice, noi eravamo la Salernitana.

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