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Un pallone al gulash

Orban assume i pieni poteri dell'Ungheria, quella dello schermidore ebreo Petscahuer e del calcio di Puskas
Puskas, calcio, Ungheria, coronavirus, Orban, razzismo, ebrei

Inverno 1943, battaglia di Stalingrado, la più cruenta della Seconda guerra mondiale: deciderà i destini della Storia. Il 12 gennaio i russi attaccano il fronte ungherese, che capitola. I soldati ungheresi spogliano Attila Petscahuer, lo fanno salire su un albero. Il termometro segna -35 gradi: l’uomo, nudo e legato, congelerà fino alla morte. Chi era Attila? Soprannominato il nuovo D’Artagnan, vinse due medaglie d’oro nella sciabola, alle Olimpiadi di Amsterdam prima (1928) e Los Angeles (1932) poi. Dalla pedana – considerato eroe dello sport magiaro – fu spedito al fronte dopo aver schiaffeggiato un gerarca che l’aveva apostrofato “ebreo puzzolente”. Attila, come altri tre schermidori danubiani (Gerde, Garay, Kobos), come altri 221 sportivi europei (secondo Robert Rozett, direttore delle rubriche Yad Vashem, sarebbero invece 60mila), è una vittima dell’Olocausto. Campioni e uomini, perché campioni e uomini furono deportati in Europa e l’Europa (e il Mondo) si girò dall’altra parte.

Trenta marzo 2020. E’ quasi sera, è una breaking-news nella versione digitale de Il Corriere della Sera. “Viktor Orban può governare in Ungheria con pieni poteri, per decreto, senza rendere conto a nessuno. L’ha deciso il Parlamento di Budapest votando una legge speciale che – con il pretesto di dare «priorità assoluta alla salute pubblica» e per «fermare la diffusione del coronavirus» – certifica il potere incontrastato del premier sovranista. Per i socialisti all’opposizione «ora inizia la dittatura di Orban» e anche la destra estrema dello Jobbik denuncia il «colpo di Stato». Il Parlamento ungherese ha dato i pieni poteri al capo del governo per contrastare il coronavirus. In base alla legge approvata con il voto dei deputati di Fidesz – il partito di maggioranza sovranista guidato da Orban – e di alcuni deputati dell’estrema destra, Orban ha ora diritti di governo e poteri straordinari senza limiti di tempo, può governare sulla base di decreti, chiudere il Parlamento, cambiare o sospendere leggi esistenti e ha la facoltà di bloccare le elezioni. Spetta a lui determinare quando finirà lo stato di emergenza e sulla pandemia potranno esprimersi solo fonti ufficiali. Chi sarà accusato di diffondere false notizie rischierà da uno a cinque anni di carcere”. Stop. Fine. L’Europa continua a girarsi dall’altra parte. Compresa l’Italia. Non ci fosse stata la pandemia, da Budapest sarebbe partita l’edizione numero 103 del Giro d’Italia, tre tappe nella terra dove scorre il Danubio da anni di nuovo inquinato da nazionalismi, razzismo, estremismi – prima di tornare sulle strade di casa.

Da casa, dall’Ungheria così malinconicamente bella, così vera nella sua decadenza che fu impero, dalla culla dell’Europa orientale, se ne scapparono i campioni. Erano gli anni ’50, anzi era l’autunno del ’56, la stagione di una ribellione che divenne sangue e sfociò in restaurazione. Era tempo di un altro estremismo; non più il nazismo, non più il razzismo, non più la shoah. Era un’altra dittatura e si chiamava comunismo, quello dell’Unione Sovietica che fece sfilare i carri armati per placare il sentimento di ribellione e libertà di un popolo. E i cannoni, e le mitragliatrici, e i fucili, spararono. Scapparono o non tornarono più a casa insieme a 300mila connazionali, i campioni. Quelli del calcio danubiano, quello che stava incantando l’Europa, quelli che un giorno – era il 25 novembre del 1953 – fecero piangere l’Inghilterra, sepolta (6-3) per la prima volta a Wembley (nella rivincita, giocata nel maggio del ’54 a Budapest, finì con un impietoso 7 a 1) davanti a centomila spettatori e, racconta una cronaca stringata, cento cronisti da tutta Europa chiamati ad assistere all’evento del secolo. E invece quel giorno – davanti a quella triste pagina del ventesimo secolo, in quel lontano novembre di 64 anni fa – l’Europa si girò da un’altra parte.

Anche quella sportiva, perché quell’Ungheria era il calcio che per un decennio aveva soggiogato il mondo. Il calcio che sarebbe poi diventato la modernità: pochi lanci lunghi e tanti passaggi, ritmi alti e abilità tecniche fino ad allora mai viste. Era l’Ungheria di Ferenc Puskás (84 gol in nazionale in 85 presenze, record battuto da Cristiano Ronaldo qualche mese fa), di Kubala, Czibor e Kocsis, era la nazionale col primo trequartista moderno nella storia del calcio, Hidegkuti. La “squadra d’oro”, così fu soprannominata dopo l’oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Quella che ai Mondiali in Svizzera del ‘54 umiliò la Germania Ovest 8 a 3 nella fase a gironi, arrivando sino alla finale. Persa, ed è incredibile a pensarci ancora, 3-2 contro quella stessa Germania Ovest a cui 14 giorni prima aveva rifilato otto gol. Roba che avrebbe fatto saltare il banco delle scommesse. Quella partita passò alla storia – c’è pure un film – come “il Miracolo di Berna”. Fu l’ultima pagina gloriosa del calcio ungherese, perché il calcio che faceva tremare il mondo si sciolse due anni dopo, nei giorni della rivolta di sangue. Puskás (nella foto che accompagna il post), Kubala, Czibor e Kocsis si stabilirono all’estero e non tornarono più. Il regime, che controllava tutte le squadre del campionato, quando terminò la rivolta mise fine alla propaganda calcistica. L’intero movimento trascurato, gli investimenti azzerati e non venne fornito più nessun tipo di supporto. Quando nel 1989 l’Ungheria tornò indipendente le condizioni dei club erano ferme a quarant’anni prima e la popolarità del calcio – Honved, Ujpest, Ferencvaros – quasi sparita.

E qui, perché come d’incanto spesso tutto torna, riecco dalle soglie del duemila (e c’è ancora), propaganda, nazionalismo, sovranismo. Come quelli di Viktor Orban, il primo ministro, che usa il calcio come propaganda espansionistica e autoritaria, spargendo finanziamenti come fosse una pandemia. Che è questione di geopolitica – “La geopolitica delle epidemie” è un’analisi che andrebbe letta e riletta sulla rivista Internazionale a firma di Laura Spinney – perché le pandemie sono fenomeni politici con inevitabili conseguenze sulla gestione dei confini e sulle libertà. Orban ha una passione sportiva che è ossessione (è stato calciatore professionista), si è fatto costruire uno stadio nel paese natale, Felcsut, considerato il santuario dell’orbanismo: la Pancho Arena ha una capienza più del doppio (3.500 posti) della popolazione. E l’ha fatta costruire con finanziamenti dello Stato, così come ha usato (80% coperto da fondi europei) milioni di euro per impiantare rotaie che permettessero di raggiungere il piccolo borgo grazie ad un treno, borgo poi approdato in serie A. Ha aumentato il bilancio della federcalcio, al cui vertice ha messo il potente finanziere Sandor Csanyi, azionista di riferimento di Otp, principale banca del Paese. Lo Stato, inoltre, ha iniziato a finanziare le squadre più blasonate, dal Ferencvaros al Videoton. Non solo.

Ha cominciato a finanziare squadre che non giocano in Ungheria ma in Slovacchia, Ucraina, Romania, Slovenia, Croazia e Serbia, club di territori che una volta appartenevano al Regno d’Ungheria e dove oggi vivono molti cittadini di origine ungherese, spesso con doppio passaporto, club che dal 2013 al 2018 hanno ricevuto finanziamenti per 70 milioni di euro dalla federazione e dal governo di Budapest, attraverso la fondazione Bethlen Gabor. “Perchè investire denaro in questi club? Perchè ci sono molti ungheresi che vivono lì e il nostro Paese è interessato al destino degli ungheresi, ovunque essi vivano”, ha spiegato Orban. Che quando nel 2014 la nazionale ungherese fu costretta a giocare a porte chiuse dopo gli incidenti provocati da suoi tifosi in una gara contro Israele, disse: “Non ci fermeranno, noi siamo ungheresi e il calcio ci confà”. Settantasette anni dopo l’Europa e il Mondo continuano a voltarsi da un’altra parte.

P. S. scrivo solo perché qualcosa dovrò pur fare.

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