Quando sarà finita, come cambierà la nostra vita? “Temo che ripercorrere quel metro che oggi ci separa sarà molto difficile, abbiamo interiorizzato paure e ansie; dovremmo essere abili a riavvicinarci all’altro gradualmente. Senza perderne la fiducia, coltivandone la tenerezza”. Ha risposto così il capo del Dipartimento italiano della Protezione Civile Angelo Borrelli, tenendosi non certo a distanza (metaforica) di sicurezza dalla domanda più scomoda rivoltagli da Fiorenza Sarzanini in un’intervista pubblicata oggi su Il Corriere della Sera. Conservare la fiducia, coltivare la tenerezza, ripercorrere quel metro di distanza.
La distanza è un metro, è fissata da un muro che è una rete coi buchi e il nastro bianco; sta sopra un pavimento di un materiale complicato (decoturf si chiama, ed è una specie di asfalto-cemento) anche se è quello di Flushing Meadows – che in italiano significa letteralmente prati a filo – e si trova in un parco dove c’è anche il tempio del tennis a stelle e strisce (riconvertito, in questi giorni, in ospedale da campo), quello dove dal 1881 alla fine di ogni estate il tennis è uno dei quattro tornei del Grande Slam. Teatro un giorno, era il 12 settembre del 2015, della finale dell’Us Open tutta rosa e tutta azzurra: Flavia Pennetta da Brindisi contro Roberta Vinci da Taranto. Due italiane contro, due amiche a giocarsi il giorno della gloria, due pugliesi di fronte a riempire d’orgoglio l’Italia e di meraviglia il mondo. Perché una cosa così non era (e non sarebbe più) successa: più che una favola sembrava uno scherzo, una specie di pesce d’aprile se l’avessero predetto pure solo qualche minuto prima di sistemarsi davanti alla tv, pronti a godersi quella sfida a distanza tra due amiche cresciute insieme, costrette dalla storia e dal destino a farsi avversarie. Separate da una rete, sopra il cemento, dentro un perimetro segnato da strisce bianche.
E qualche minuto prima di quella sfida Flavia Pennetta e Roberta Vinci lo passarono al bar centrale dell’Arthur Ashe (che magnifico campione e che esempio di uomo fuoriclasse Ashe, il primo di colore a vincere uno Slam e l’altro ha le treccine e si chiama Yannick Noah) di New York. “Dietro di noi c’era Boris Becker che si alza e fa: ma voi lo sapete che fra poco dovete giocare contro?”. Il tedescone alto, grande e grosso, quello rosso di capelli con il volto dipinto da lentiggini, soprannominato Bum Bum perché per anni aveva fatto bum bum tirando bordate a Wimbledon, all’Us Open e all’Australia Open (solo il Rolland Garros gli mancò a completare il percorso netto del Grande Slam) a quel tempo e ancora adesso manager dei campioni delle racchette, che si sente rispondere così da Flavia Pennetta. “Tranquillo Bum Bum, è tutto sotto controllo”.
Tutto sotto controllo un accidenti. Due giorni prima Roberta Vinci, al termine di una sfida palpitante, ha fatto piangere la regina: Serena Williams, la bulimica divoratrice di trofei, la numero uno al mondo. Era morta, era sfondata, era totalmente scarica; cinquanta giornalisti che l’accerchiano, il cellulare che non smette di trillare. Roberta Vinci si sente come dentro uno tsnumani dopo quel match-point che è diventato punto, un sogno che si fa storia, lei che le ore di sonno prima della finale le ha contate appena sul palmo di una mano. Tutto sotto controllo un accidenti, pensa in quelle stesse ore Flavia Pennetta che in semifinale ha superato la Halep, la numero due al mondo, e che in finale s’aspettava la regina come nemica e invece si ritrova davanti all’amica, quella con la quale ha (con)diviso gli anni da teen-ager e la lunga traversata dalla Puglia sino in cima al Mondo. Tensione, non paura. “Le uniche risate della vigilia me le strappò un film italiano. Che per prender sonno ci misi una vita. E quando crollai, ero un masso”, raccontò quando la carriera di tennista era finita perchè aveva passato il testimone a un’altra: mamma dolce e moglie paziente, perchè ora ci sono due figli e un marito che di nome fa Fabio Fognini, uno da bordate e follie quando impugna una racchetta. Ma oggi non è più giorno di racchette contro. Non è come quel giorno.
Flavia e Roberta, una a 33 e l’altra a 32 anni, che si ritagliano insieme il più bel giorno della carriera, loro amiche e compagne di una fantastica squadra di Federation Cup, loro che insieme hanno vinto in doppio una Coppa del Mondo under 16, il Rolland Garros under 18 e una coppa Bonfiglio. All’Us Open una ha cominciato l’avventura da numero 26 (Flavia), l’altra (Roberta) da 43 del ranking. Poi finisce che sul campo il 12 settembre del 2015 il tabellone luminoso scriva 7-6 6-2, e il game, set and match è un diritto che finisce all’incrocio. Che 7-6 6-2 sono solo numeri e i numeri se ne vanno. I sentimenti no, quelli restano: vicinanza e amicizia pure se una pallina ha una traiettoria strana e rimbalza lì, oltre la rete, dall’altra parte del rettangolo che in fondo è solo un immaginario perimetro di distanziamento sportivo, lì dove se ne sta l’avversaria che è un’amica e che con lei – prima e unica italiana a vincere l’Us Open, seconda italiana a vincere uno Slam dopo la Schiavone a Parigi nel 2010 – ha appena finito di scrivere una favola che non è mica uno scherzo d’aprile.
E che invece finisce, in un vivido giorno di settembre di cinque anni fa, al tavolo di un ristorante della Grande Mela. Finisce con quattro amiche tutte insieme, intorno ad un tavolo. Le compagne azzurre Sara Errani e Francesca Schiavone. E loro due, Flavia Pennetta e Roberta Vinci, che quel giorno continua a ricordarlo così. “Al ristorante chi ci riconosceva non credeva ai propri occhi: vederci tutte assieme a fare le foto, a ridere, a volerci bene”. Ragazze venute dalla provincia italiana e piombate una sera a New York, sedute a chiacchierare ridendo, come se avessero appena finito una partita al tennis club cittadino e si stessero scambiando confidenze e non invece avversarie d’una finale con ventimila spettatori sul campo (c’era pure il premier Renzi) e milioni (e mezza Italia) davanti la tv. Roberta e Flavia, due ragazze venute dalla provincia italiana, quella di città e paesi dove – camminando – è più facile conoscere un concittadino che ignorarlo. Dove quel metro di distanza – gradualmente, con la pazienza e la tenerezza – tornerà a essere solo un ricordo distanziato nella parentesi di una vita insieme.
P. S. Scrivo solo perché qualcosa dovrò pur fare
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