Infilarsi i calzini, mettere le scarpe. Siamo tutti nani sotto questo cielo ora che è diventato buio, siamo tutti nani che vorrebbero salire sulle spalle di giganti per rivedere la luce. Che arrampicarsi adesso in cielo e toccare le stelle sarebbe un po’ come fare il canestro della vittoria che è liberazione, al suono della sirena. Con un gancio cielo che ci solleva dalla terra, e il naso e gli occhi che volano verso la retina che sta sopra le nostre teste, come un movimento mandato a memoria e adesso invece sospeso, come dimenticato. Ciuf, canestro: sembra facile, sembra proprio un dettaglio. “Oh mamma mia! Ganciooo-cieloooo, Kareeeem”: l’avrà ripetuto migliaia di volte Dan Peterson nelle sue telecronache che spalancavano (anni ’80) – e molti televisori in Italia trasmettevano ancora in bianco nero ed il segnale arrivava in differita – le porte della Nba, quella dove le stelle a stelle e strisce facevano una pallacanestro mai vista. E “Sulle spalle dei giganti” è pure un libro (2018) scritto da un vero gigante che il cielo l’ha toccato migliaia di volte.
Kareem Abdul Jabbar, nato Ferdinand Lewis Alcindor jr il 16 aprile del ‘47 e diventato però Kareem Abdul Jabbar nel ‘71 quando si convertì all’Islam: il miglior realizzatore della storia della Nba, 3 titoli Ncaa (basket universitario Usa), 6 titoli Nba e l’elenco continuerebbe fino all’infinito, fino al cielo dove stanno appese le sue canotte. Sintesi: il totem della pallacanestro mondiale. Meglio invece mettersi davanti al totem e riavvolgere il nastro, anzi premere il pulsante play ed ascoltare la voce di adesso, quella di un 73enne che dell’impegno civile ne ha fatto sempre una battaglia, lui che nel ’68 rifiutò di unirsi alla nazionale Usa per le Olimpiadi del ’68 perché i diritti e i valori valgono molto più di un oro: il volto smagrito, il pelo della barba rado e bianco, la t-shirt viola dei Lakers col numero 33, gli occhi che guardano dritti verso la telecamera ed arrivano ad altri occhi, in Italia. Appena poche ore fa. “Buongiorno Italia”, dice in italiano quella voce dolce come una carezza che poi prosegue in inglese continuando a scaldare il cuore. “Voglio augurarvi coraggio e buona salute, troverete una cura e andrete incontro ai bisogni di tutti”, prima di congedarsi, cimentandosi un’altra volta in italiano. “So, forza Italia”. Parole che sembrano dettagli, come sembra un dettaglio nella nostra quotidianità scontata infilarsi ad esempio bene i calzini – e allacciarsi le scarpe – al mattino. Eppure se i calzini stanno troppo larghi e le stringhe delle scarpe non sono ben tirate, al cielo non si arriva.
Dettagli. Ma sono i dettagli che fanno la differenza. La bellezza e l’importanza del prendersi cura dei dettagli: nella vita, e nello sport. Quanto contano per riuscire a fare sky hoop che in italiano fa gancio cielo? Quanto aiutano a toccare il cielo pieno di stelle? Copyright intestato a Kareem Abdul Jabbar, una carriera partita un giorno come tanti altri da Los Angeles, dal celeberrimo college UCLA, lui 18enne di New York che sceglieva l’altra parte degli States per imparare a toccare il cielo con un salto, con un gancio, con un sogno. Quel primo giorno se ne sta impresso in uno dei tanti libri che ha scritto, e quel suo sky-hoop l’ha ricordato qualche giorno fa Mauro Berruto, ex coach della nazionale italiana di pallavolo (sette medaglie tra cui il bronzo alle Olimpiadi del 2012), una vera coscienza critica, un narrastorie inarrivabile, un motivatore e tante altre cose che anche qui non si finirebbe nell’elenco. Torniamo al libro (“Coach Wooden and me”, 2017) scritto da Jabbar e partiamo dalla lezione numero uno. Quella che un 50enne tecnico alto 175 centimetri impartirà all’allora appena 18enne già alto 218 centimetri braccato da tutti i college del Paese, ed a tutti i suoi compagni. Che se ne stanno lì, tutti emozionati e pronti ad abbeverarsi alla fonte del miglior allenatore americano. Si aspettano schemi e tiri. E invece, nel chiuso dello spogliatoio.
“Buongiorno, sono coach Wooden. Oggi impareremo come mettere le scarpe di ginnastica e le calze in un modo corretto. Oggi parleremo dei concetti di scarpe comode e calze tese. Tese, e comode”. No, non è uno scherzo. Perché coach Wooden prosegue, attualizzando una frase di Benjamin Franklin (tra i padri fondatori Usa) legata alla guerra, ai cavalli ed ai soldati e trasposta quel giorno ai canestri, ai giocatori e al basket, in una sorta di Samarcanda infinita in un giorno di fine estate del ‘65. “Se non tendete bene i calzini è probabile che facciano le grinze. Le grinze fanno venire le vesciche, le vesciche costringono i giocatori a sedersi a bordo campo, i giocatori che si siedono a bordo campo perdono le partite. Quindi non ci limiteremo a tenderli, dovremo starci comodi”. Finita la lezione numero uno di Wooden, ecco la lezione numero uno di Kareem che sempre nel libro ha scritto, ricordando quel lontano giorno. “Eravamo entrati in palestra sicuri di noi, presuntuosi. Avevamo appena ricevuto la prima lezione di umiltà da coach Wooden. Sapevamo che molte squadre iniziano forte il campionato per poi soccombere agli infortuni dei giocatori e uscire così dal torneo. Nessuno di noi invece perse mai un allenamento e una partita per colpa di una vescica”. Da quel giorno Jabbar ed i suoi compagni vinsero – di fila – tre titoli Ncaa. Avevano imparato a infilare bene i calzini e a stringere le stringhe delle scarpe, che far canestro – quello sì – era soltanto e semplicemente un altro dettaglio. Da quel giorno Ferdinand Lewis poi Karem Abdul avrebbe cominciato a toccare il cielo con un gancio vincendo e rivincendo tutto: 6 titoli Nba, miglior realizzatore di sempre e l’elenco non finirebbe mai. Come non finirà mai gancio-cielo, che in inglese si scrive sky hook così come Kareem Abdul Jabbar in italiano vuol dire generoso servo di Dio. E Sky Hook, in maiuscolo stavolta, è il nome della fondazione a cui Karem ha devoluto tutti i suoi trofei e cimeli per beneficenza nella lotta contro la leucemia, battaglia da lui vinta nel 2011.
Nove anni dopo, nel secondo giorno di aprile del 2020, Karem Abdul Jabbar è tornato a fare gancio-cielo, il gancio è partito dagli Usa, ha attraversato il cielo ed è atterrarto in Italia. “Forza Italia, ce la farai”: il volto di un73enne e le parole di un ragazzo, quello che, imparando a mettere bene le scarpe ed i calzini, è riuscito a toccare il cielo con un gancio. Lui che avrebbe potuto guardare il resto del mondo dall’alto al basso e che invece non si è ancora stancato di rimirarlo dal pavimento. Sistemandosi bene i calzini e allacciandosi bene le scarpe. Perché è solo così che si può toccare il cielo con un gancio. Un giorno disse: “Se non avessi giocato al basket mi sarebbe piaciuto fare il professore di storia”. Buongiorno e grazie Karem gancio-cielo, tu la storia stai continuando ad insegnarcela.
P. S. Scrivo solo perché qualcosa dovrò pur fare
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