NOTRE PAPE EST MORT. Quattro parole tutte in maiuscolo e accanto la foto di un uomo che ha le mani giunte come in una preghiera e l’espressione di uno di quei vecchi saggi africani, lui che veniva chiamato il Baobab per il rispetto che quest’albero rappresenta in Senegal: alto, forte, integro. E’ la copertina che due giorni fa l’Equipe (il quotidiano sportivo più importante di Francia, il più prestigioso in Europa) ha dedicato per dare l’addio e per rendere onore a Pape Diouf, giornalista prima e presidente di calcio poi (al Marsiglia, il primo e unico presidente di colore di un grande club europeo) e nell’intervallo tra l’inizio e la fine di una vita che lo vide candidato pure al Municipio di Marsiglia, procuratore di calciatori. “Un monument de notre football” ha twittato Kylian Mbappè, giovanissima stella del calcio mondiale che Pape Diouf non l’ha mai conosciuto di persona ma che ne sapeva a fondo la storia. Eppure sui profili social e nelle note di agenzia (tranne che in Oltralpe) non c’è traccia di un pensiero dei procuratori di adesso, i ricchi e potenti – i veri padroni – di questo calcio. Barnett (128 milioni di dollari in commissioni nel 2019, 1,3 miliardi di dollari in contratti), Mendes (118, 1,2 miliardi di contratti), Raiola (70,3, 703 milioni di contratti): non una parola, non un ricordo. E quell’immagine in copertina di Papa Diouf si fa gigantesca pure davanti alla copertina di questi giorni di calcio italiano, tra richieste d’aiuto dei club professionistici per 700 milioni di euro e tagli agli ingaggi che servono soltanto alle società per togliere un po’ di colore a bilanci in stra-rosso senza, e pur prima, dello stop forzato. E allora pensi (fa male pensare) che sia soltanto finzione, che in fondo è solo sciacallaggio. E nello stesso giorno in cui Pape Diouf lasciava la terra a Dakar sulla pagina istituzionale della Figc veniva pubblicato il dato dettagliato (e ufficiale) delle commissioni corrisposte dai club di serie A a procuratori e intermediari (anche da loro zero ricordo) nell’anno solare 2019: 187 milioni di euro che non si capisce come sia possibile se sono 583 i milioni di euro – certificati dall’International Transfer Matching System della Fifa – incassati nel 2019 per trasferire calciatori in giro per il mondo da chi al calcio non gioca, non rischia mai nulla eppure vince sempre.
Un Eldorado che Pape avrebbe schiacciato sotto quella polvere di terra africana dalla quale era partito, dall’alto di quel suo metro e novanta racchiuso tutto in una vigorosa stretta di mano accompagnata da un sorriso avvolto in una nuvola di fumo, perché una sigaretta era compagna inseparabile così come lo erano i suoi calciatori. Non suoi semplici assistiti ma amici, figli, fratelli: Bolì, Desailly, Abedi Pelè, Gallas, Drogba, Cissè, Nasri solo a ricordarne qualcuno e nell’elenco c’è pure Rigobert Song che un giorno del maggio del ’98 – un giorno in chiaroscuro, la Salernitana fa pari col Venezia e centra il ritorno in A dopo 50 anni ma 40mila cuori granata non palpitano perché a Sarno se ne sono andate via da poco centinaia di vite, sepolte dal fango di un’alluvione – fece semi-nascosto capolino all’Arechi, il primo acquisto della Salernitana. Delio Rossi lo seppe solo qualche ora dopo, quando il presidente Aniello Aliberti e i dirigenti cenavano al Ciccioformaggio in via Roma e l’allenatore dei record li raggiunse per un brindisi frugale. Al tavolo c’era Song, c’era Peppino Pavone, c’era Pietro Mennea e c’era pure Raffaele Novelli che l’aveva visto la prima volta giocare nel Metz.
A quel tavolo c’era pure Pape Diouf. “Ma chi è questo?” domandò Delio Rossi. E Pape Diouf: “E’ un leone pronto a ruggire per te”. Ma la storia non va sempre come la si pensa. E così quello che sarebbe diventato il capitano dei “Leoni Indomabili”, quello che avrebbe giocato al Mondiale diventando bandiera di un popolo, in granata durò pochi mesi. Appena quattro presenze, perché tra lo stopper con le treccine e l’uomo di Romagna non ci fu mai feeling, anzi risposte piccate e tante panchine tra danze e canzoni che proprio non digeriva: il tempo di segnare il primo gol della Salernitana ritornata in A (a Roma, ma poi fu rimonta giallorossa e finì 3-1 con Totti a infilare Balli) e l’addio a dicembre. Papa Diouf, con discrezione, con abilità e professionalità, aveva trovato una soluzione che andasse bene a tutti: giocatore, club cedente e società acquirente. Dalla Salernitana Song passò addirittura al Liverpool, come teatro di caccia l’Anfield Road e non più l’Arechi: l’inizio di una carriera lunga e prestigiosa che continua ora da tecnico del Camerun under 23 dopo aver superato quattro anni fa un ictus che lo stava folgorando. E al capezzale corse lui, Pape Diouf, che Rigobert non era più un suo assistito ma per sempre amico e figlio. Sette miliardi di lire pagò la Salernitana per il suo cartellino e per 3,58 milioni di euro di adesso (fonte transfertmark) dal club granata passò agli inglesi. Praticamente la stessa cifra. E in tutte e due le operazioni Pape Diouf incassò solo le spese. Altri tempi, altri uomini, altri procuratori.
“Una persona colta, raffinata, di cultura. Semplice ma potente, uno che faceva gli interessi dei suoi assistiti senza speculare, senza piantare grane. Quando tra Rossi e Song le cose non si misero bene non venne a protestare. Voleva capire, si sforzò di trovare una soluzione. Lavorava per i suoi giocatori ma parlava con la società, cercava una via comune che non arrecasse danni. E fu lui a trovare la pista Liverpool, un’operazione che fosse – non andasse per – il bene di tutti. Non riusciva a capire perché le cose non funzionassero ma non si mise d’ostacolo, anzi”. Così lo ricorda Aniello Aliberti, il presidente della Salernitana di allora che conobbe Pape a Metz, dopo un viaggio in Mercedes quasi di soppiatto.
Era un sabato sera d’inverno del ’98, in tribuna con lui a seguire un giovane difensore africano c’era Raffaele Novelli che conosceva Diouf e conosceva a menadito il calcio francese, c’era naturalmente Peppino Pavone “al quale al solito – ricorda l’ex patron – piaceva invece un altro giocatore e però mi piace quello disse pure quando andammo a vedere Gattuso in Scozia”, e c’era pure il presidente del Metz, l’italo-francese Carlo Molinari. Dopo la partita tutti a cena: trattativa conclusa con una stretta di mano e zero commissioni. Anzi. “Stabilimmo, e lui ci venne incontro, fece da facilitatore – ricorda ancora Aliberti – che i sette miliardi li avremmo potuti pagare in più anni. Fu lui a spendersi con Molinari”. E con una stretta di mano e zero commissioni, Diouf e la Salernitana si sarebbero salutati e mai più rivisti nel dicembre del ’98. “Non lo sapevo, mi spiace tanto. Di procuratori ne ho conosciuti tanti, come lui mai”. Il congedo di Aliberti rimanda alla cremazione avvenuta a Dakar, lì dove è morto a 68 anni, lì dove il viaggio di Pape Diouf era cominciato. Nato in Ciad da papà militare, cresciuto con gli zii a Dakar, era arrivato in Francia nel ’70. Postino mentre studiava Scienze Politiche, poi giornalista al quotidiano comunista La Marsellaise, diventato poi procuratore di calciatori per amicizia. L’ha ricordato Bell, ex portiere e icona del Camerun: lo convinse a dare una mano ai giocatori africani che stavano in Francia affinchè non venissero maltrattati. E’ per amicizia che divenne poi pure presidente del Marsiglia, stravolto dalla gestione Tapie e rianimato fino ad accompagnarlo verso il titolo, l’ultimo e storico dell’Olimpique. Mbala, poi Papa, poi Pape. Un precursore, un illuminato, un uomo onesto. Uno per cui bastava una stretta di mano, uno che non si sarebbe messo a fare la guerra alla Fifa quando ha deciso di non consentire più agli intermediari di trarre profitto dalla compravendita di minorenni. “Notre pape est mort”, il nostro papa è morto” ha titolato L’Equipe. “Un monument de notre football”, un monumento del nostro calcio ha twittato Mbappè. Già un baobab, un monumento, peccato non lo sia pure per il nostro.
P. S. Scrivo soltanto perché qualcosa dovrò pur fare.
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