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Plaitano, un proiettile allo stadio e mille bugie

Il 28 aprile 1963 al Vestuti la prima tragica pagina del calcio italiano: un tifoso ucciso, la verità insabbiata e nessun colpevole. Il figlio attende ancora giustizia
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Non c’è una fine per questa storia, viaggia ancora vagabonda. Sfiancata e sfilacciata da segreti e menzogne, sepolta da una coltre di omertà e omissioni, sottomessa alla ragion di stato, schiacciata da viltà e convenienze. È una storia sbiadita che se ne sta nel cassetto della memoria anche se le parole rabbia, vergogna e ingiustizia si leggono ancora benissimo. Sfregiata e sequestrata, resta in attesa della fine. Basterebbero due righe per rendere dignità alla memoria d’un uomo, riempiendo un indegno vuoto della giustizia che dura da sessanta anni. “Scusate, abbiamo sbagliato”.

Di quel giorno resta solo una foto. È in bianco e nero, è la prova regina del delitto: scattata sul gradone di uno stadio col corpo ancora caldo e poi sparita, 25 anni dopo recapitata anonima e imbustata al figlio. È la foto di un padre perso troppo presto che se ne sta tra le mani di un figlio che continua a fare la spola tra i ricordi, cercando qualcuno cui passare la palla, qualcuno che abbia almeno il coraggio di chiedere scusa. Non si vede, ma in questa foto c’è un filo. S’aggroviglia, si contorce. Parte dall’ultimo gradone di uno stadio, come un serpente striscia nelle stanze del potere, avvelena le prove, inghiotte la verità. È la foto di un omicidio eppure mai sarà riconosciuto come tale: derubricato a una morte qualsiasi, come una parabola anonima che si spegne a metri dalla porta. Come un clic sballato. Come un clic sfuocato. Come un altro clic, quello da dove comincia questa storia.

È il 28 aprile del 1963, sono passate da poco le ore 16.30. A Salerno il Vestuti è pieno, è avvolto dal fumo dei lacrimogeni, prigioniero del panico, della paura, della follia. Corrono, piangono e urlano tutti, sono dodicimila. Scappano tutti, tutti tranne uno. Sopra il gradone più in alto della tribuna c’è un corpo disteso. Sul prato e sopra i gradoni ci sono fogli di giornale, mozziconi di sigarette, scarpe, occhiali, fazzoletti, manganelli. Sono resti di una battaglia, non di una partita. È passata un’ora da quella furia eppure pare che gli spalti si muovano ancora, che girino e tremino, che danzino, che scuotano persino quel sole primaverile coperto dalla nebbia dei fumogeni. Vuoto, ferito a morte, desolato, lo stadio pare lo scheletro di quella folla spaventata e in fuga che fino a pochi minuti prima l’ha riempito. Dentro c’è solo un cadavere. È il primo morto per incidenti in uno stadio italiano. La prima pagina nera del calcio tricolore diventerà uno scheletro nell’armadio della giustizia italiana.

C’è sangue, accanto al corpo. È di Giuseppe Plaitano, 48 anni, ex maresciallo maggiore della Marina, padre di quattro figli, custode di Villa Laura, una clinica privata. Medaglia d’argento al valor militare, da capo cannoniere ha combattuto le battaglie a Ponte Stile e Capo Teulada, ha lasciato la divisa nel ‘49 perché quando rincasava i figli Umberto, Raffaele, Gennaro e Annamaria alla signora Maria chiedevano in lacrime, “mamma, ma chi è questo qui?”. S’è messo a fare il portiere, il centralinista, persino il cuoco a Villa Laura pur di tornare almeno per cena a casa, per non sentire quelle voci che sono un colpo al cuore, “mamma, ma chi è questo qui?”. Questo qui è un signore in giacca e cravatta che in un giorno ventoso di primavera del ’63 giace sul gradone di uno stadio, colpito da un proiettile sballato come fosse il maldestro rinvio d’un terzino, il cadavere prima coperto da un lenzuolo bianco e poi nascosto da una coperta di bugie. Una sequela nauseabonda. Comincia da una partita della Salernitana, la squadra del cuore di Giuseppe.

È l’ultima domenica di aprile, l’ultima che possa tenere ancora accesa la fiammella delle speranze granata. Sarà pure l’ultima domenica nella quale s’incroceranno gli occhi di un padre e di un figlio. Giuseppe e Umberto sono al Vestuti. Salernitana-Potenza, trentesima di C: i granata hanno l’ultima possibilità di rientrare nella corsa promozione mentre il Potenza la B ce l’ha nel mirino. È la madre di tutte le partite in una domenica particolare, non si dovrebbe giocare perché le forze dell’ordine sono impegnate altrove. Si vota per le Politiche perché il Governo è caduto sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica: il Pci insidia la Dc, il presidente del Consiglio uscente è Fanfani, Taviani il ministro dell’Interno. Nella Salernitana giocano il romano Scarnicci, l’istriano Santin, l’indigeno Gigante e un giovanissimo Cordova che poi passerà alle cronache per aver sposato Simona Marchini e poi Marisa Laurito. In panchina non c’è Bruno Nastri, giovane e funambolica ala. Qualche domenica prima la mamma aveva fatto irruzione mentre si giocava. Lei urlava, i carabinieri le correvano dietro. Voleva che il figlio tornasse a casa, a studiare invece che perder tempo appresso a un pallone: stoppata in tempo, tra risate e incredulità. In tribuna c’è Pasquale Gagliardi: la famiglia ha fatto fortuna in Venezuela, lui è il commissario straordinario di una società che da anni rischia di saltare, sempre sul filo, sempre a un passo dal baratro. Sono anni difficili e deludenti per la Salernitana, per i suoi tifosi. Dopo la retrocessione dalla serie A per un punto nel ’48, poche gioie: 8 anni di B e una promozione sfiorata, poi 6 anni di anonima serie C. No, La Salernitana di quegli anni non è come Salerno, che splende e si espande.

Una città cartolina. Come quelle che con dieci lire compreso francobollo mostrano all’Italia luminose vedute del Lungomare che fa tutt’uno col mare blu e gli stabilimenti balneari, che diffondono i colori della “città giardino”, che illuminano la folgorante rinascita di un centro urbano in vent’anni passato da cinquantamila a centoventimila abitanti. Salerno si è messa alle spalle la devastazione tedesca e le bombe Alleate, la polvere e i lapilli del Vesuvio nel ‘44, la valanga d’acqua, terra e detriti che l’aveva sommersa in una notte d’autunno del ’54. S’è rialzata con le proprie gambe. Il Lungomare, i giardini che affacciano sul mare e poi quartieri, strade, piazze, scuole, trentamila piantine che rendono verde l’asfalto. Tra le città del Sud è quella col più alto tasso d’immigrazione. La chiamano la “Milano del Sud” perché s’insediano industrie: pugliesi, lucani, calabresi abbandonano un percorso di stenti incamminandosi verso una città baciata dal mare e dal sole, città che s’ingrandisce in un groviglio di palazzi e attività. “Fino a pochi anni fa la città era ridotta alla miseria. Oggi l’ordine politico, l’efficienza amministrativa e lo spirito d’iniziativa del suo sindaco e della sua borghesia imprenditoriale hanno cominciato a dare i loro frutti”. Così l’inviato de “Il Corriere della Sera” Piero Ottone descrive la Salerno di Alfonso Menna, dal 1956 sindaco dopo l’ordine impartitogli dall’arcivescovo Moscati, “lasci Roma, si candidi alle elezioni comunali”. Primo cittadino per 14 anni e un’ossessione in tre parole: “La grande Salerno”.

La Salernitana degli anni ‘60 invece è una cartolina sbiadita, come quella che s’infila in un cassetto perché fa malinconia. Però la passione è viscerale, ai tifosi basta poco per sognare e riempire l’ex Littorio. Sorge in pieno centro, lì dove prima c’era il cimitero, sorge lì dove un anno prima Nanny Loy vi ha girato alcune scene del film “Le quattro giornate di Napoli”. Sul set si sparava per finta, il 28 aprile 1963 si sparerà davvero in uno stadio bardato a festa.

Anche Giuseppe e Umberto sognano una domenica di festa. È da 58 anni che Umberto torna a quel giorno. «Gli chiesi delle sigarette, mi diede una pacca tra spalla e collo. Io con gli amici, lui al solito posto, sull’ultimo gradino. Ci salutammo con un occhiolino. L’ultima volta che lo vidi, vivo». Vivo, come il ricordo di quella domenica che non passerà mai, come se ogni volta un pallone tornasse a metà campo al fischio d’inizio.

Eccolo, il fischio. L’arbitro è il trentaseienne Gandiolo di Alessandria. In dodicimila sperano, stipati nel Vestuti che ribolle un’ora prima dell’inizio. Dodicimila imprecano quando il Potenza passa. Rosito segna, forse è fuorigioco: proteste, però si continua. Si gioca e si spera, si freme e s’impreca. Nella ripresa l’assalto della Salernitana si fa disperato. La tensione cresce, lo stadio si scalda, s’infiamma, rumoreggia. Il gol non arriva, i fischi dell’arbitro pare prendano solo la direzione rossoblù. Un tifoso entra sul campo, due carabinieri l’afferrano, lo bloccano, lo portano via. Tutto pare rientrare però ormai la miccia è accesa, il Vestuti è un vulcano pronto a esplodere. Dieci minuti e Visentin stramazza in area. I dodicimila s’aspettano il fischio e invece nell’arena infuocata Gandiolo dice no anche stavolta, “accidenti a voi quello non è mica rigore”. È un attimo. Un tifoso scavalca dai Distinti. Veloce e indisturbato, corre verso l’arbitro. Due questurini lo rincorrono, lo afferrano, lo randellano. A sangue. L’uomo si divincola, scappa. Lo riprendono, lui chiede pietà, invoca aiuto. “Guardate che mi hanno fatto”, dice rivolto alla tribuna che intanto non si tiene più. La sua camicia bianca ora è tutta rossa, rossa di sangue. Monta la rabbia. Le reti di recinzione cadono ovunque. È baraonda, in 500 entrano sul prato lì dove iniziano a sfrecciare come imbizzarrite le camionette delle forze dell’ordine. A Gandiolo rifilano un cazzotto mentre scappa e tutti dicono che è stato “U’ cines” che nel centro storico gestisce un fiorente giro di prostituzione mentre “Pal’ i’ chiumm” – uno che trascorre le giornate fermo come un palo davanti a una fontana del centro storico improvvisandosi agente di cambio dollari/lire – rifila un gancio a un tenente forse regolando così altri conti in sospeso. Spaventati, i giocatori raggiungono incolumi i gradini del sottopasso rifugiandosi negli spogliatoi.

Sul prato intanto pare tornare la calma. All’improvviso partono tre colpi di pistola, sparati dalla metà campo. Il grilletto lo preme il tenente di Polizia Gaetano Parasole, il responsabile del servizio d’ordine vuol disperdere la folla: il proiettile di una calibro 7.65 fila invece verso la tribuna arrestando la folle corsa nella tempia sinistra di Giuseppe che muore all’istante. L’unico segno è un rivolo di sangue accanto al corpo, rannicchiato, quasi in posizione fetale. Se ne accorgono in pochi dentro quella baraonda, dentro quella sarabanda di anime perse e di pallottole vaganti. Non il figlio Umberto: i suoi occhi non incrociano il corpo del papà, il suo cuore però è come se già sapesse. Batte, pompa, palpita. Ancora adesso.

«Mi giro ma intorno è caos, è paura. La gente urla, scappa. Non lo vedo, in tribuna c’è la calca. Si ondeggia. Sul campo c’è chi perde sangue, chi piange per i colpi di manganello, chi per il fumo dei lacrimogeni. Mi rigiro e sento l’eco di un colpo. Lo sento, come tutti gli altri su quei gradoni. Lo speaker dal microfono urla: “Sono arrivati colpi qui in tribuna”. Poi il buio, poi di corsa. Tutti a correre fuori. Ci sono anche io e non so come, non ho mai toccato i piedi per terra». Per terra, su quel gradone di cemento alto e spesso, freddo e imbrattato dalla morte, resta solo il corpo di Giuseppe: un rivolo di sangue e materia cerebrale gli hanno sporcato la giacca, un lenzuolo bianco lo coprirà a metà solo un’ora dopo, all’arrivo del pm. Fuori infuriano i disordini. Battaglia tra forze dell’ordine e tifosi: lacrimogeni e cariche, pietre e bastoni. Non c’è tregua. Salerno è avvolta da una nuvola di fumo e di rabbia. Buia è la notte.

Sette ore dopo, solo dopo l’intervento del sindaco e sedati i disordini nell’antistadio, Gandiolo e il Potenza lasciano il Vestuti. In linea d’aria a duecento metri, l’ospedale Riuniti. Nella sala mortuaria giace ricomposto il corpo di Plaitano. Colpito da un proiettile. Tutta la città lo sa, il passaparola è doloroso, rabbioso. Eppure il direttore dell’ospedale Achille Napoli che è anche vice-sindaco in una dichiarazione ufficiale precisa che «il cadavere non presenta alcuna ferita da arma da fuoco mentre è stata riscontrata una grossa ecchimosi nella parte alta del torace. Pertanto le cause del decesso sono da ricercarsi nello schiacciamento e da conseguente collasso cardiocircolatorio». Viene disposta l’autopsia e mentre il resoconto dei disordini diventa solo un opaco elenco di cifre – 68 feriti tra forze dell’ordine e civili, 36 i medicati, 30 i fermati in camere di sicurezza, danni per 70 milioni di lire – nelle stanze del potere si prova a spegnere la miccia già ardente. Il ministro Taviani invia da Roma il generale Fiorita, chiamato a far luce sull’accaduto mentre il Procuratore capo della Repubblica Vincenzo Botta apre un fascicolo d’inchiesta affidata al sostituto Rizzoli che dopo il sopralluogo allo stadio acquisirà il primo e sommario referto autoptico. È in ospedale che avviene la prima manipolazione, è lì che s’avvia la macchina della rimozione, è lì che scompariranno le responsabilità. Lì la realtà comincerà a diventare finzione. La finzione s’impossesserà della verità. Per sempre.

Però Umberto c’era quel giorno. C’è ancora. «Trovai mio padre sulla tavola mortuaria. Un amico mi aveva detto che s’era fatto male a una gamba: “Umberto, meglio che vai a vedere”. Mi avvicinai al corpo. Un colpo, un solo foro, un rivolo di sangue. Il proiettile l’aveva ucciso trapassandogli la tempia. Qualcuno disse che fosse tra i facinorosi. Ma come, se il suo corpo stava sul gradone più in alto? Quei colpi furono sparati da metà campo, si disse a scopo intimidatorio. Perché? L’arbitro era negli spogliatoi come i giocatori, la tensione e il caos stavano rientrando. Vidi la perizia e il primo rapporto autoptico: solo destrorse nella perizia balistica sulle pistole dei poliziotti, eppure il proiettile prelevato dalla tempia di papà era sinistrorso. Tutte carte che sarebbero presto scomparse. Tutta finzione». La notte aiuterà a confezionarla, trasformando un omicidio colposo in una morte per collasso cardiocircolatorio.

Salerno non va a dormire, la notte è illuminata a giorno dalle camionette dei carabinieri. La città è sgomenta, chiede giustizia, manifesti sui muri delle strade. I deputati del Pci Amendola e Granati presentano un disegno di legge sul disarmo delle forze dell’ordine. Sull’edizione de Il Mattino il corrispondente prima scrive, “mentre in campo si scatenava la bagarre è stato visto cadere Plaitano in una pozza di sangue”, poi “sembra che il decesso sia da attribuirsi a collasso o a schiacciamento” e infine che “dall’esame autoptico non è stata riscontrata alcuna ferita da arma da fuoco”. Prima dei funerali fissati in fretta, il Prefetto Germini convoca una conferenza stampa: nessuno ha ordinato agli agenti di aprire il fuoco, il rumore degli spari era quello dei lacrimogeni, niente colpi di pistola. A corredo una seconda autopsia, firmata dal medico legale Palmieri, amico di Menna e sindaco democristiano di Napoli: nessun colpo di pistola ha trapassato la tempia.

Un’ora dopo in piazza San Francesco sono in ventimila, in prima fila c’è anche il sindaco a dare l’ultimo saluto a Giuseppe, divenuto il martire della città. La bara come una delle statue votive portate a spalla dai fedeli nella processione del patrono Matteo: quel corpo diventa oggetto di scontro sociale e politico. “Vogliamo giustizia, fuori i colpevoli”, urlano. In migliaia s’incamminano per le strade del centro, come l’acqua di un fiume in piena che non trova più argini. Il corteo si arresta solo davanti alla Questura: i poliziotti sono asserragliati, protetti dai carabinieri. Interviene Menna, la protesta è placata a fatica, il corteo risale, si scioglie dinanzi la chiesa. Dal giorno dopo alla vedova e ai figli resteranno le lacrime, la voglia di giustizia, la necessità di un piatto a tavola. Dal giorno dopo partirà anche una sistematica, studiata demolizione di quel giorno. «Ci affidammo all’avvocato Spagnuolo – ricorda Umberto – che chiese conto di perizie e indagini. Niente. Il mese dopo non arrivò la pensione da maresciallo di papà. Qualche giorno dopo si presentarono due poliziotti: avevano una busta, mamma li cacciò. Menna si prodigò, voleva assumerla ma i miei fratelli erano piccoli. Una delibera di giunta stabilì allora che sarei stato assunto come ragioniere subito dopo aver conseguito il diploma. Così fu. Contratto di tre mesi in tre mesi, fino al concorso interno e all’assunzione nel ’68. Ho voluto bene a Menna ma di quel giorno e di quello che sarebbe avvenuto dopo però non parlammo mai». Anche Menna, l’amico di Fanfani e Tambroni, il sindaco che aveva ospitato Gronchi e Moro a Palazzo di Città, volse lo sguardo dall’altra parte, anche lui sottomesso alla ragion di stato. Anche lui avrebbe digerito quel giorno come un giorno qualunque.

Come se quel 28 aprile 1963 non ci fosse mai stato, inghiottito da bugie, manomissioni, omertà. Parasole verrà trasferito immediatamente in Sardegna, ufficialmente per motivi familiari. Il generale Fiorita chiuderà l’inchiesta ministeriale appena un mese dopo: questore e Prefetto rimossi ma senza alcun rilievo. Il fascicolo aperto in Procura perderà fogli, uno dopo l’altro: la perizia balistica, la seconda autopsia, i verbali dei pochi testimoni coraggiosi, persino il sostituto procuratore andrà via. Il fascicolo Plaitano sparirà. Bruciato in un falò d’impunità e abusi. Le Procure di Salerno e Napoli non procederanno mai penalmente. La famiglia non otterrà mai un risarcimento né un processo civile. Le prove non c’erano più. Tutto sparito, manomesso, tranne i ricordi e il dolore del figlio. «Ci rivolgemmo all’avvocato Pastore, non volle mettersi contro lo Stato. Andammo a Napoli dall’avvocato Ruggiero: dopo qualche mese disse di non conoscerci, persino di non aver mai ricevuto carteggi. La situazione era così in Italia».

Così è rimasta. Da 60 lunghi anni. Perché per anni la famiglia ha chiesto invano la riapertura del caso, ha scritto accorate lettere a tre diversi ministri. Ha chiesto giustizia, la verità. Nessuno ha mai risposto. Di quel giorno resta una foto. È la prima pagina nera del calcio tricolore. Ancora uno scheletro nella storia della giustizia italiana.

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