Se n’è andato. Mentre gli spagnoli arrancavano, mentre i giapponesi si sfilavano, mentre i cinesi si staccavano. Tacco e punta, punta e tacco. Fatica e sudore. Silenzio e stridore. Sempre davanti, senza scomporsi mai. Ha macinato chilometri come fossero metri, metro dopo metro s’è lasciato dietro una fila di campionissimi. Sempre in testa, sempre senza mai uscire di strada. Sempre una frase a ronzargli in testa. «Bisogna incassare e portare a casa, prima o poi ce la farò», aveva detto due anni fa, ai Mondiali in Qatar. Era tra i favoriti, i giudici lo estromisero dalla gara per irregolarità nella marcia. Non protestò, guardò avanti. All’Olimpiade di Tokyo, cancellata l’anno dopo e adesso lì, ad un passo. Nei suoi passi. Nella sua marcia. Costante, come un rullo che fagocita gli altri. Non lui. Lui che arriva da un paesino della Puglia, da Grumo Appula. Lui che ha cambiato religione per amore, lui che non ha mai cambiato il proprio sogno.
Poi se n’è andato. Se n’è andato con uno sbuffo leggero all’ultimo dei venti chilometri, se n’è andato come se stesse facendo una semplice passeggiata, come se volesse godersi da solo quel momento. Ha tagliato il traguardo guardandosi intorno, cercando un punto da fissare e abbracciare, come se ad accompagnarlo ci fossero anche Maurizio Damilano e Ivano Brugnetti, gli altri due azzurri capaci di vincere le Olimpiadi nella 20 km di marcia. Tacco, punta. Una fatica immane. E così, sulle strade di Sapporo, la marcia azzurra è tornata a bagnarsi di oro. Il meraviglioso colore del meraviglioso Massimo Stano.
