Via da qui. Fragili, sulla stessa barca, in mezzo alla tempesta. Siamo tutti fragili. Abbiamo paura. E allora vorremmo stare tutti insieme con papa Francesco. Insieme e stretti a lui. Forti, stretti e tutti insieme, vorremmo magari sistemarci anche sulla tavoletta di Francisco Porcella, di quelli e quelle come lui. Uomini e donne che cavalcano le onde dell’Oceano – alte venti metri – e però paura non ne hanno. Non arriva ai nove piedi, una da surf: troppo piccola forse per accogliere tutti eppure piantare i piedi sopra una di queste tavole – ora e adesso, tenendosi per mano proprio quando tocca restar distanti persino da se stessi – magari aiuterebbe a prenderla, quell’onda perfetta. Quella che a volte si aspetta per giorni davanti al blu del mare che s’avvolge – turbine forte e impetuoso che diventa valanga bianca, libera e spregiudicata – e che a volte invece s’attende per una vita intera. E magari non arriva ma soltanto perché i piedi non la sfiorano nemmeno l’acqua, ergo nemmeno l’onda.
Che sono la vita e la passione di Francisco Porcella, 33enne sardo nato a Manhattan da papà cagliaritano e mamma di New York, uno dei migliori specialisti del circuito mondiale Big Wave Surfing. Un globetrotter professionista – le tappe del circuito Word Surf League si disputano alle Hawaii, in California, a Tahiti, nelle Figi, in Australia, in Cile e in Portogallo – che surfa, cioè cavalca le grandi onde, navigando su e giù per il mondo. E’ così che ha imparato a conoscere e studiare le caratteristiche di quel mare che proprio non ha taverna; lì, dove piccoli e soli, tra le enormi onde degli Oceani, bisogna restare in piedi. Le onde, uno spettacolo della natura, che però bisogna rispettare assecondandone i rivoli, perché ci sono quelle che arrivano e altre invece che non tornano. Serve allenamento, serve lo spirito. Serve prepararsi, perché solo così s’impara a prendere l’onda perfetta per tornare a mettere i piedi sulla riva. Era alta 22 metri l’onda che tre anni fa gli valse il Big Wave Award, in pratica l’Oscar del surf più estremo. Un mese fa, quando il Mondo non era ancora tempesta e solitudine, Francisco è stato l’unico italiano a partecipare alla tappa in Portogallo, a Nazarè, 130 chilometri da Lisbona.
La tappa più difficile per la conformazione del fondale di quelle acque “perché – ha spiegato – c’è un grande canyon sottomarino responsabile dell’effetto imbuto che incanala tutta l’energia dell’Oceano Atlantico provocando così enormi montagne d’acqua”. Montagne d’acqua alte venti metri che fanno venire i brividi, che mettono paura. Davanti alle quali bisogna farsi trovare forti, e pronti. Perché non si sa quando arriverà quella giusta – il format del circuito non prevede date prestabilite, tutto dipende dalle perturbazioni, dalle condizioni meteo, le gare sono concentrate in quattro mesi e in base alle condizioni del mare si fissano le gare con quattro giorni d’anticipo – e tocca allora farsi trovare preparati, sicuri di riuscire a prenderla e cavalcarla quell’onda. Per non naufragare. Per restare in piedi. Perché è solo così che a casa si torna.
Come fa Francisco che gira il mondo e cavalca gli Oceani, eppure quando ritorna nella sua piccola e bellissima Cagliari non si stanca mica di andare sulla tavoletta. Anzi, ci fa salire gli altri. E gli altri hanno il nome e il volto dei ragazzi della Olimpia Onlus che sulla spiaggia del Poetto ogni estate conoscono così il mare dimenticando la paura. Perdendo il tremore imparano così cos’è l’ebbrezza. “Non sapete quanto mi riempie il cuore vedere i loro sorrisi, la loro eccitazione mentre vengono trasportati da un’onda”, dice in questi giorni nei quali il mare del mondo è solo tempesta. Sono giorni di onde. Come quelle in una canzone di Marco Mengoni. E sembra di sentirla e di viverla quella strofa, forte e fragile che se ne sta tutta insieme: “Onde nel mare che non restano uguali, che si trasformano e fuggono via”. Via da qui.
P. S. Scrivo solo perché qualcosa dovrò pur fare
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