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Caro Basket oggi ti scrivo

Annullati i campionati giovanili e minori. Da Korac ad Allegri, campioni ed eroi contemporanei
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Non so cos’è la vita, non so cos’è la passione, non so cos’è il basket. So solo che l’ho incontrato a otto anni, davanti ad una scatoletta (era arancione e aveva l’antenna che s’alzava a mano) di venti pollici che trasmetteva immagini in bianco e nero. Metà anni ’70, mercoledì notte in differita, e le telecronache di Coppa dei Campioni che arrivavano da una voce asciutta dentro cui c’era tutto, la vita, la passione, il basket. Era la voce di Aldo Giordani.

Dear basketball. Caro basket – perché l’italiano l’adorava e lo parlava – scriveva Kobe Bryant nell’incipit delle lettere pubblicate nel 2015 sul The Players’ Tribune nelle quali annunciava il suo ritiro dalla pallacanestro, parole diventate poi emozioni in un commovente cortometraggio d’animazione premiato nel 2017 con l’Oscar.

“Dime que no estoy sonando”. Ditemi che non sto sognando, esclamò sopraffatto dall’emozione Oscar Cuesta, telecronista spagnolo che nove anni fa chiudeva così gli attimi più incredibili della pallacanestro del Duemila, un crescendo senza respiro durato gli ultimi 35 secondi di Malaga-Real Madrid: l’argentino Prigioni mette una tripla da 9 metri per il più 2 Real; quasi palla persa di Malaga sulla rimessa che però diventa assist per Garbajosa (che aveva già fatto grande Treviso) che dall’angolo infila un’altra tripla per il più 1 Malaga; un invasato Prigioni segna un’altra tripla a 4 secondi dalla sirena per un altro più 2 Real; rimessa Malaga, il folletto McIntyre (che aveva già fatto grande Siena) fa tre palleggi nel traffico pressato da tre blancos, s’arresta a nove metri dal canestro, tira in controtempo e in sospensione (ora si urla, come solo Flavio Tranquillo sa fare, step back) con le braccia di due avversari che gli oscurano il cielo. Ciuf, è solo retina: è canestro, è vittoria, è estasi.

“Zbogom zucko”. Addio biondino, scrisse così la federazione jugoslava di pallacanestro il 2 giugno del 1969 quando Radivoj Korac moriva a 31 anni in un incidente stradale vicino a Sarajevo: da quel giorno – ed è stato così fin quando la Jugoslavia è stata nazione – fu stabilito che il 2 giugno di ogni anno non si sarebbe giocato a pallacanestro, nemmeno sopra un campetto per strada. Omaggio a una leggenda del basket mondiale ammirata anche in Italia con la maglia di Padova, capace di segnare 99 punti in una partita di Coppa dei Campioni (OKK Belgrado-Alvik Stoccolma, 1965), record imbattuto in Europa e che avrebbe superato pure il muro dei 100 di Chamberlain in Nba (1962) se soltanto il coach dell’Okk non avesse tenuto in panca Radivoj negli ultimi minuti. Ma perché?

Già, perché? “Once brothers” è il titolo di un documentario che in fondo è un film, è una storia. La storia di un’amicizia indissolubile eppure calpestata dalla guerra fratricida, la storia del serbo Vlade Divac e del croato Drazen Petrovic, il Mozart del basket, l’uomo che sussurrava ai canestri, il genio del parquet che pure lui lasciava la Terra troppo presto, a 28 anni mentre in auto (e con lui c’era la sua fidanzata e che poi sarebbe diventata la moglie di Oliver Bierhoff) tornava a casa dalla Polonia, alla quale aveva rifilato 30 punti in una gara di qualificazione agli Europei. Le parole dell’amico Vlade che dopo anni può finalmente andare a “riabbracciarlo”, deponendo un mazzetto di fiori davanti alla lapide che lo ricorda, non possono essere tradotte in alcuna lingua.

“Grazie a tutti e state attenti”, ha scritto invece in italiano qualche giorno fa Matteo Malaventura, 42enne ex cestista passato pure per Napoli dopo qualche gettone in Nazionale, che in terapia intensiva all’ospedale di Pesaro, attaccato al respiratore, c’è stato per una settimana. Adesso sta meglio: potrà tornare a respirare pallacanestro.

“Riposa in pace” sta invece scritto al fondo di una lettera, quella postata dieci giorni fa sul sito della Fulgor Lodivecchio Basket, che dava l’ultimo commovente saluto al 56enne Roberto Balconi che per trenta anni ha trasmesso ai bimbi la passione per la pallacanestro. Un papà, più che un coach.

“Ain’t no easy”. Non è facile. In un video di dieci secondi lo ripete senza stancarsi e senza scomporsi, Hassan Whiteside, miglior stoppatore stagionale in Nba (3,1 blocks a partita) negando un facile appoggio al figlioletto che per tre volte cerca di imbucare la retina di un mini-canestro montato in casa, e invece quella palla ogni volta torna indietro e lui deve tornare a riprenderla. E non si stanca. E non piange. Continua. Perché si continua.

Game over. Partita finita. Così sta scritto nel comunicato diramato ieri sera dalla Fip, nel quale si dichiarano conclusi tutti i campionati regionali, giovanili e senior, maschili e femminili, dalla C gold fino alla Prima e Seconda Divisione, dall’under 20 fino al minibasket. Quindi, escludendo (per ora) Serie A, A2 e B, è ufficialmente finita la stagione del basket italiano. Ma non è finita, perché la storia del basket italiano e mondiale, la storia di questi giorni da non dimenticare, sta in un’altra lettera. La più bella mai scritta al basket.

“Caro papà, è piena notte, dovrei dormire, lo so, ma ogni tanto faccio il discolo, proprio come te, e allora ho deciso di scriverti, mi hanno detto che oggi è un giorno speciale che aspettavi da anni…”. E’ l’inizio di una lettera scritta da Claudia il 19 di marzo del 2020 e inviata a “La Giornata tipo”, curatissima pagina del basket ai tempi dei social. Claudia è la moglie di Alessio Allegri, il “Koeman” per tutti, uno che in C è fuori categoria (30 punti di media a partita), il capitano dell’Osl Garbagnate deceduto in campo lo scorso 16 dicembre a 37 anni per un arresto cardiaco durante Osl Garbagnate-La Torre (serie C Gold lombarda): Alessio stava per diventare padre, per la prima volta. Sì, perché dodici giorni dopo è arrivato Liam, che ancora non conosce la vita, che ancora non sa cosa siano le parole e che ancora non sa cosa sia il basket ma che di sicuro ha già imparato a conoscere il suo papà. Con il tempo e nel tempo ci penserà Claudia che nel giorno della festa del papà aveva scritto una lettera e scattato una foto del piccolo con la sua prima divisa, naturalmente del Garbagnate. Più che un pick and roll somiglia a un “dai e vai”, la prima regola del basket. Quello di Aldo Giordani, quello che sapeva cos’era la pallacanestro.

P. S. Scrivo solo perché qualcosa dovrò pur fare

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