Quando tutto era finito s’accendeva una sigaretta. Seduto in panchina, le nuvole di fumo dalle labbra, l’espressione assente. Intorno a lui era festa, era gioia collettiva, era trasporto. Lui no. Si prendeva tempo, faceva un passo indietro, si sfilava. Lì, immobile e piantato sopra quella panca, persino nel giorno della serie A nel paese dell’eden chiamato Rossilandia. Delio Rossi, chi l’ha dimenticata a Salerno quell’immagine di ogni santa e benedetta partita della Salernitana? Nessuno. Pochi però forse ne ricordano un’altra, d’immagine. Mezz’ora prima della sfida. I giocatori sbucano dagli spogliatoi per il riscaldamento. Lui insieme a loro: allenatore e preparatore, tattico e motivatore. Insieme, in prima linea. E non è che lo guidasse a parole, il riscaldamento. Lo faceva pure lui. Si metteva davanti a tutti durante la corsettina ed i giocatori, in fila per due come una filastrocca imparata a memoria, ne ripetevano i movimenti. Un hop, un incoraggiamento, un allungo, una battuta di mani. Sul prato, in prima linea, insieme alla sua squadra. Perché se vuoi essere ascoltato e seguito, devi stare in prima linea, devi esserci. Devi dare l’esempio, con le parole e con i fatti. E’ un’immagine che resta, quella di Rossi e come lui pochi altri: davanti e insieme al gruppo, in tuta a fare gli esercizi prima della partita, della battaglia, della sfida. Un’immagine assente, adesso. Nel calcio e in questi nostri giorni. Allenare non è facile. Tecnico o primo ministro, mister o presidente Bce però devi buttarti nella mischia, rimboccarti le maniche. Devi allenare, allenandoti.
Diceva un signore elegante e abbronzato, sempre serafico e sorridente. “L’allenatore di calcio è il più bel mestiere del mondo, peccato poi ci siano le partite”. Lo ripeteva sempre lo svedese Nils Liedholm e forse faceva meno sorridere di un’altra frase celebre di un altro tecnico del calcio che fu (“partita finita quando arbitro fischia”), lo scaltro Vujadin Boskov. Più riflessiva quella dello svedese: è bello allenare, però poi ci sono le partite. Nell’edizione di oggi de Il Corriere della Sera c’è un intervento dello scrittore Antonio Scurati che comincia così: “Arrivano momenti nella storia dei popoli nei quali le parole non solo sono importanti ma addirittura vitali. Questo è uno di quei momenti. Eppure, purtroppo, proprio ora quelle parole mancano, le bocche che dovrebbero pronunciarle tacciono. Mi riferisco alla capacità del leader di guidare un popolo attraverso la forza della parola e dei gesti”. Motivare anime, rianimare cuori, ribaltare destini. Serve forza, servono leader, servono esempi. Per Julio Velasco – l’argentino che dal nulla creò la nazionale (quasi) invincibile, l’Italia del volley sul tetto più alto del mondo – essere leader significa: “Essere se stesso. Essere autorevole. Essere giusto. Saper contemperare. Coltivare il senso di appartenenza”. Prima, durante e dopo una partita. Prima, durante e dopo, una scalata. Anche quella che pare impossibile.
“I grandi momenti derivano da grandi opportunità, e questa è quella che avrete stasera, ragazzi. Questo è quello che vi siete meritato. Una partita. Se ne giocassimo 10 loro ne vincerebbero 9. Ma non questa, non questa partita. Non stasera”. Sono le parole che Herb Brooks sta rivolgendo nello spogliatoio ai suoi ragazzi. Salt Lake City, 1980, Olimpiadi invernali, sfida Usa-Urss di hockey su ghiaccio. Non c’è pronostico. Gli Stati Uniti sono una formazione di dilettanti e studenti universitari, l’Unione Sovietica è un’armata. Si gioca due mesi dopo l’invasione in Afghanistan, in piena “guerra fredda”. A Salt Lake City, dentro le mura dello spogliatoio a stelle e strisce, l’allenatore Herb Brooks arringa i suoi ragazzi, che stanno cambiandosi. “Quando mettete questa maglia, rappresentate voi stessi e i vostri compagni. E il nome scritto davanti è molto più importante di quello che sta scritto dietro questa maglia”. Per la cronaca, gli Stati Uniti vinsero quella sfida, e vinsero pure l’Olimpiade. Un miracolo sportivo raccontato poi in due pellicole cinematografiche, “Miracle on ice” e “Miracle”. Le parole servono, le parole aiutano. Anche se sono poche. Conta solo che siano quelle giuste.
“Nell’intervallo il mister ci disse: l’allenamento è finito, ora comincia la partita”. La partita era Foggia-Juventus, l’anno era il 1992, l’allenatore era Zdenek Zeman, il ricordo è di Andrea Seno, centrocampista tuttofare di quella squadra spettacolare e che pure aveva cognomi normali. Bianchini, Sciacca, De Vincenzo, Bresciani e mica Vialli, Casiraghi, Ravanelli, Moeller, Peruzzi. Eppure il primo tempo è finito zero a zero, eppure il boemo non è contento. “L’allenamento è finito, ora comincia la partita” disse mentre s’accendeva la ventesima sigaretta andandosene, in silenzio, dagli spogliatoi. Per la cronaca la partita finì 2-1 per il Foggia: Bresciani e Mandelli in gol nei primi 10’ – Ravanelli su rigore quasi alla fine – di quel secondo tempo. Della partita. Che a volte non serve nemmeno parlare. Ma agire, pure con l’aiuto di un benevolo trucchetto, che a volte è una buca.
“Quel pomeriggio, dopo 25’, eravamo sotto già 3-0. Nell’intervallo non successe nulla di particolare. Ci guardammo negli occhi, ci dicemmo che dovevamo tirare fuori gli attributi, che dovevamo dimostrare ai nostri tifosi l’attaccamento alla maglia”. Le parole sono di Riccardo Maspero e tornano indietro fino all’intervallo di Juve-Torino, 14 ottobre 2001. I bianconeri dopo 25’ hanno già archiviato il derby, umiliato l’avversario. Segna Del Piero, Tudor e poi un’altra volta Del Piero. Poi però arriva l’intervallo, arrivano gli “occhi negli occhi” granata e Camolese quasi si scosta limitandosi a sfilare Semioli per Ferrante, manco fosse una staffetta in nome della Salernitana. Sul campo invece c’è invece un altro Torino: Lucarelli accorcia, e Ferrante accorcia ancora. All’83’ Maspero azzera le distanze, il fallimento è impresa. Segna il 3-3, poi però deve correre dall’altra parte del campo perché non è ancora finita. Perché poco dopo la Juve ha il rigore del 4-3 nemmeno fosse Italia-Germania all’Azteca e invece è Salas che s’avvia sul dischetto al “Delle Alpi”. Maspero di soppiatto scava un fossetto su quel dischetto, Salas tira alle stelle col destino che restituisce dignità a chi – nel chiuso degli spogliatoi appena 45’ prima – pensava di averla invece perduta.
“Ascoltatemi. Dobbiamo combattere. Lo dobbiamo ai tifosi. Non lasciate che la vostra testa tremi. Siamo il Liverpool. Stiamo giocando per il Liverpool. Non è possibile definirsi giocatori dl Liverpool e tenere la testa bassa”. Le parole sono di Rafa Benitez, quel giorno – 25 maggio 2005, stadio Ataturk, Istanbul – è la finale di Champions League. Quelle parole risuonano nel chiuso di uno stanzone nel corso dell’intervallo d’una partita a senso unico. Maldini e due volte Crespo in gol, 3-0, restano 45’ da gestire per prendersi un’altra Coppa “dalle grandi orecchie”. E invece nelle orecchie rossonere alla fine risuonerà il suono delle campane a morto. Tre a tre al 90’, tre a tre dopo i supplementari, e 5-6 dopo i rigori, Smicer che segna e Sheva che fa cilecca. A quello spirito indomito, da Liverpool, si sarebbe appellato un altro allenatore, non spagnolo ma tedesco.
“Io a Istanbul non c’ero ma guardate che in tribuna stasera c’è qualche giocatore che allora c’era e adesso vi sta commentando alla tv. Loro ce l’hanno fatta, ora fatelo pure voi”. Le parole all’intervallo sono di Jurgen Klopp, lo stadio è l’Anfield Road, ritorno dei quarti di Europa League. All’intervallo è 2-1 giallonero ma nella ripresa la musica cambia. Ce l’ha fatta il Liverpool nel 2005 e ce la farà pure nel 2016. L’epilogo che scatena il coro “You’ll never walk alone” arriverà in pieno recupero: Milner riceve sul lato corto dell’area e crossa sul secondo palo, Lovren salta più in alto di tutti. E’ 4-3, è l’apoteosi dentro uno stadio che s’accende.
“Platini ma che fa? Lei fuma nell’intervallo…”. Torino, metà quasi degli anni ’80. L’avvocato Gianni Agnelli è appena sceso negli spogliatoi dello stadio Comunale per complimentarsi con i bianconeri prima (e Franco Costa, giornalista Rai, a rincorrerlo come sempre) di andare via perché vedere la ripresa non gli interessava mai. Cala il gelo nello spogliatoio, Platini finisce di allacciare le stringhe dello scarpino, con la sigaretta sempre tra le labbra. Alza il braccio e dà una pacca sulla spalla dell’avvocato. “Avvocato, l’importante è che non fumi Bonini. E’ lui che deve correre, io sono Platini”. Le parole servono. E a volte fanno pure sorridere.
P. S. scrivo solo perché qualcosa dovrò pur fare
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