Ricordarsi di dimenticare la paura. Riabbracciare. Riaprirsi al Mondo. C’è chi ha cominciato da tempo, e tanti però non sanno più nemmeno come si fa. Uno si chiama Mahdi è afgano, è scappato dalla guerra, ha vissuto in Iran ma poi ha dovuto aspettare due anni per essere riconosciuto come rifugiato. La sua prima carta d’identità l’ha ottenuta appena un anno fa. Khaoula e Luna – una è africana e l’altra mediorientale – sono anche loro rifugiate. La prima è scappata dall’Africa povera e violenta dando un addio strozzato alla famiglia, la seconda invece arriva dalla Siria martoriata e violentata dalle bombe, è passata per lo Yemen stipata dentro un furgone, ha conosciuto volti e imparato storie come la sua – come quelle di Mahdi e Khaoula – entrando un giorno di marzo del 2019 nella sede del Comitato Olimpico Internazionale, a Losanna. E’ qui che ora sta Mahdi, l’espressione felice, fiero com’è accanto a Khaoula. Che ha le braccia al collo di Luna ed un sorriso stampato mentre quello di Luna è appena soffuso. Il colore della pelle è diverso eppure l’unico che risalta è quello della tuta, nera ma con le strisce color salmone sulle braccia. Due braccia che si allungano, altre due che accolgono: quattro mani che combaciano e che si tengono. Una sola presa. Mahdi, Khaoula, Luna: arrivano da paesi diversi e lontani eppure sono figli dello stesso dramma. Sono rifugiati, e insieme ad altri 37 fuggiti da atrocità e guerre, fanno parte del progetto “Taking refuge: target Tokyo 2020”. Obiettivo rimandato di un anno e magari pure questo è un regalo del destino: avranno più tempo per prepararsi. Tutti e tre stanno vivendo un sogno semplicemente perché un altro ragazzo ha deciso di vivere il loro. Insieme a loro. Lui che da anni ha dimenticato d’aver paura, lui che da anni riabbraccia, lui che da anni si riapre al mondo vivendo con gli occhi degli altri il sogno di altri.
Eppure lui non c’è nella foto. Che da un’altra, cominciò tutto: pareva il giorno del fallimento, fu l’inizio della gloria. Quel giorno, quello in cui le braccia cadono, le gambe si piegano, la carabina casca per terra e resta solo un volto perso, smarrito, vuoto. Quel giorno, quello che ti ha appena trasformato in campione. Pechino 2008, Olimpiadi, ultimo tiro delle qualificazioni, specialità tiro carabina dai dieci metri. La foto non c’è eppure è nitida, impressa, indelebile. Da quella foto è nato un libro – Ricordati di dimenticare la paura – ma soprattutto è nata la storia di Niccolò Campriani, ingegnere manageriale laureatosi alla West Virginia University, ricevuto persino alla Casa Bianca da Obama insieme alla fidanzata Petra Zublasing che gli prestò il fucile – perché il suo s’era inceppato – nel giorno della sua ultima adrenalinica vittoria col presidente del Coni Giovanni Malagò a esultare (“questo ci farà vincere medaglie per almeno altri 20 anni, porterà la bandiera a Tokyo”) e lui invece a scomparire, “perchè con lo sport ho finito, non porterò quella bandiera”. Un’altra ne ha scelta di bandiera, dopo tre ori e un argento alle Olimpiadi, due medaglie a Londra 2012 e due a Rio 2016. Eppure Niccoloro (titolo de La Gazzetta dello Sport del giorno dopo l’ultimo trionfo) cominciò a vincere nel giorno del suo fallimento.
Qualificazioni alla finale, tiro con la carabina dai dieci metri, Pechino 2008. Il cuore batte all’impazzata, fino a 180 battiti; il corpo amplifica tutto, il braccio e la carabina si muovono quando vedono passare il bersaglio. Il mirino che è una goccia, il tocco soffice sul grilletto che pesa 60 grammi. Tutto va bene, così per 59 colpi. Ne resta uno, serve a centrare la finale, per conquistare una medaglia. Niccolò è il più forte, come dirà anni dopo un suo compagno, “perché in un’Olimpiade Niccolò parte con 5 punti di vantaggio, lui è Maradona”. Ne resta uno, di colpo. Il bersaglio è lì. Il centro, il 10 che è perfezione, è grande mezzo millimetro. E invece. “Due monete da un centesimo, una sopra l’altra, creano uno spessore di tre millimetri. Ecco, quei tre millimetri sono la distanza tra il mio ultimo colpo e il centro del bersaglio. Nella vita normale è niente, nel tiro a bersaglio è la differenza che passa tra un 8 ed un 10. Io sparo. Esce otto. E’ la misura del mio fallimento. Eliminato dalla finale, tradito dal mio cuore. La carabina per terra, i miei piedi lontani dalla pedana: ecco questo sono io”: secondi che così ricorderà nel suo libro, Ricordarsi di dimenticare la paura. Scritto di un fiato quando aveva finalmente battuto i demoni interiori. Tre anni a farci la pace, lui che odiava questo sport diventato ossessione “perché il vincitore non è chi è andato più vicino al colpo ideale – che non esiste – ma solo chi ha saputo gestire situazioni difficili”. Il vincitore, solo chi – premendo quel grilletto, mirando al bersaglio – s’è ricordato di dimenticare la paura. Da quel giorno Niccolò sarebbe diventato Niccoloro. Due medaglie – oro e argento – a Londra, due medaglie – oro e oro – a Rio 2016.
E l’ultima medaglia è un romanzo, è una fuga a quei silenzi che l’accompagnavano di ritorno a casa dopo le prime gare a 13 anni, in auto col papà senza aprir bocca se le cose erano andate male, “che quel fucile era l’unico strumento per comunicare tra di noi, e quei silenzi mi hanno aiutato poi a battere il chiodo”. Tiro con la carabina da 50 metri, tre posizioni. A Campriani prima della finale s’è inceppata la carabina, quella che s’è costruito lui a Firenze. Gliela presta la fidanzata Petra, altra splendida tiratrice. Niccolò è avanti prima dell’ultimo tiro, il duello per l’oro con il russo Kamensky rapisce. Spara Niccolò e i demoni ritornano: fa 9,2 che significa argento perché il rivale vincerebbe pure se facesse 8,5 e pare impossibile perché fino al penultimo tiro ha fatto minimo 9. Eppure il russo si paralizza: 8,3 e Niccolò invece di esultare corre ad abbracciarlo. “Forse l’avrà disturbato un brusio, così è proprio brutta” dirà poi.
Da quel giorno, che doveva essere un’altra sconfitta e invece il destino ha voluto fosse ancora d’oro, è ripartita un’altra sfida, un’altra corsa verso le Olimpiadi ma soprattutto verso la vita, incontro al mondo. Raccontata nel corso di un’intervista visibile su Olympic Channel: “La mia medaglia d’oro avrebbe dovuto essere d’argento, visto che avevo vinto per uno sbaglio del mio avversario. Per cercare di fare pace un po’ con me stesso, avevo deciso di donare la differenza di premio fra l’argento e l’oro all’UNHCR, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati. Qualche tempo più tardi venni invitato dalla stessa UNHCR a Meheba, in Zambia, per visitare uno dei maggiori campi per rifugiati. Quella fu un’esperienza molto forte e gratificante. Proprio un ragazzo dell’UNHCR, che ci accompagnava nella visita al campo, mi disse una cosa che mi colpì: non provare pietà per loro, credi in loro”. Da quel giorno ha cominciato a crederci davvero.
Da quel giorno ha iniziato a vivere un altro sogno, Niccolò che ora ha 31 anni: vivere il sogno degli altri. Il sogno più difficile. Quello dei dimenticati, dei rifugiati. Di chi ha nulla – né una casa né una bandiera – ma soltanto paura. Presenta il progetto al Cio, da Losanna lo chiamano perché hanno accettato la sfida. Che diventa realtà. “Taking refuge. Target Tokyo 2020”: portare quaranta atleti a disputare le Olimpiadi sotto l’egida del Cio e la bandiera dei rifugiati, e pazienza se adesso bisognerà aspettare un altro anno. Campriani si fa prestare la sua carabina, quella dell’oro, che ha regalato al museo del Comitato Olimpico internazionale. Non gli serve per sparare, gli serve per mostrare ad altri come ricordarsi di dimenticare la paura.
“Buongiorno ragazzi, da oggi mi vedrete sempre così, allegro e sorridente perché da oggi sarà tutto sempre bello”: poche, semplici, splendide parole ai quaranta selezionati un giorno di marzo di un anno fa, quando iniziava un’altra vita. Per lui che medaglie e sfide le ha vinte tutte. Per Mahdi, Khaoula e Lula – loro tre hanno superato la selezione, a Bologna hanno partecipato mesi fa ai campionati italiani per fare esperienza, e gli altri 37 stanno ora cimentandosi in altre discipline con altri illustri istruttori – che sognano di vincerla la medaglia e di viverla, la vita. Grazie agli occhi degli altri. Che una medaglia non è la cima della vita glielo sta insegnando Niccolò. Perché la vita è ricordarsi: dimenticare la paura, riabbracciare. Riaprirsi al Mondo, vivendolo con gli occhi di un altro.
P. S. scrivo soltanto perchè qualcosa dovrò pur fare.
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