No, non esiste un tempo per cominciare, così come non esiste un tempo per smettere. C’è chi ha iniziato quando aveva settanta anni e non s’è ancora fermato. La sua è una storia che è soprattutto un omaggio. Nel giorno della festa del papà, va di diritto a Giuseppe Ottaviani, il papà di tutti gli sportivi italiani. A voler essere precisi, almeno il bisnonno: il 20 maggio compirà infatti 104 anni e appena sei mesi fa – a 103 anni compiuti, sì 103 – si metteva al collo la medaglia d’oro ai campionati Europei master di Jesolo nel salto il lungo, atterrando 65 centimetri più in là dello stacco senza prenderla nemmeno benissimo visto che pochi mesi prima, ad Ancona, ai campionati assoluti master, era arrivato a 77 centimetri.
Commendatore della Repubblica per alti meriti sportivi, la sua è una storia cominciata nel 1916 a Sant’Ippolito, il paese degli scalpellini, nelle Marche. Quella di Giuseppe è una storia che è uno spot alla vita, è un film che a riavvolgere il nastro non ce la si farebbe; è la storia di un tempo che non conosce data, è una storia diventata finanche pellicola. Si chiama “Cento anni di corsa”: è un docufilm in presa diretta, un anno di riprese – a cavallo nel passaggio di Peppino dai 99 ai fatidici 100 anni – è un lavoro di riflessione sul tempo, è una ricerca sul senso spirituale della vita. Quante ne ha vissute, Giuseppe. Militare nell’Aeronautica a Torino durante la Seconda guerra mondiale, poi il dopoguerra in Francia per sfuggire alla fame, l’apprendistato in bottega e poi il mestiere raffinato di sarto nella sua Sant’Ippolito. Proprio lì dove, qualche collina più in là e 63 anni dopo, sarebbe nato Valentino Rossi, il fenomeno della moto mondiale e anche lui, a suo modo, un esempio di longevità sportiva e vincente.
In pista, a correre e saltare Giuseppe Ottaviani – a 50 anni fumava ed era pigro, raccontò una volta – ha invece cominciato dopo i 70: aveva messo da parte ago, macchina, tessuto e filo ma a star fermo si annoiava, e poi due amici più giovani lo spronavano a seguirlo. Detto e fatto, come un abito tagliato a misura. Li ha superati, li ha staccati, inanellando record e una singolarità: è uno dei pochi atleti ad essere stato allenato da un figlio. Adesso, 33 anni dopo, nella bacheca dell’uomo più longevo dell’atletica italiana, non ci sarebbe quasi più spazio per medaglie e coppe: 55 titoli italiani, un record mondiale, 8 record europei e 13 record italiani M95, 8 record mondiali, 4 record europei e 12 record italiani M100. Il primo e unico centenario al mondo a fare il salto triplo della categoria master 100, l’unico a praticare 11 specialità dell’atletica leggera: dal disco al lungo, dal triplo, al giavellotto, dai 60 ai 200 metri, dal salto in alto al peso. Un elenco che non finirebbe più ma questi sono solo numeri. Non descrivono appieno la grandezza di un atleta, sì un atleta senza eguali nel mondo. Un fenomeno assoluto, l’unico triplista al mondo che alla sua età è in grado di saltare oltre i 4 metri e trenta centimetri e che poco prima dei cento ha corso i 60 piani in 18 secondi netti.
La sua seconda vita è cominciata a 70 anni ad una velocità doppia della prima: in questo giro intorno al Mondo ha incontrato Papa Francesco ed è stato ospite del Festival di Sanremo, a 94 anni si è fatto acquistare un computer perché – ha raccontato il figlio – “so che google può darmi delle risposte” e il preside della facoltà di Scienze Motorie dell’Università di Urbino gli ha affidato la prolusione ai nuovi universitari. Adesso anche lui è fermo, costretto a sospendere – di solito trenta minuti ogni due giorni – gli allenamenti. Sospendere, appunto. Sospendere, per riprendere. Chi, più di Giuseppe? Lui lo sa meglio di tutti. No, non esiste un momento per cominciare. No, no esiste nemmeno il momento per smettere.
P. S. scrivo solo perché qualcosa dovrò pur fare
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