C’è sempre una prima volta. “Bon, bon, bon, adesso lei va a San Marco, si fa un paio di giorni al mare, beve un bel bicchiere di vino, si rilassa, si riposa. Ci si rivede martedì. Bon, bon, bon”. Quel giorno Fulvio De Maio – mitico portiere, commentatore istrionico e vulcanico dispensatore di aneddoti granata – c’era. Quelle precise parole ascoltò. «Fossi stato Agostino avrei preso il mister – uno a cui vorrò sempre bene e riconoscenza – a muso duro. Gli avrei detto: ma come ti permetti, hai capito con chi stai parlando? Più per i modi che per la decisione tecnica. Agostino però era diverso, era un signore. Era taciturno, educato fin troppo, introverso senz’altro. Ma questa è un’altra storia, poi magari ne riparliamo…».
Così, senza una smorfia, senza un sorriso. Senza un “prego, venga nel mio ufficio che magari glielo spiego” come funziona adesso, con i giocatori preceduti dai procuratori e gli allenatori che si atteggiano a manager, recite a soggetto piene solo di vanità e ipocrisia. “Vada al mare, si ritempri, ci rivediamo fra qualche giorno”. Quello era un altro calcio, erano altri uomini, era un altro pallone: non c’erano stanze segrete ma soltanto quattro mura di uno spogliatoio, non c’era una telecamera sull’uscio pronta a spiattellare pettegolezzi, nemmeno un taccuino amico o traditore di un cronista. Niente, la verità bella o brutta si diceva nello spogliatoio, a muso duro e magari qualche volta pure a cazzotti. Oppure con il tono secco e baritono, asciutto e austro-ungarico di un allenatore. Come quella volta. Come la prima volta. Antonio Pasinato che dice: “Bon, bon, bon, Di Bartolomei lei adesso va a San Marco, si fa un paio di giorni al mare, beve un bel bicchiere di vino, si rilassa, si riposa. Ci si rivede martedì. Bon, bon, bon”. E davanti a lui il volto sorpreso e smarrito, nemmeno una parola, di un calciatore che dopo uno scudetto, una finale di Coppa dei Campioni, tre Coppe Italia, 363 partite e 64 gol in serie A, apprende l’esclusione dai convocati appena alla quarta partita del suo primo campionato di serie C: insomma, quello davanti al sergente di ferro è il mitico Agostino Di Bartolomei.

E’ così che va il 30 settembre del 1988 nello stanzone del vecchio Donato Vestuti. Anti-vigilia della sfida casalinga contro il Campobasso. La Salernitana è già in affanno eppure ha al solito costruito uno squadrone che in estate, come ogni benedetta estate dal ’67 all’89, infiammerà le speranze dei tifosi granata. Dopo un mese di campionato invece è già contestazione fuori, rivoluzione dentro. A farne le spese l’asso, il simbolo, il carico da novanta ingaggiato dal presidente Giuseppe Soglia per coronare la lunga rincorsa alla serie B, il satanasso che dovrà per sempre mandare all’inferno delusioni e patimenti di tutta una città, di un’intera provincia. “La Salernitana ha concordato il contratto con Agostino Di Bartolomei, il calciatore vestirà la maglia granata nel prossimo anno”: è il dispaccio originale (in realtà Agostino ha firmato un biennale) anche se in forma un po’ inusuale che l’agenzia Ansa batte il pomeriggio del 4 luglio. La quinta agenzia di informazione più importante al mondo che batte due righe sulla Salernitana: possibile? Possibile accidenti, quella sarebbe proprio la notizia del giorno. Solo cinque anni prima Ago ha completato in trionfo il giro del campo all’Olimpico, la Roma campione d’Italia. Lui con la fascia al braccio e uno stadio che intona “Oooohhhh Agostino….Oooohhhh Ago Ago Ago.. Agostino-gol”. E come se, ad esempio, il capitano e bandiera Gigi Buffon (differenti certo per indole e statura, però passi il paragone) decidesse – dopo aver vinto nel 2015 l’ennesimo tricolore con la Juve – di scendersene cinque anni dopo fino alla Carrarese, la squadra vicino casa.

«Una scelta di vita»: così l’allora 33enne Agostino Di Bartolomei la definisce nel suo primo giorno ufficiale di Salernitana. In fondo quell’ingaggio era diventato nei primi giorni d’estate il segreto di pulcinella: tutti sapevano, tutti mormoravano, tutti aspettavano. Tifosi e curiosi: “L’ho visto fare rifornimento a una pompa di benzina”, “l’ho visto a via Sant’Eremita dove c’è la sede della Salernitana”, “l’ho visto bere un caffè al Bar dei Mercanti”. La decisione di dare un taglio alla serie A e di tuffarsi in un’altra avventura in realtà l’ha presa da due mesi, da quando ha detto no al rinnovo con il Cesena condotto alla salvezza e ha pianificato con la compagna Marisa De Santis un nuovo capitolo di vita: lui ama il mare, adora fare immersioni con la muta, la pesca lo rilassa e se si trapassa una cernia magari ci scappa una cena sull’enorme terrazzo. Lei è di San Marco di Castellabate e da quell’incantevole borgo ha preso il volo, per anni hostess in giro per il mondo e adesso ha il desiderio di tornarsene a casa. Gianmarco e Luca poi sono ancora piccoli: “Villa Egnatia” sembra per tutti il paradiso.
«E’ una scelta di vita», ripete Ago senza fare una promessa: vincerò, vi condurrò, vi stupirò, vi aprirò la strada, camminerò sulle acque. Niente, non si scalda eppure riscalda i cuori di un popolo che sogna. Lui i piedi li ha sempre a terra. Quattro parole e una smorfia, quattro parole e poi il silenzio. Nei volti di chi gli tende un microfono l’incredulità e magari un briciolo di giustificatissima impreparazione: perché un campione così chi se l’era mai trovato davanti, per giunta ha indosso la maglia della Salernitana? Alla Roma 15 anni prima ci aveva giocato Prati, 10 gol in 19 presenze nell’ultima promozione in B dei granata, stagione calcistica 65/66. Ma Prati allora era Pierino, un fiore che stava sbocciando. Nel 1984, a chiudere la carriera sarebbe arrivato Michele De Nadai, un altro ex Roma e che in giallorosso aveva vissuto quattro stagioni al fianco di Di Ba. Eclettico e leader, ma vuoi mettere con Di Bartolomei Agostino che la sera del 30 maggio 1984 – quindi appena 4 anni prima – s’è visto sfilare dalle mani la Coppa Campioni per gli errori dal dischetto di Conti e Graziani, perché Falcao s’è tirato fuori, “no, io i rigori non li tiro” e perché Grobbelaar è un clown che viene voglia di scaricargli una bomba da quei maledetti undici metri proprio come Agostino avrebbe fatto quella maledetta notte, senza tremare e senza sbagliare? Tutta un’altra storia.

La solita storia invece è quella della Salernitana che, partita a luglio del 1988 per sbaragliare le avversarie, ha cominciato a perdere pezzi prima ancora che la corsa partisse. Condemi è un diavolo scatenato, segna una tripletta nell’umiliante 5-1 col quale la Battipagliese che inaugura lo stadio Pastena rispedisce a bastonate la blasonata Salernitana: l’allenatore Carlo Soldo viene licenziato nella notte. Ignaro, il giorno dopo dà le dimissioni il direttore sportivo Enrico Alberti, ex giocatore granata, che da ds avrebbe poi fatto le fortune del Bari e che aveva lasciato il Pescara dopo la storica promozione in A pur di dire sì al vecchio amore. Ma nel calcio amore e riconoscenza non esistono: contano solo i risultati, nome e carriera sono carta straccia dopo appena un giorno. Come quella volta. La prima volta. «Quel giorno non accadde nulla di particolare. Non ci fu, come pure si disse, un litigio in allenamento, un alterco, un rimprovero. Nulla di tutto questo», ricorda adesso Fulvio De Maio che all’epoca era il preparatore dei portieri granata. Lavoro part-time, tre volte a settimana per 350mila lire mensili. «Era l’ultimo allenamento prima di andare in ritiro, negli spogliatoi Pasinato chiamò i convocati. I giocatori erano tutti seduti. Non ci fu nemmeno il tempo di pensare. Il mister si girò verso Di Bartolomei e gli rivolse la famosa frase, senza scomporsi ma lui era fatto proprio così: bon, bon, bon, lei vada a San Marco, si faccia due giorni di mare e si beva un bel bicchiere di vino. Ci vediamo martedì alla ripresa». Una frase che sembrò, e sembra ancora, un affronto. E invece. «Si disse che Pasinato soffrisse di gelosia per Ago, che ne patisse la figura. Innanzitutto Agostino non faceva pesare un bel nulla, era mite, educato, garbato, introverso. Un campione di calcio che non avrebbe però mai fatto pesare il suo curriculum. Ma anche Pasinato era un uomo di calcio, uno tutto di un pezzo. Quella prima esclusione tecnica secondo me era frutto di una scelta tattica: la squadra era ancora imballata, soffriva e penava, contro il Palermo la domenica prima Dalla Costa aveva dato una bella risposta. Il mister penso non volesse imprimere un taglio netto con Di Ba. Insomma, gli diede una domenica di riposo per farlo rifiatare e permettere alla Salernitana di correre un po’ di più, di vincere. Perché serviva vincere».

Antonio Pasinato ha preso in corsa la Salernitana. Aveva detto no a giugno perché contava di restare a Taranto: un allenatore di rango per la serie C, l’artefice anni prima del miracolo Campobasso, promosso in B e poi da matricola sfavillante capace di metter sotto Lazio e Fiorentina in casa nelle prime partite raccontate alla radio da Riccardo Cucchi e persino di uscire imbattuta da San Siro nella sfida col Milan. La squadra con la quale Pasinato aveva vinto lo scudetto nel 1962: nemmeno una presenza in campionato ma 6 nella Coppa dell’Amicizia italo-francese. Era il Milan di Cesare Maldini e Giovanni Trapattoni, di Josè Altafini e Gianni Rivera, il Milan allenato da Nereo Rocco e Gipo Viani a fargli da vice. Otto anni da difensore implacabile al Lecco, tre stagioni in serie A e un amore che l’avrebbe portato poi a scegliere le rive del lago come residenza, lui nato a Bolzano nel 1935 e adesso ancora un uomo sveglio e presente dall’altro filo della cornetta, a Oggiono, provincia di Como.
«È vero, misi fuori rosa Di Bartolomei: a oggi posso dire solo che mi dispiace e basta, perché Agostino non c’è più. Quel che è stato fatto è fatto, non mi va di dire altro». Di più non gli si riesce a strappare. Perché signori si nasce. Pasinato a Salerno aveva chiuso la carriera di calciatore, due anni e una parentesi persino da allenatore-giocatore – dal 6 al 23 settembre del ’69 dopo la fuga di Piacentini e prima dell’arrivo di Gratton – e l’anno prima in squadra c’era pure un giovanissimo Fulvio De Maio. «La mia prima partita in serie C, e a guidare la difesa c’era lui, Pasinato. Gennaio 1969, Salernitana-Matera 1-1, gol di Rasi. E in quella c’era Mario Cartasegna, ma questa è un’altra storia».
Un’altra storia già: se l’immaginava così Agostino Di Bartolomei, l’aveva sognata diversa la Salernitana, ci aveva creduto Salerno. Alla prima in campionato il Vestuti è strapieno: di 172 milioni di lire è l’incasso, di 76 milioni è la quota abbonati. Di Bartolomei ha la fascia al braccio: al Vestuti ci sono telecamere nazionali e persino inviati da Roma a seguire il vecchio, indimenticato, capitano. E’ la prima volta in serie C per un campione che ha scelto di chiudere la carriera all’incontrario: l’unica sua parentesi da ragazzino in B col Lanerossi Vicenza a farsi le ossa, poi solo serie A. La Roma, il Milan di Berlusconi e Liedholm, il Cesena. Stavolta le avversarie sul cammino si chiamano Ischia, Giarre, Francavilla.

Casarano, prima di campionato: l’11 settembre, un 11 settembre pure questo a suo modo dirompente, spartiacque. E con lui in campo quel giorno ci sono Imparato, Cocco, Marino, Di Battista, Della Pietra, Incarbona, Sacchetti, Maranzano, Cozzella e Romiti che da centravanti-panzer fa pure l’uno a zero ma l’agile Foglietti all’89’ gela tutti. La sconfitta contro il Cagliari del ds Carmine Longo, Ranieri allenatore e Provitali centravanti verrà incassata quasi come una tassa, sarà assorbito peggio invece il pari successivo col Palermo: lancio di oggetti in campo e Vestuti squalificato. La domenica successiva si va sul neutro di Benevento per giocarsela col Campobasso. E’ la prima domenica senza Di Ba invitato da Pasinato a godersi il sole di San Marco, al suo posto Dalla Costa, i granata dilagano (4-0) ma poi ricadono la settimana successiva. Agostino intanto s’è ripreso il posto ma la squadra non ingrana, non corre, non convince. A Frosinone il capitano resta negli spogliatoi al 45’, sostituito da Livio Maranzano. Il 16 ottobre il primo gol, su rigore contro l’Ischia. A fine mese si consuma lo strappo. “Non è compatibile con il modulo tattico della squadra” dirà Pasinato. «Non ci fu un litigio, una causa scatenante. Di Bartolomei incassò la decisione da professionista e campione, sin troppo. Non era un uomo di molte parole, anche lo spogliatoio soffrì molto quel periodo». Mancava sincronia in campo, non tanto fuori. Soglia proporrà la rescissione del contratto: s’era fatto avanti il Siena ma la moglie Marisa sarà contraria, Agostino per un attimo s’accenderà, a Soglia lo dirà persino con impeto, inusuale per quella corazza di sentimenti tenuti rigorosamente sempre a freno. “Non è giusto, non lo accetto, il tempo sarà galantuomo, da qui non scappo”. La città si spacca, la tifoseria si interroga, si lacera, si preoccupa.

Un giorno alla porta dello stanzone allo stadio Vestuti bussano Amedeo Rosamilia, Celeste Bucciarelli e Salvatore Orilia: i delegati della tifoseria organizzata vorrebbero capire, parlare con tecnico e giocatori, sapere da Agostino. Lui no, si copre il volto con le mani: via da qui, non è proprio il caso. Però i giorni passano e gli animi si fanno sempre più accesi. Dai toni – è un attimo – si passa ai fatti. Il soffio è un vento maligno, sempre più impetuoso. «Come accadeva spesso in quegli anni a Salerno iniziarono i pettegolezzi – ricorda Fulvio De Maio – si cominciò a dire che le colpe di quelle esclusioni fossero di Romiti. Certo, a Romiti non piaceva Agostino. Ma erano calciatori e uomini diversi: uno sanguigno, l’altro calmo. Uno chiacchierone, l’altro taciturno. Ma mai un litigio, uno scontro. Dicevano che Romiti guidasse la rivolta di parte del gruppo contro Di Bartolomei, che fosse lo sponsor di Dalla Costa. Non era vero niente». Giorni affilati. Troppo affilati.
E così si arriva a un mercoledì come tanti, solo che quella volta al campo della Snia Viscosa, zona industriale di Salerno, spunterà pure una pistola. «Ero già in campo con Imparato e Mancuso. Dietro il container che usavamo come spogliatoio – ricorda De Maio – c’era una specie di dosso. Da dietro cominciò a sentirsi la voce di un tifoso: Romiti la colpa è tua, Romiti devi andartene, Romiti sei un uomo di mer…». Due minuti: Romiti come una furia esce dal container, s’avventa sul tifoso, capelli ricci e un lavoro al porto. «Marco era grande e grosso ma quello sapeva difendersi: e invece uno schiaffo, un pugno, e ancora un altro. Gliene diede proprio tante e poi tornò come un indemoniato, noi tutti spaventati a cercare di sedare gli animi». Il tifoso va verso l’auto, poi torna indietro. Impugna una pistola. «Adesso gli sparo, adesso ti ammazzo – urlava come una furia – non so se la pistola fosse carica, so soltanto che ancora una volta fu provvidenziale l’impareggiabile Bruno Carmando. Si mise in mezzo, si mise davanti a Romiti e poi convinse il tifoso ad abbassare quella pistola». E Pasinato? «Tutto vero, lo giuro. Pasinato entra nello spogliatoio, va da Romiti e gli dice così: “Bon, bon, bon. Lei adesso prende sua moglie e la porta in Costiera. C’è il sole, vada a godersi il mare, vada a mangiare uno spaghetto con le vongole, beva pure un bel bicchiere di vino. Si rilassi e domani torni al campo. Da questo punto di vista un allenatore eccezionale: sapeva stemperare gli animi, sapeva contestualizzare». La settimana seguente Di Bartolomei sarà reintegrato: una decisione per provare a calmare le acque, per soffocare quel vento maligno, tanto più che la Salernitana – al gruppo si sono aggiunti Pecoraro e Zennaro – non decolla. Però per lui niente domenica e niente partita. Il ritornello, sempre il solito.

Il giorno prima della gara Pasinato che si gira verso il capitano deposto ma mai vinto: «Bene, bene, bene. Di Bartolomei, lei vada a San Marco, si goda il mare, si beva un bicchiere di vino, ci si vede martedì. Era diventata una specie di filastrocca, nello spogliatoio non si sapeva più che fare. Credo che quella vicenda segnò molto il destino della stagione. La squadra era forte, avrebbe potuto fare di più. Forse, ma non è un appunto, se Di Bartolomei avesse affrontato con più forza la questione con il tecnico sarebbe andata diversamente. A volte da uno scontro si dà la svolta alla stagione. Una volta glielo dissi: Agostino, ma come fai? Perché non parli con l’allenatore? Perché non ti fai sentire? Lui niente: io aspetto, io mi alleno, io sono a disposizione, poi le scelte toccano a lui». Una tregua armata eppure senza armi: l’implacabile freddezza dell’austro-ausburgico contro la sofferta freddezza del romano di Tor Marancia. Si va avanti così fino al nuovo anno. Fino al naufragio di Catania, la prima volta del non ancora 17enne Gianluca Grassadonia. La Salernitana ne prende cinque. Pasinato quasi vacilla. «Quando atterriamo a Napoli il mister parla al gruppo: ragazzi tranquilli, non è successo niente, pensate a riposare, ci vediamo martedì. Quando arriviamo davanti al Vestuti ci sono tanti tifosi che ci stanno aspettando: cominciano a tirarci di tutto, persino le pietre. Un fuggi-fuggi indimenticabile».
Il 12 gennaio, dopo settanta giorni di assenza, Di Bartolomei torna in campo. Gara d’andata di Coppa Italia col Monopoli senza reti ma con tanti applausi per il capitano che è ritornato. Anche in campionato, dopo dieci partite da emarginato. E quattro giorni dopo segnerà pure nella sfida al Cagliari. «Una bella partita, la Salernitana giocò bene e non meritava di perdere. L’atmosfera era un po’ cambiata, il ritorno di Agostino aveva ricompattato l’ambiente però la situazione di classifica s’era fatta critica», ricorda De Maio. Sarà l’ultima partita di Pasinato alla guida di una squadra che ha il motore di una Ferrari ma la potenza di una centoventisette: Soglia decide l’esonero, il ds Giusto Lodi chiama al capezzale un altro romano. Lamberto Leonardi, negli anni ‘70 ala di talento nel Varese dei miracoli del cavalier Giovanni Borghi. Non è però tempo di dribbling e di svolazzi nell’inverno del 1989, il settantesimo della storia granata. C’è da essere pratici, essenziali, altrimenti si affonda. Il primo discorso di Leonardi risuonerà così, parola più e parola meno, nello stanzone del Vestuti, e al primo giorno sulle tribune c’è così tanta gente che pare sia domenica di campionato: “Io sono il vostro allenatore, Di Bartolomei è il vostro capitano. Affidatevi, che ci salviamo”. Parole taumaturgiche o no, avranno comunque il potere di dare la scossa. Nella prima partita del nuovo corso – è la decima trasferta stagionale, si gioca a Trapani contro il Palermo – arriva addirittura il primo punto fuori casa. Il primo punto dopo nove sconfitte di fila lontano dal Vestuti. «Leonardi era scaltro, furbo. Non si faceva mai la doccia, diceva che l’avrebbe fatta in albergo. Povero Alfonso De Santo», e al pensiero De Maio ancora ride, e viene da sorridere pure a pensare come Ferrara e Incarbona si divertissero a tagliare con le forbici i pantaloni di chi li indossava per almeno due giorni di fila, figurarsi quelli del mister. Però. «Però era il tecnico più adatto in quel momento. Agostino da quell’investitura ritrovò smalto, anche il gruppo si rasserenò. Agostino era un calciatore di livello almeno cinque volte superiore agli altri però non lo dava mai vedere. Prodigo di consigli in campo ma senza eccessi, silenzioso nello spogliatoio». Contro il Foggia in Coppa Italia la settimana successiva segnerà una tripletta, l’unica della carriera granata. Una sua doppietta sculaccia il Frosinone dopo il pari in bianco col Giarre, Di Bartolomei che lascia gli undici metri a Romiti, un modo per dimostrare che un campione non si giudica mica da un calcio di rigore, rigore che tra l’altro poi Romiti fallirà. E mentre i granata paiono riprendersi aumentano i rimpianti. “Ah, se ci fosse stato sempre Agostino”, sospirano i tifosi.

Agostino diventa la guida tanto attesa, qualche volta fa capolino pure in città. Respira l’ambiente, respira lui. La squadra però procede a strappi, risprofonda dopo un umiliante ko a Rimini. Nel momento più buio emerge la luce del capitano: è lui il tramite con i tifosi, è lui soprattutto il collante tra la società e la squadra. Prima di Pesaro viene stabilito un premio-partita che equivarrebbe alla quasi salvezza. Zennaro e Di Battista regalano i due punti, Soglia così può cominciare a preparare il futuro. Il primo appuntamento in sede del neo dg, il cavaliere Franco Manni, sarà con Di Bartolomei: un colloquio riservato e profondo con il capitano. Di nuovo bandiera, di nuovo guida. “Il prossimo anno ripartiamo, caro Agostino. Ripartiamo da lei”. Nel colloquio il neo direttore generale comunicherà anche il nome del nuovo allenatore: Giancarlo Ansaloni, il tecnico del Brindisi sbarazzino e spumeggiante che per tre punti ha perso la serie B. L’ultima partita di una stagione balorda si chiude al Vestuti con un punto esclamativo: il romano e romanista Onorati para un rigore al romano ed ex romanista Di Bartolomei. “Oh però, allora anche lui sbaglia!”. Una sola volta, mica due. Così sarà, l’anno dopo.
(1 – continua)