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Calcio, zuffa italiana e la favola basca

Athletic Bilbao e Real Sociedad rinunciano alla finale di Coppa del Re: "No, senza i tifosi allo stadio". La bandiera Aduriz commuove mentre in Italia è subito baraonda sulle date di Coppa Italia
Aduriz e la favola basca

Si gioca. Torna a giocare la serie A, ritorna il calcio italiano, quello tenuto in piedi da conti farlocchi e proventi tv. Difatti si torna per quello, per evitare bancarotta: meglio chiamare le cose per quelle che sono, altro che fallimento. Si torna a giocare. L’ultima volta il 9 marzo. Il Sassuolo che travolge il Brescia e quel cartello di Ciccio Caputo mostrato in diretta tv all’Italia intera, “Andrà tutto bene, restate a casa” che pareva un messaggio sbrigativo, uno di quelli che si lascia sul parabrezza dell’auto parcheggiata di fretta e in doppia fila, del tipo “sto dal panettiere, scusate torno subito”. E invece sono passati ottanta giorni, tra quindici dovrebbe esserci il primo fischio d’inizio. Dovrebbe, perché nell’Italia del pallone tutto è condizionale oppure no, tutto indicativo. «E’ un messaggio di speranza per tutto il Paese», ha detto il ministro Spadafora che per due mesi ha litigato con i padroni del calcio. «E’ un messaggio di speranza per tutto il Paese»: è la stessa frase eppure l’ha pronunciata un altro, quasi in contemporanea. E’ di Gabriele Gravina, presidente della Figc. Cioè il massimo rappresentante del calcio italiano. Insieme, plasticamente, provano a coprire l’impossibile. Difatti, nello stesso giorno di slogan e titoli cubitali senza molta fantasia, “Via libera”, “Si gioca”, “Si riparte”, “Finalmente”, nello stesso giorno del trentacinquesimo anniversario della strage dell’Heysel, ci pensano i proprietari del pallone a riportare tutti alla realtà. Nulla è cambiato, altro che niente sarà come prima. Roba che verrebbe voglia di scrivere un po’ alla Ciccio Caputo, “Restatevene tutti a casa”. L’Inter l’ha proprio detto. “Noi non ci stiamo, noi a casa restiamo, a Napoli mandiamo la Primavera”. Anche Milan e Juventus sono contrarie: non vogliono ripartire dalla Coppa Italia, ripresa fissata per il 13 di giugno. Loro tre e il Napoli sarebbero le prime a dover scendere in campo. Chiamate a completare la manifestazione tricolore in quattro giorni. Sapete perché si è deciso di fissare prima la fase finale di Coppa Italia e poi la ripartenza in campionato, il 20 giugno? Per una questione televisiva. Cioè, il ministro dello Sport Spadafora ha detto, parola più e parola meno: “Che il calcio riparta, ma che riparta in chiaro, perché deve entrare nei televisori di tutti gli italiani, non solo quelli degli abbonati alle pay-tv”. Altrimenti nisba. Il tutto mentre i tifosi, quelli che di solito vanno allo stadio, si sono già espressi: niente pallone, questa roba è una farsa. Per inciso, le società di serie A rivendicano il diritto al pagamento della sesta rata dei diritti tv, e per questo la Lega Calcio porterà Sky in tribunale. Della serie, nulla è cambiato. Anzi, è tutto peggiorato, è tutto precipitato. Una farsa. E mentre l’editore della Gazzetta dello Sport Urbano Cairo che è pure proprietario del Torino dice, «Sì, ripartiamo, ho detto ai miei giocatori di indossare l’elmetto però se succede qualcosa niente playout eh», mentre la Roma cerca disperatamente di convincere il magnate Friedkin a tornare sui propri passi altrimenti si affonda, lo scontro nell’assemblea di Lega è sul calendario. “Gioca prima tu, perché prima io? Prima la Coppa, poi il campionato. No, prima i recuperi, poi il campionato. Io voglio giocare di pomeriggio, no le 16.30 non vanno bene, sarebbe meglio giocare alle ore 17”. Questioni di mezz’ora. Eppure nessuno che pensi a quegli stadi vuoti, a quelle emozioni finte, di plastica, al massimo cartonate. E in serie B? In serie B ci si allinea, come bravi cagnolini a cui toccano le briciole. E pazienza se a Castellamare di Stabia i proprietari litigano di brutto, pazienza se il Trapani ha i conti bancari bloccati per un pignoramento, pazienza se l’aspirante acquirente del Livorno – tale Majd Yousif – sia stato arrestato dalla polizia olandese per riciclaggio di denaro. Il vento calcistico in Italia non è cambiato: il coronavirus aveva paradossalmente ripulito l’aria, tornata più inquinata e pandemica rispetto a quel 9 marzo.

In Europa? Si litiga anche, ma almeno quando si decide non ci si azzanna per questioni banali, miserevoli. L’Inghilterra ha deciso di riaprire il 17 giugno. Lì lo slogan “Fooball is back” funziona, è reale. Si riparte con due recuperi, il 19 toccherà al primo turno saltato, anche la F. A. Cup ha le sue date: il semaforo verde è scattato dopo tre giorni di riunioni tra i boss della Premier. Tutti allineati. Senza maschere. Come i soliti imbecilli, certo quelli non mancano mai: Troy Deeney, capitano del Watford, uno di quelli che aveva paventato con maggior forza i pericoli del ritorno al calcio, ha denunciato come via Twitter qualcuno abbia augurato al figlio di cinque mesi di contrarre il covid 19. In Danimarca hanno già ripreso. A porte chiuse è finita in pareggio tra Aarhus-Randers. A porte chiuse ma con tifosi digitali: nell’impianto da ventimila posti la società di casa ha installato 8 megaschermi, ognuno dei quali ospitava 25 tifosi collegati via Zoom. Per entrare è bastato munirsi di un link gratuito, con tanto di accesso sonoro: i microfoni di pc, tablet e smartphone erano aperti. Esperimento che si farà pure in Giappone mentre in Serbia dall’1 giugno si giocherà in stadi aperti al pubblico. La Liga, in Spagna, attende l’ok del Ministero della Sanità ma l’ufficializzazione arriverà domenica dalla voce del presidente federale Javier Tebas. Niente è ancora ufficiale eppure calendario, date e incontri sono stati già tutti fissati, accettati dalle società. L’11 giugno si ripartirà dal derby di Siviglia alle ore 22, poi calcio in tv (a pagamento) tutti i giorni fino al 19 luglio. Anche in Spagna nessuna obiezione. Tranne una, la più bella. Sa di calcio, traspira passione per la maglia, rispetto dei tifosi.

Meglio perdere che giocare senza pubblico, preferiamo rinunciare se allo stadio non ci saranno i tifosi: è quello che Athletic Bilbao e Real Sociedad hanno detto ai vertici della Federazione spagnola. Avrebbero dovuto contendersi la Coppa del Re: la prima storica finale tra due squadre basche che in semifinale, prima della sospensione, avevano eliminato una il Barcellona e l’altra il Real Madrid. Hanno detto no, “preferiamo giocare solo quando i nostri tifosi potranno stare con noi”: una scelta tra l’altro coraggiosa anche dal punto di vista economico, visto che nessuna potrà partecipare alla prossima Europa League. Impensabile però che dopo 110 anni di storia la sfida per la Coppa del Re tra le due espressioni di una regione orgogliosa e sanguigna si disputasse a porte chiuse. “Questo non è calcio, noi non ci stiamo”. L’animo basco e il suo viscerale amore per il calcio popolare hanno vinto. La Real Federacion ha accettato, l’Uefa anche, fissando però solo un paletto: che la finale dell’edizione 2020 si giochi almeno una settimana prima di quella che verrà nel 2021. Certo, le polemiche non sono mancate. Bernd Shuster, tedesco diventato ormai spagnolo di matrimonio e adozione, ha sentenziato: «Meglio così, una finale tra baschi non mi sarebbe piaciuta. Loro fischiano all’inno spagnolo e la cosa non mi va». Parole silenziate subito da Ibai Gomez, centrocampista dell’Athletic: «Non esistono mascherine con un cerotto sulla bocca? Adesso contatteremo un esperto teedesco per decidere chi deve giocare una finale».

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Il 39enne Aritz Aduriz

Non si sa ancora quando si contenderanno la Coppa, però si sa già che in quella sfida non ci sarà Aritz Aduriz, centravanti 39enne e bandiera dell’Athletic Bilbao, 172 reti con la maglia degli zuri-gorriak tra l’altro nato e cresciuto a San Sebastian, la città della Real Sociedad. Sarebbe stato il suo derby, l’ultima passerella prima dell’addio.  E invece un problema all’anca l’ha costretto a dire basta: dovrà operarsi, ritiro inevitabile. Senza rimpianti. Il testamento che lascia andrebbe letto e riletto: «Il calcio sono le persone. Senza tifosi è un altro sport. Non sono sicuro che avrei voluto esserci in quella finale». Parole che sono come una prodezza, come l’ultima della sua carriera. L’ultimo gol nella Liga, il 16 agosto 2019: una sforbiciata tentata mille volte in carriera e riuscitagli al minuto 88, appena un minuto dopo essere entrato sul campo. Un gol da cineteca e il Barcellona steso (1-0) al San Mamés. E nel giorno del ritiro, El Pais ha aperto così a tutta pagina, come fosse un titolo di coda di un film struggente e realistico: “El futbol deja a Aduriz”. Il calcio lascia Aduriz.

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