George Best e il suo assist più bello

Il più estroso calciatore di sempre nacque a Belfast il 22 maggio del 1946. I successi, i vizi, le belle donne e l'ultimo appello: "Non morite come me"
George Best
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L’eroe nei film non muore mai, anche se sembra spacciato, senza una via d’uscita, accerchiato dai malvagi e dal male, dall’ineluttabile fine che invece cambia strada. All’eroe basta uno scatto, una pistola fumante, un cazzotto allo stomaco per fuggire via, per scappare, per continuare a essere un eroe. Le parole non gli servono. E invece. “Don’t die like me”. Non morite come me. Quattro parole, una frase, un’immagine che non si dimentica. E’ il 20 novembre del 2005, sull’edizione del News of the world c’è la foto di un uomo in un letto d’ospedale, il Cromwell Hospital di Londra. Capelli corti, grigi, il volto stravolto, le borse enormi che coprono gli occhi azzurri, la maschera d’ossigeno che nasconde l’immagine del campione, dell’idolo, del simbolo del calcio mondiale a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, del ragazzo che ebbe tra le duemila fidanzate – sì, tante furono raccontò un giorno –  addirittura sette Miss Mondo, che fu soprannominato “El Beatle”, che si prendeva gioco dell’avversario sul campo e della vita e un giorno persino di Johan Cruyff. Dribbling e stoccate di sinistro all’incrocio. E invece a 59 anni di sinistro è rimasto solo il destino. Solo la carta d’identità non è cambiata. Non ci sono più pantaloni a zampa di elefante, i capelli lunghi e i basettoni, l’aspetto di un genio ribelle. Il primo e il secondo accomunati soltanto dal nome: George. George Best.

Best e la mamma
George Best (Belfast, 22 maggio 1946 – Londra, 25 novembre 2005) qui con la mamma

Non morite come me c’è scritto a corredo della foto, una semplice stringata didascalia che l’accompagna. “Don’t die like me”: l’ultimo accorato appello dell’ex campione che si rivolge agli uomini e alle donne, ai ragazzi di un’epoca e pure a quelli contemporanei. Non riducetevi come me, non datevi all’alcol, non abbandonatevi. Il numero sette più imprendibile e imprevedibile di sempre stoppato, braccato, inseguito e infine vinto dalla malattia, dalla cirrosi epatica che l’avrebbe corroso. Lentamente ma inesorabilmente accompagnandone il triste declino. Cinque giorni prima dell’addio l’ultimo disperato appello. Non morite come me. Poi le lacrime, i funerali in diretta tv ospitati nel castello di Stormont, la sede del Parlamento dell’Irlanda del Nord. A rendergli onore e rimpianto le lacrime di ventimila persone, cattolici e protestanti insieme in un Paese che in nome della guerra di religione aveva imbracciato fucili ed esploso bombe. Trentamila morti dal ’60 al ’98, l’odio e la divisione tra unionisti e nazionalisti, i muri a separare le case dei cattolici da quelle dei protestanti, Belfast e l’Ira, un film struggente “Nel nome del padre” e una canzone per sempre, “Sunday Bloody Sunday”. Un anno dopo gli avrebbero dedicato l’aeroporto internazionale, avrebbero coniato nel giorno del primo anniversario un milione di banconote da cinque sterline con la sua effigie. Ancora adesso per 70 sterline si può dormire nella casa dove nacque – era il 22 maggio del 1946 – da padre protestante e operaio in un cantiere navale e da una madre operaia in una fabbrica di tabacco. Settanta sterline per una notte al Bed and breakfast George Best, accanto ai cimeli e alle coppe, alle foto di gol straordinari e di donne mozzafiato.  E sui murales della città il suo volto ovunque. George Best, il simbolo e vanto di un’intera nazione e l’immagine del campione sregolato che affascinò il mondo. Il nastro da avvolgere sarebbe infinito ma qui ora non c’è tempo. Si corre appresso a un pallone e a una vita, cosa vuoi che non sia stato già scritto oppure già detto?

George Best
George Best in azione

A 15 anni “The Belfast Boy” è già un fenomeno, abita a due passi dall’Ulster rugby stadium ma della palla ovale non sa che farsene. A un pallone di cuoio invece già dal del tu: la palla incollata al piede, dribbling stretti e strafottenti, un tiro secco, potente. Siluri all’angolino oppure all’incrocio: quello poi dipende dal momento, dall’estro, dall’avversario. Ma sempre rasoiate rigorosamente di piede sinistro. Bob Bishop, leggendario osservatore del Manchester United lo vede una sola volta. Gli basta. Telefona al boss dei “Diavoli Rossi”, Matt Busby: “Sono a Belfast, credo di averti trovato un genio”. E Matt Busby ai tecnici che lo presero in consegna. “Non modificategli il suo stile, non insegnategli niente. Lui è speciale”. Speciale. Un genio ribelle e assoluto. Lo sarà per tutta la carriera, purtroppo per lui pure anche dopo. Nel ’66 Pelè lo definisce – George Best ha appena 20 anni – il “più forte giocatore del Mondo”.

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Pasadena, 1978: Best insieme a Pelè

Nella primavera del ’66, di ritorno dalla trasferta in Portogallo – il Manchester United ha sfidato e battuto in semifinale di Coppa Campioni il Benfica della leggenda Eusebio grazie anche ai due gol di quel diciannovenne numero sette imprendibile e beffardo – scende dalle scalette dell’aereo con un sombrero sul capo e una sigaretta tra le labbra. Una foto in bianco e nero che farà la storia: da quel giorno George the Best diventa per tutti il quinto Beatles. Per sempre “El Beatle”. Ha il numero sette dietro le spalle, ha i capelli lunghi e quando finisce di giocare se ne va in discoteca a farsi acchiappare dalle donne. Giusto per dire il suo capitano, sir Bobby Charlton, è quasi stempiato e gioca con il riportino che sventola al primo soffio, il massimo della vita è una pinta di birra al pub coi compagni di squadra. Best è invece il soffio di gioventù ribelle, è il ’68 che dilaga nelle piazze e nelle università di tutta Europa. A ventidue anni vince la sua prima Coppa dei Campioni, seminando quei poveri diavoli del Benfica di Eusebio che provano a stargli dietro sul prato di Wembley. Il giorno del riscatto per i Red Devils dieci anni dopo il disastro aereo di Monaco di Baviera quando nulla restò di quella squadra di campioni. La Coppa Campioni e il Pallone d’Oro: a ventidue anni George Best è già in cima. Ma sempre sull’orlo, sempre sul filo, sempre in bilico tra vizi e virtù. Sulle copertine dei giornali per le vittorie sul prato e le scappatelle fuori, tra gioco d’azzardo e discoteche, divorzi e belle donne, alcol e arresti per guida in stato d’ubriachezza.

Di dribbling ubriacanti ne avrebbe fatti a milioni. Uno però più bello degli altri. Un dribbling che avrebbe poi raccontato così lui stesso. “Era il 1976, si giocava Irlanda del Nord-Olanda. Giocavo contro Johan Cruyff, uno dei più forti di tutti i tempi. Al 5’ prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo: punto Cruyff. Gli arrivo davanti, gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: ‘Tu sei il più forte di tutti ma solo perchè io non ho tempo”.

Best e una bionda
George Best con una delle sue tante “fiamme”

Un gesto irreverente? No, semplicemente il gesto di un giocatore disincantato, semplice e leggero, uno di quelli che non si prendeva troppo sul serio. E che la vita – da ragazzo – non la prendeva sul serio. “Ho dato un taglio a donne e alcol, sono stati i peggiori venti minuti della mia vita” disse un giorno del ’69 dopo un arresto perché pescato ubriaco al volante. Poi avrebbe continuato a correre, verso la fine, verso il precipizio. Il re del tunnel imprigionato in un tunnel senza luce. Però sempre col sorriso onesto. “Ho speso la maggior parte dei soldi in donne, alcol e macchine veloci, il resto l’ho sperperato” disse – e ora verrebbe da dire, caro Denis Rodman tu e quella frase “volevo solo giocare, fare festa e scopare” non avete inventato un bel niente –  a consuntivo di una vita che dopo i trionfi sul prato (2 Coppe dei Campioni, due titoli nazionali, una FA Cup, due Charity Shield, due titoli di capocannoniere e un pallone D’Oro e poi il lento declino, prima negli Usa e poi persino ad Hong Kong) sarebbe diventata una veloce discesa verso l’inferno. Fino al trapianto di fegato, fino alla morte a 59 anni. “Appena possibile date la palla a George, lui saprà cosa fare”, diceva l’allenatore del Manchester United ai suoi prima di una partita. E prima del triplice fischio George trovò la forza per smazzare l’ultimo, meraviglioso, assist. Lui disteso, in un letto d’ospedale. “Don’t die like me”. Non morite come me. Per sempre George. The Best.

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