Airoldi, 2000 km a piedi e i Giochi negati

Nel 1896 l'incredibile viaggio del maratoneta che raggiunse Atene da Milano tra mille ostacoli. Il no del Cio per 15 lire ricevute in premio
Tokyo 2020/2021
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Correre, correre. Semplicemente correre. C’è chi corre per fuggire, chi per acciuffare, chi per non pensare, chi per superare se stesso. Chi perché vuole entrare nella storia. Come Carlo Airoldi, ad esempio: ha 26 anni, è tozzo e tarchiato, è figlio di contadini del varesotto che ha salutato cercando fortuna a Milano. Ha i baffetti all’insù e indossa sempre calzoni corti, ha mani forti che sbriciolano pietre, ha gambe nervose che macinano chilometri. E’ una specie di fenomeno da baraccone che per conquistare la notorietà l’anno prima ha sfidato il leggendario Buffalo Bill in una corsa a handicap. Lui a piedi e l’americano ormai famoso impresario circense sopra un carro tirato da un cavallo per 500 chilometri, sfida però saltata dopo le pretese dello yankee di avere due cavalli e non uno. Lavora quattordici ore al giorno in una rinomata fabbrica di cioccolato ma cuore, testa e gambe lo spingono semplicemente a correre: il suo sogno è la gloria, il suo doping è una scodella con dodici uova sbattute dentro una montagna di zucchero.

Corre perché vuole essere primo. Il primo vincitore della prima edizione delle Olimpiadi moderne, quelle del 1896 ad Atene. Da Milano sono duemila chilometri, sono strade di terra e di polvere, strade buie, sgangherate, popolate da briganti e cani randagi. Strade che attraversano l’Austria-Ungheria, la Dalmazia, la Croazia, l’Erzegovina e l’Albania prima di aprirsi finalmente allo splendore e ai fasti della civiltà ellenica.

Carlo Airoldi
Carlo Airoldi, il maratoneta milanese al quale furono negati i Giochi di Atene del 1896. Era nato nel 1869, morì nel 1929

Da Milano Carlo Ayroldi parte il 28 febbraio 1896. A piedi: non ha scarpe di ricambio, indossa la maglia della Pro Italia. In testa ha un berretto, al collo cinge un borsello: dentro ci sono un altro paio di calzini, due fazzoletti, una maglia di lana a maniche lunghe, il passaporto. Non ha soldi per finanziarsi un viaggio in carrozza, nemmeno quelli per strappare un passaggio-ponte sopra una nave. Perchè lo sport a quei tempi è solo per i nobili e ricchi. Carlo è solo un dilettante, è solo un sognatore, è solo un marciatore. Con il periodico “La Bicicletta” ha stipulato un accordo. In cambio dei resoconti del suo viaggio e dei Giochi, il direttore della rivista gli ha offerto di coprire le spese, solo quelle “vive” però: solo vitto e alloggio. Non una lira in più. Prima di salutare amici e curiosi, prima di partire da Porta Venezia, ha stilato una tabella di marcia: dovrà tenere una media giornaliera di 70 chilometri – molti camminando, qualcuno correndo – per arrivare in tempo ad Atene, lì dove il 6 aprile il barone De Coubertin darà inizio alla prima edizione delle Olimpiadi moderne.

La maratona è in programma il 10 di aprile, la partenza è fissata dal ponte di Maratona, l’arrivo invece nello stadio Panathinaiko: fanno quaranta chilometri esatti (passeranno ai fatidici 42 km più 195 metri dalle Olimpiadi del 1924), quaranta lunghi chilometri come quelli che nel 490 avanti Cristo percorse tutti di un fiato l’emerodromo Filippide che doveva annunciare agli ateniesi la vittoria di Milziade sui persiani. Un giorno entrato nella storia, come sogna di entrare nella storia Carlo Airoldi al tramonto del diciannovesimo secolo dopo Cristo, agli albori di una competizione che negli anni regalerà emozioni, record e milioni di dollari, mischiando però dilettantismo a professionismo e in fine facendo cadere quella foglia di fico che per decenni avrebbe coperto clamorose disparità e menzogne. Ma qui siamo nel 1896, qui siamo proprio agli albori. Siamo al sogno puro, ideale, vergine; sono le prime Olimpiadi e chi taglierà per primo quel traguardo sarà il primo uomo a ripetere le leggendarie gesta del soldato greco. Oltre ad una corona di alloro nulla da dichiarare, niente da portarsi a casa. Carlo comincia a camminare, Atene è lontana ma niente è lontano quando il cuore e la volontà sorreggono le gambe. Quando arriva a Trieste sette giorni dopo, il console italiano gli regala un coltello: lo prenda, le servirà a difendersi dai cani radagi, “e se vede briganti scappi, scappi prima che sia troppo tardi”, si raccomanda. Carlo Airoldi sorride sotto quei baffetti affilati, e tra sé pensa: sono abituato a correre e camminare per chilometri senza mangiare e senza bere, non ho paura di cadere e nemmeno di morire, faccio sollevamento pesi e me la cavo nella lotta greco-romana, “ma cosa vuoi che siano per me due cani e qualche brigante?”.

La corsa ce l’ha nel sangue, da sempre nelle sue vene pompa e si ingrossa il pensiero dell’impossibile, della sfida oltre ogni limite; la testa e i muscoli, le braccia e le gambe di quel corpo minuto e tozzo, senza troppa grazia ma armato di ferrea volontà, sono protese oltre il limite della resistenza, proiettate al viaggio verso la verità. Quella che ogni maratoneta allora e adesso insegue e completa, quando l’ultimo metro di quei 42 chilometri e 195 metri è alle spalle: sì, Carlo è proprio un maratoneta anche se non ha ancora mai disputato una maratona. Quelle fino ad allora si chiamano gare di podismo e gran fondo. Soltanto perché prima di allora tecnicamente non ce n’era mai stata una, di maratona.

Sfide e percorsi particolari, senza una distanza precisa. Quelle sì, ne ha alle spalle, nelle gambe. Nelle corde. Una sorta di ultra-maratona moderna. Primo alla Lecco-Milano, invece alla Torino-Nizza – una gara da completare in due giorni, tappa intermedia a Cuneo – costretto al ritiro dopo aver perso l’orientamento. Non la prende bene, si sente sciocco e umiliato però non si abbatte. Il capolavoro che l’ha consegnato alle cronache nazionali e internazionali lo compie qualche mese prima di quel 28 febbraio 1896, il giorno dell’inizio di quel viaggio verso Olimpia, verso Atene, verso il sogno: è la Torino-Marsiglia-Barcellona, 1050 chilometri da percorrere in una settimana. Per arrivare a Torino ha racimolato soldi vincendo gare a braccio di ferro senza poter mangiare spinaci, solo spuntini frugali. Sono dodici tappe e sono trenta gli iscritti, uniti da un patto d’onore e di sangue che vale più di qualsiasi regolamento: si corre e ci si riposa tutti insieme fino in Costa Brava, da lì poi tana libera tutti. Alla fine di quel viaggio di eliminazione e sopravvivenza, altro che “Pechino Express”, restano soltanto in due: il milanese Carlo Airoldi e il francese Louis Ortègue. A pochi chilometri dal traguardo il rivale d’Oltralpe però si accascia, l’italiano se ne accorge. Torna indietro, se lo carica sulle spalle. Taglia il traguardo, urlando pieno di forza e di orgoglio: “Il vincitore sono io, quello sulle mie spalle è il secondo”. Il municipio di Barcellona, colpito da tale gesto, decide allora di riconoscergli un premio: 500 pesetas – al cambio di allora sono 15 preziose lire – che Airoldi per giunta dividerà con il francese. Spiccioli che gli serviranno per tornarsene a Milano in treno, ed è proprio nel viaggio di ritorno che apprende delle imminenti, nuove Olimpiadi. Le prime dell’era moderna. E’ lì che nasce il suo desiderio, è lì che la mente viaggia, è lì che si placa al sapore dell’avventurosa avventura: Atene non è Itaca ma è come se lo fosse.

“Il valoroso Carlo Airoldi è in buona forma, presenta solo una ferita lacero-contusa alla mano destra, per la sua sicurezza gli ho consigliato di prendere un piroscafo che lo porti fino a Patrasso, le strade in Albania non esistono e troppi sarebbero i pericoli”: così c’è scritto nel telegramma che Monti, il regio console italiano a Ragusa – l’attuale Dubrovnik – trasmette alla rivista “La Bicicletta” che ne dà conto nell’edizione del 20 marzo 1896. E così Carlo s’imbarca su una nave austriaca che lo lascia a Patrasso. Degli effettivi duemila chilometri ne ha “risparmiati” poco più di seicento. Da Patrasso riprende poi la marcia verso Atene che raggiunge seguendo i binari della ferrovia perché un’altra strada no, proprio non esiste. Ad Atene ci arriva stanco, stremato, squattrinato. E’ il 31 marzo, è in perfetta media, è in tempo per riprendersi dalla fatica, per iscriversi alla maratona olimpica. Una questione burocratica e formale da affrontare, una marcia ben più logorante di quei duemila chilometri a piedi. Non c’è un delegato nazionale, non ci sono tempi di qualifica né classifiche stagionali: gli atleti fanno tutti da sé. Duemila chilometri sono ormai alle spalle ma il traguardo è ancora lontano; dopo i 1338 a piedi suddivisi in 26 tappe, diverse notti trascorse per strada o dentro fienili, non è ancora finita. I pochi soldi assicuratigli dalla rivista in cambio dei resoconti telegrafici sono per giunta finiti. Il più sembra fatto, così si ripete, fiducioso: mancano dieci giorni alla maratona, la prima maratona dei tempi moderni, tutto il mondo pronto ad applaudire il nuovo Filippide, il soldato che prima di consegnare il messaggio e stramazzare al suolo ebbe il tempo di dire appena due parole, “rallegratevi, vittoria”.

“Ho vinto le Olimpiadi”: tutta la sua vita Carlo Airoldi se la immagina in un giorno soltanto. Il traguardo da tagliare per primo, la medaglia d’argento al collo perché in quell’edizione non ne sono state coniate in oro. E poi la pergamena e la corona d’ulivo riservata al vincitore, e poi ancora il ritorno in patria, in Italia, a Milano. Il ritorno da trionfatore. Gli iscritti sono 25, quasi tutti greci. Sono i favoriti, conoscono bene il percorso. L’italiano è l’unico che potrebbe rovinare il sogno, la sua fama di formidabile podista e fondista l’ha preceduto ad Atene. “Lei è il celebre italiano che ha vinto a Barcellona, lei è quello che è venuto sin qui a piedi?”, gli chiede il principe Costantino, il figlio di re Giorgio, il presidente del comitato olimpico che ha voluto riceverlo nel giorno dell’iscrizione. “Sì, sono io”, dice Airoldi, emozionato, eccitato, insomma in brodo di giuggiole. E’ al settimo cielo e invece il baratro gli si sta aprendo tra quei piedi, quei piedi consumati dalla fatica e dalla polvere balcanica, duemila chilometri a piedi per materializzare un sogno. “Mi dica, ha vinto premi in denaro? – gli chiede il principe – lo giuri davanti al tripode”. Airoldi è uomo d’altri tempi, non può negarlo. Nicchia, prova a spiegare, infine ammette. “Sì maestà, ma è stata soltanto una regalia, proprio come quella che avete previsto per il vincitore della maratona e poi in Italia lo sport pedestre non è sviluppato”: così prova a tenere in pugno il proprio sogno, quel sogno che invece sta dolorosamente svanendo.

Ventotto giorni a piedi, duemila chilometri su strade sterrate e pericolose: no, non è mica possibile che finisca così? E invece niente: “Ci dispiace, ma le Olimpiadi sono per gli amatori, non per i professionisti, lei ha ricevuto denaro in cambio di gare e non può partecipare”, dice inflessibile il principe Costantino. Carlo Airoldi è disperato, senza parole. Allora chiede aiuto all’ambasciatore italiano ad Atene che prova a convincere gli organizzatori mentre comitati sportivi e riviste italiane si mobilitano. Nulla, niente da fare. Airoldi non potrà correre. Ci prova ancora, l’appello è da lacrime, farebbe sciogliere anche le pietre. “Fatemi gareggiare vi prego, anche senza numero, anche senza tempo, anche senza classifica. Fatemi correre vi prego, sono venuto qui soltanto per questo. Fatemi questo onore, io al sogno di Olimpia ci credo”. Niente. Airoldi è disperato, deluso, arrabbiato. Grida al complotto, alla rivista Bicicletta telegrafa parole di rabbia, di denuncia: “E’ la torta greca, la vittoria è destinata ad un greco”. Ad Atene tutti i partecipanti sono arrivati in nave o in treno, soltanto lui l’ha raggiunta a piedi. Ad Atene tutti i partecipanti ci sono arrivati grazie a generosi finanziamenti, ad esempio gli inglesi sono giunti in Grecia grazie al sostegno delle Università. Qual è allora la differenza tra lui e tutti gli altri? Nessuna, anzi. Lui quei soldi a Barcellona li ha presi perché s’è portato sulle spalle il secondo, quello stanco e stremato, quello strapazzato al suolo, quello che il traguardo l’ha tagliato grazie al gesto di quell’italiano dal cuore d’oro. E invece niente. Quel gesto così nobile è diventato invece il macigno. Quello che affosserà il suo sogno, la sua formidabile avventurosa avventura.

Il 10 aprile del 1896, alle ore 16, alla partenza da Maratona, lui non c’è. Cerca di correrla lo stesso come non iscritto per dimostrare di essere il migliore ma viene fermato da un giudice, rischia persino l’arresto. Lovati, corrispondente de La Bicicletta, telegrafa così da Atene la sera del 10 aprile. «La corsa Maratona-Atene, che costituiva il classico avvenimento dei giuochi olimpici, ebbe luogo oggi. Vi parteciparono dieci concorrenti fra i quali però nessun italiano, avendo il Comitato mantenuto l’esclusione del nostro Carlo Airoldi». Che assiste all’arrivo dentro lo stadio Panatinaiko, in settantamila applaudono e fanno festa. Dei 25 iscritti ne sono partiti 17, il traguardo lo tagliano in dieci. Il primo è Spyridon Louis, 23enne pastore greco che nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino, voluto come testimonial, si rifiuterà di stringere la mano a Hitler: chiude in trionfo la prima maratona delle Olimpiadi moderne in due ore e 58 minuti. Lì, allo stadio Panathinaiko, lo stesso dove – Olimpiadi del 2004 – arriverà primo, solitario e in trionfo un altro italiano, il reggiano Stefano Baldini che quando sul traguardo allargherà le braccia come per abbracciare il mondo pare abbracciare anche lui, Carlo Airoldi, l’italiano che 108 anni prima ad Atene c’era arrivato a piedi, da Milano. Duemila chilometri bruciati per 15 lire, la maratona olimpica vissuta da semplice spettatore. Il suo viaggio terminerà così, accompagnate da queste righe telegrafate alla rivista “La Bicicletta”, prima di ripartire per Milano, stavolta in treno perché c’è chi ha preso a compassione quel ragazzo.  

«Fino a questa mattina ebbi sempre speranza di correre, ma purtroppo non mi venne nessun avviso e dovetti assistere alla gara di Maratona, per la quale è un mese che mi affaticavo nella certezza di prendervi parte. Fino all’arrivo mi mantenni tranquillo e calmo, ma quando arrivò il primo e si sentì il colpo di cannone, allorché la bandiera greca s’innalzò, non mi sentii più padrone di me. Vedere arrivare il primo in mezzo a tanta festa ed io non poter correre per delle ragioni assurde, fu il più grande dolore della mia vita. Per un giovane che nulla possiede come me, all’infuori del coraggio e che ha quasi la certezza di arrivare primo, è un bel dispiacere. Dopo tutto però mi consolo perché a piedi vidi l’Austria, l’Ungheria, la Croazia, l’Erzegovina, la Dalmazia e la Grecia, la bella Grecia che lasciò in me un ricordo indelebile».

Consolarsi, nonostante l’ingiustizia subita. Conservare un ricordo indelebile, comunque. Significa rialzarsi, ripartire, riprendere, ricominciare. Parole che suonano come testamento per tutti gli uomini e le donne di questo mondo, non solo per chi percorre quei 42,195 chilometri per sport o divertimento, ma per tutti quelli che sono impegnati nella maratona della vita. Conta camminare, correre, sbuffare, acciuffare, sorpassare. Conta il viaggio, mica la meta. Perché la vita è come una maratona, è una corsa spirituale. E’ martirio atletico, è sacrificio fisico, è l’introduzione al mistero, è l’esistenza ai limiti della resistenza, è la cosciente costante ricerca dell’incoscienza. E’ un rito, è un’esperienza, è una lotta, è un viaggio verso la verità. Già, la verità è che Carlo Airoldi è stato e resterà per sempre un campione. Gli negarono i Giochi, eppure visse fino in fondo il suo sogno. Indelebile, pure quello.

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