Mondelli, l’angelo del remo azzurro a Tokyo

Olimpiadi: Filippo avrebbe dovuto gareggiare nel quattro di coppia. È morto tre mesi fa per un osteosarcoma. I compagni puntano all'oro da dedicargli

Ci sono, finalmente. Ci siamo, era ora. È ora. Lo starter sta per dare il via e noi siamo qui, siamo pronti. Pronti a dare tutto. Ci guardiamo un’ultima volta negli occhi, ce lo stiamo ripetendo per l’ultima volta prima che tutto finalmente abbia inizio. Prima che i pensieri e le forze si uniscano, così come noi dovremo unire quelle otto braccia che vogano e quelle otto gambe che spingono, quattro teste in sincrono come fossero una soltanto: siamo i Cavalieri delle Acque, come «i quattro meravigliosi cavalieri delle acque della magnifica Italia, non ce n’è per nessuno, non ce n’è per nessuno, la barca azzurra è bella, la barca azzurra è bellissima, vinciamo, vinciamo, vinciamoooooo», e pare ancora di sentirla quella voce spezzata, stroncata, sfrenata. Pare ancora di vederla sibiliare, quella gara leggendaria. L’ultimo oro olimpico azzurro nel canottaggio. Ventuno anni fa.  

Quell’urlo sfinito, sincopato, strappato, quell’urlo di Giampiero Galeazzi che spingeva Agostino Abbagnale, Sartori, Galtarossa e Raineri verso l’oro olimpico nelle acque di Sidney, bello e emozionante come il primo conquistato a Seoul, sempre dall’altra parte del Mondo ma dodici anni prima. Era l’anno Duemila invece quel magnifico giorno, di anni ne avevo appena sei. Otto anni dopo poi sarebbe arrivato l’argento a Pechino e poi niente, solo una lunga attesa. Dodici, anzi tredici anni da riempire, un’altra impresa da affidare a qualche cavaliere coraggioso, qualcuno che sapesse domare e dominare le acque. A pensarci mi sembra ancora tutto un sogno. E invece.

E invece adesso siamo qui. L’attesa è finita, siamo qui con un anno di ritardo perché la pandemia ha mandato all’aria i sogni e le speranze di noi canottieri che aspettiamo un quadriennio per poter regatare verso l’oro e la gloria, quattro anni per un momento che per chi ci osserva dura un istante mentre per noi è infinito. Duemila metri a pelo d’acqua, veloci, sempre più veloci mentre l’acido lattico ti stronca, ti schianta, ti acceca.

Siamo una squadra, siamo l’Italia del quattro di coppia. La formazione è quella, è rodata, è affiatata. Siamo diventati campioni del Mondo nel 2018, il pass olimpico l’abbiamo conquistato a Linz un anno dopo, e quel bronzo, ragazzi dovevate vederlo, davvero luccicava più dell’oro. Sono quattro anni che aspettiamo questo momento, è dal 2017 che insieme, sempre insieme – ormai siamo amici, siamo fratelli, siamo una famiglia – ci alleniamo sette ore al giorno. Barca, palestra, corsa, bici. E poi la vita di tutti giorni, la vita che i ragazzi della mia età fanno tutti i giorni.

Il giorno più bello è arrivato. Giacomo sta davanti, lui è il prodiere. Al secondo carrello c’è Luca, poi Andrea e infine c’è Simone. E poi ci sono io, Filippo. Tutti però mi chiamano Pippo. Sono nato a Como il 18 giugno del 1994, era il giorno in cui cominciavano i Mondiali di calcio negli Stati Uniti ma io ho scelto un altro viaggio, un altro sport, un’altra vita. Avevo cominciato con lo sci, poi un giorno mio nonno a Cernobbio, lì sulle sponde del lago di Como, mi spinse in acqua. Avevo dodici anni, da lì non ne sono mai uscito. Anche se adesso galleggio tra le nuvole, anche se dal 29 aprile di quest’anno sono volato via perché un maledetto avversario ha vinto la sua sporca e maledetta battaglia. Però io non ho ancora terminato la mia guerra. La mia corsa. Io non ho abbandonato la mia barca. La mia squadra. Perché io sono qui, su quest’imbarcazione che sta per partire, che sfreccerà non appena le prue saranno allineate alla partenza in questa baia di Tokyo, nelle acque di quest’isola artificiale che si chiama Central Breakwater, in quest’angolo di paradiso costruito su misura per i trentaduesimi giochi olimpici dell’era moderna.

Ecco, ci siamo. Me la vedo già la gara, mi scorre davanti agli occhi. Sento l’acqua che si apre, che scema tutto quello che le sta intorno. Ci siamo solo noi. È il mio momento. Mi sveglio. Con gli occhi aperti cerco i miei piedi fortunati, mi appello alle gambe perché spingano forte, sempre più forte fino a superarsi. Sento il mio respiro, ascolto il mio battito: il respiro e il battito sono come quelli di Giacomo, Andrea, Luca e Simone, loro hanno aperto le ali e io adesso, qui e adesso, mi sento ancora più leggero. Leggero, leggero più di una piuma. Io trasporto loro e loro trasportano me.

Volo su quest’acqua, volo così libero e felice che non penso più al buio che mi ha portato via, che appena tre mesi fa m’ha seppellito portandosi via le mie speranze, non torno più indietro a quell’8 gennaio 2020 quando un medico della federazione mi aveva spiegato – a spiegarlo non ci riusciva nemmeno lui – che per arrivare a Tokyo avrei prima dovuto battere, sconfiggere, eliminare un altro avversario, uno dal nome brutto e bastardo. Un osteosarcoma. Ecco perché avevo sempre male alla gamba sinistra, ecco perché i tendini soffrivano, ecco perché il mio ginocchio non andava. No, non era un infortunio muscolare. Non era la fatica, non era lo sforzo. Era solo un maledetto bastardo. Era un cancro. Un cancro alle ossa. Di quelli rari. Quello ha preso proprio me. Che bastardo. Proprio me. Eppure io l’ho accettato, l’ho sfidato. Io non ho avuto paura. Ho sorriso, persino.

«Sono uno dei pochi atleti contenti che le Olimpiadi siano state rinviate di un anno»: è così che avevo detto, convinto e certo che ce l’avrei fatta, tre mesi dopo a chi mi intervistava convinto di trovare un cavaliere delle acque che avesse già deposto il suo remo. Erano passati solo tre mesi, tre mesi da quella biopsia, tre cicli di chemio completati e poi l’operazione a Bologna. E poi altri cicli di chemio, chemio, stampelle, saltelli e battaglia fin quando non tornerò su quella barca, sulla mia imbarcazione. Me lo sono ripetuto ogni santo giorno. Il quattro di coppia. I Cavalieri delle Acque. A Tokyo. Alle Olimpiadi. Non mi sembra vero, pare tutto un sogno. Eppure sono sveglio, eppure sto mulinando le braccia, eppure sto spingendo forte le gambe. È un ritmo forsennato. Eppure è dolce. È musica, è armonia. È vita.

Ci sono, finalmente. Adesso sono una piuma, forse è per questo che m’accorgo del respiro degli avversari: i croati, gli australiani, i lituani, gli ucraini e i polacchi. Ci sono tutti. Sono forti però adesso li vedo vicini, sempre più vicini mentre i miei compagni sono allo stremo delle forze, accecati dalla fatica eppure dentro hanno il fuoco. Remano, regatano, riaccelerano. Non possono voltarsi, non possono distrarsi. Ci penso io. Riesco a capire dove sono gli avversari. Eccoli, sono ancora davanti ma non troppo. Allora vogo anch’io, anche io riaccendo la luce. Non pensare, non voltarti indietro mi dico. È fatta, no, non ancora mi ripeto. Allora li spalanco questi occhi, finalmente guardo dritto. Non ho più paura, non posso averne. Non devo. Guardo davanti a me, mentre il buio sta tornando a riprendermi. Lo sento avvicinarsi, di soppiatto come un ladro che si porta via tutto. Un’altra volta no, stavolta non ci riuscirà mi ripeto.

Devo fare in fretta, dobbiamo fare in fretta: così urlo mentre la scia sull’acqua si tinge d’azzurro, mentre i quattro cavalieri azzurri sfrecciano sulle acque giapponesi. Manca poco, non si può sbagliare, non esiste più un margine d’errore. Un millimetro è la distanza tra la gioia e il dolore. Un millesimo è il tempo tra la vita e la morte. Eppure adesso è tutto fermo, come bloccato, come sospeso. È un tempo infinito. Io però non posso più aspettare. È il mio momento. Devo afferrarlo. Devo.

I mei occhi adesso stanno fissando l’unico finale che conta, sono io a tenere il ritmo della corsa, a dettarlo ai miei coraggiosi quattro compagni. Li sento urlare, li sento scoppiare, li sento piangere. Li sento mentre urlano il mio nome. Forse ci siamo, mi dico. Mancano quattro, e poi tre, e poi due metri. Sento quel grido che ho sentito cento, mille volte. Tutte le volte che il nostro quattro di coppia ci ha messo cuore, coraggio, cimento: “Buttare tutto avanti”. Oltre. È il traguardo. Eccolo, lo vedo, lo tocco, lo taglio. Ci sono. Ci siamo. È fatta. È stato bellissimo. È stato come volare. Adesso sì, adesso sì che posso andarmene. Libero e leggero. Nel vento.

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Filippo Mondelli

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Si rinasce ogni volta che si riprende in mano la propria vita. Così Filippo Mondelli l’8 aprile 2020 annunciava la sua nuova vita. Quella che gli era capitata addosso. Fuori dall’acqua, dentro una corsia d’ospedale. «È il primo giorno che mi sono alzato. Sto bene. Sono carico. Sarà lunga». È così che pubblicava la fotografia del suo stato, del suo nuovo tempo. Lancette impazzite che in pochi mesi l’avrebbero costretto a un altro tempo. A un’altra corsa. A un’altra gara. Il 13 agosto 2019 felice e festante, era in piedi a mostrare i muscoli sull’imbarcazione del quattro di coppia: nelle acque del lago di Linz, insieme a Giacomo Gentili, Luca Rambaldi e Andrea Panizza aveva conquistato il bronzo ai Mondiali (l’anno prima oro), terzo posto che spalancava al leggendario remo azzurro le Olimpiadi, Tokyo. A novembre i primi fastidi alla gamba sinistra: il dolore, il gonfiore, gli esami. Niente.

Due mesi dopo, il 7 gennaio nel centro federale di Sabaudia, al primo ritiro dei canottieri olimpici: il dolore, il gonfiore, quel ginocchio sinistro che proprio non andava. Altri esami: la tac, la biopsia. La diagnosi: un osteosarcoma, 15 centimetri da asportare dal femore sinistro, un cancro raro e maligno. Senza perdere tempo, senza darsi per vinto, subito si sarebbe tuffato dentro la sfida. Cinque giorni dopo il ricovero al Rizzoli di Bologna, tre cicli di chemio e poi l’operazione, una placca di 24 centimetri in titanio, il primo pilastro di una nuova corsa. «Sono tra i pochi felici del rinvio delle Olimpiadi, e se non ce la farò per l’anno prossimo sarò a quelle di Parigi». Sempre forte, sempre di corsa. La chemio e la riabilitazione, affrontate col sorriso. «C’è solo un modo per vincere questo male: non avere paura». Gli amici, i familiari, i compagni, tutti intorno a lui, lui a far loro coraggio. Una vita diversa, dopo anni di allenamento e sudore. Nel negozio dei genitori, al panificio della zia, le passeggiate al lago. L’inseparabile acqua per specchiarsi, ritrovarsi, rinascere. Giorni lunghi, affilati. Giorni di battaglia, senza tregua. Giorni però affogati, affondati all’alba della nuova primavera.

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Fillippo Mondelli

Un anno, tre mesi e sedici giorni da quel maledetto 8 gennaio: il 29 aprile di quest’anno Filippo Mondelli – zio Filip per gli amici più stretti, Pippo per i compagni di nazionale – se ne andava per sempre. Due settimane prima era stato eletto – il più votato tra gli atleti – nel Consiglio Nazionale del Coni. Appena una settimana prima i suoi compagni del 4 di coppia gli avevano dedicato l’oro continentale. Li aveva salutati così, al telefono. «Sarò sempre con voi, con voi a Tokyo: insieme vinceremo l’oro». Giacomo, Luca e Andrea l’avrebbero portato a spalla nell’ultimo saluto a Cernobbio, la bara davanti al lago come saluto struggente. Filippo però sempre presente e lucente anche quel giorno, come nelle parole di Guido, Elisa e Monica, i genitori e la sorella. «…Filippo si è sempre sudato tutto, forse anche questo momento. Ha smesso di soffrire, ma non possiamo dire che ora sia felice lassù. Lui era felice qui, aveva ancora tante cose da portare a termine, tante da sudare ancora, ma altrettante di cui essere soddisfatto. Perché lui è sempre stato soddisfatto dei suoi traguardi, che fossero le Olimpiadi o le sue galline. Sentire tanto affetto attorno a noi, come avere tante piccole grandi famiglie pronte a sorreggerci, rende possibile pensare a un domani. Proprio pensando al domani di altri come Filippo, vogliamo che ogni gesto in suo ricordo sia convogliato in qualcosa di concreto, non in struggenti manifestazioni di rimpianto. C’è bisogno ancora di tanta ricerca per evitare che questa malattia così particolare ci strappi qualcun altro, per questo vi chiediamo di trasformare ogni lacrima, ogni fiore, ogni annuncio in fondi a sostegno di @beatitrowing».

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Sono passati quasi tre mesi e Filippo Mondelli continua nel suo viaggio. Sull’acqua, nel cielo, nell’aria. Adesso è a Tokyo, quasi pronto per la sua gara olimpica. Sull’imbarcazione il suo posto l’ha preso il 36enne Simone Venier, la chioccia dell’equipaggio. Argento a Pechino, nel 2004 ad Atene la sua prima Olimpiade. Giacomo, Luca e Andrea erano bambini, come Filippo. Che prima di ogni gara dava una pacca sulle spalle di Panizza, che ogni successo lo festeggiava con Gentili stappando una bottiglia di champagne, che con Rambaldi correva in coppia da 15 anni.  Filippo adesso è con loro, è in Giappone, pronto anche lui alla sua prima Olimpiade. È il 385esimo atleta della spedizione azzurra. I suoi compagni hanno scritto il suo nome e il suo remo sulla prua. Filippo è lì, che saluta da quella barca: perché “Ciao Filippo” è una foto che portano ovunque. A Nagano dove s’è svolto l’ultimo raduno, al villaggio olimpico, al Central Breakwater dove si disputeranno le gare. È la foto che vogliono portarsi sul podio. È la foto che li accompagnerà alla partenza. Insieme a quella bandiera che ricopriva la sua bara. L’ ha data loro la mamma di Pippo. Pronta a sventolare. Il 27 luglio, 2.58 ora italiana. Il momento della finale. In Italia sarà notte. Da vivere svegli per scorgere l’alba. Su quel quattro di coppia ci sarà tutta l’Italia, pronta a spingerlo verso la luce, la gloria, il cielo. L’alba di una nuova vita. Perché è vero, si rinasce ogni volta che si riprende in mano la propria vita.

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