Ustica, la strage e il sogno del baseball

Un'immeritata etichetta da 40 anni accompagna l'isola che fu epicentro del baseball nazionale. Clelia Ailara arrivò alle Olimpiadi
Il campo da baseball a Ustica
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Non c’è una fine per questa storia, viaggia ancora vagabonda. Senza una casa, senza un perché. Affondata sui fondali di acque cristalline, sotterrata sotto la terra nera e rossa, la polvere di un vulcano inabissato e di un’isola riemersa in mezzo al mare. Un’isola che esiste da millenni e che da oltre quarant’anni invece ha solo un’etichetta appiccicata addosso, confinata in otto chilometri quadrati di macchia mediterranea e grotte naturali a 67 chilometri da Palermo. Terra e mare, un’isola che nasconde leggende, sogni e segreti. I greci la chiamavano Osteodes – Ossario – per i resti dei mercenari deportati dai Cartaginesi o dei naviganti che, ammaliati dal canto delle sirene, si schiantavano sulle coste frastagliate dell’isola. Si chiama Ustica, quest’isola: il regime fascista vi confinò Ferruccio Parri e Antonio Gramsci mentre un altro regime da quarant’anni l’ha ristretta a un solo, maledetto, sostantivo: strage. L’isola della strage.

Come se Ustica e i mille e trecento usticensi avessero loro sganciato quei missili in un cielo di stelle popolato invece da caccia francesi, americani, italiani e da mig libici in uno scenario di guerra nell’estate del 1980. Soltanto il principio di una maledetta estate marchiata per sempre da altro sangue e dal tritolo, quello che a inizio agosto sarebbe esploso alla stazione ferroviaria di Bologna. Come se fossero stati loro ad abbattere quel Dc9 dell’Itavia popolato da 81 vite di sogni e speranze. Come se fossero stati loro a coprire la verità con menzogne e segreti, segreti e altre menzogne di Stato, nel corso di quarant’anni. Come se fossero stati loro i responsabili persino di altre morti definite “collaterali” dal giudice istruttore dell’inchiesta Rosario Priore, tredici vite finite tra inspiegabili incidenti aerei e incomprensibili suicidi che avrebbero tolto di mezzo scomodi testimoni eppure solo semplici pedine sopra una scacchiera internazionale. Altro che meraviglioso “mare nostrum”, soltanto un mare magnum di omertà e complicità. Sopra quei fondali che custodiscono i resti di quarantuno corpi mai ritrovati.

Soltanto brandelli e qualche oggetto, come quella targa a ricordare il sogno incenerito di Giuliana Superchi. Dieci anni aveva quel giorno, era il 27 giugno del 1980. Con una pagella in valigia e una bambola stretta al petto s’era imbarcata su quel volo da Bologna a Palermo Punta Raisi: l’avrebbe dovuta portare dal papà sull’isola per una breve vacanza e poi per sempre su un’altra isola. In Sicilia, a Palermo. Una nuova vita cui andare incontro: il mare a due passi come a Rimini, nuovi compagni di scuola e finalmente giorni sereni dopo la separazione dei genitori. Senza accompagnatore – insieme con altri 76 passeggeri tra cui altri 17 minorenni e 4 uomini dell’equipaggio – viaggiava su quell’aereo civile dell’Itavia: come da prassi per un minorenne, una hostess le aveva sistemato una targhetta al collo come segno di riconoscimento. E solo quella sarebbe poi stata restituita mesi dopo al papà Roberto, l’unico disgraziato brandello di quel giovane sogno spezzato, ritrovato sul fondale delle acque di Ustica. Lì dove sarebbero state ripescati la carlinga e pezzi di carne pur se quel maledetto missile aveva colpito l’aereo in un cielo di stelle lontano decine e decine di miglia da quello che quella notte illuminava Ustica.

Lì, sotto quel cielo dove, proprio in quei giorni Clelia Ailara scrutava il mare confidandogli il suo sogno impossibile: diventare una campionessa di baseball. Otto anni, ha quel giorno: è la figlia di Vito, un albergatore che nel 1971 aveva ospitato per qualche giorno il turista Bruno Beneck, un ex ufficiale del Comitato di Liberazione che nel ’44 a Nettuno scoprì la bellezza del baseball vedendo giocare i militari a stelle e strisce. Mazze, guantoni, una pallina e un campo a forma di diamante. Uno sport sconosciuto in Italia sino a quel giorno, ed è proprio da quel giorno che Bruno Beneck non si sarebbe mai fermato, fino a diventare presidente della federazione italiana e poi continentale, artefice e pioniere per davvero di un movimento azzurro che con l’Olanda da settanta anni si divide il gradino più alto in Europa.

Nell’estate del ’71 Clelia non è ancora nata: quando Beneck saluta l’isola lascia un bigliettino a Vito. Ha visto giocare i bambini dell’isola ai quattro cantoni, gli ha spiegato che giocare ai quattro cantoni con una mazza, dei guantoni e una pallina sarebbe ancora più bello. Dopo qualche mese in albergo arriva un pacco dono: palline, guantoni e mazze di legno. E insieme al pacco, a Ustica sbarca persino un tecnico federale: Gianni Sbarra, vincitore con la Lazio del primo campionato italiano nel 1949 e storico scenografo dei fratelli Taviani. 

 E quella che adesso inizia sembra la scenografia di un film però è tutto vero, tutto realmente accaduto. Tutto, tanto da diventare pure un docu-film dal titolo eloquente, altro che strage, sangue e silenzi assassini. “Gli anni del diamante” si chiama il docu-film girato da due ragazzi di Ustica: Stefano e Mathia Coco, anche loro protagonisti sul campo a forma di diamante in quegli incredibili, indimenticabili anni isolani. Gli anni dove sull’isola tutti i bambini, maschi e femmine, s’avviano al baseball. Nel febbraio del ‘72 la prima partita: una semplice esibizione ai Giochi della Gioventù provinciali a Agrigento. I ragazzini di Ustica, molti hanno lasciato l’isola per la prima volta, vincono. Il ritorno a casa è trionfale. Tutto il paese – mille anime, se non sono parenti sono amici – aspetta quei ragazzini al porto. Succederà tante volte, negli anni. Dai primi anni ’70 agli inizi del Duemila. Una rincorsa incredibile, una serie di successi iniziati nella primavera del ’72, proprio quando Clelia Ailara verrà alla luce.

Nel ’72 Ustica diventa campione regionale di baseball ai Giochi della Gioventù, alle finali nazionali di Pesaro conquista il bronzo. Sull’isola divampa la “baseball-mania”. Si gioca dappertutto, dove capita. Nella piazza principale, sopra un palchetto davanti alla chiesa: ragazzini e ragazzine, altro che pallone, tutti sono presi e infiammati da lanci, rincorse e battute. Persino a mare. Il “seaball”: il battitore è su una piccola banchina a riva, la squadra che difende è tutta in acqua e le basi sono dei galleggianti in acqua. Si batte e ci si tuffa per conquistare a nuoto le basi. A Ustica in quegli anni insomma si gioca a baseball ovunque. Sette le squadre giovanili, Vito Ailara diventa presidente della formazione maschile che si iscrive al campionato federale di C a metà degli anni ‘80 mentre nel 1986 Ustica diventa campione nazionale ai Giochi della Gioventù e contemporaneamente le ragazze conquistano il bronzo nel softball, la versione femminile del baseball.

L’isola diventa un crocevia di storie e personaggi, sull’isola arrivano tecnici statunitensi e cubani, autentici maestri di questo sport. Le ragazze, ancora più velocemente dei ragazzi, scalano la montagna partendo dalla C2: nel 1990 vice-campionesse d’Italia juniores, l’anno dopo sfiorano la serie A che sarà raggiunta nel 1992. L’Ustica softball dà tranvate e lezioni a tutte. L’isola di mille e trecento abitanti diventa così l’epicentro nazionale di un movimento sportivo, e la conquista della serie A anche per l’Ustica baseball farà sgranare migliaia di occhi, d’ammirazione e pure invidia. La crescita tecnica si sviluppa grazie anche all’arrivo di giocatori “non isolani” anche perché c’è bisogno di forze nuove ed esperte per cimentarsi in campionati sempre più competitivi. La squadra di softball rinforzata da alcune giocatrici di Palermo, la squadra maschile tessera un gruppo di giocatori del Nettuno. Negli anni seguenti la squadra femminile partecipa per ben due volte ai playoff scudetto e nel roster ci sono lanciatrici neozelandesi, cinesi e sudafricane mentre quella maschile nel 1998 sfiora la promozione in A1, perdendo i playoff contro San Marino. Nel periodo di massima diffusione, tra senior e giovanili, saranno sette le squadre iscritte ai campionati federali: 230 tesserati su una popolazione di mille e trecento abitanti e il 90% dei giovani impegnato con mazze, palline e guantoni.

Come quelli regalati nell’estate del ’71 da Bruno Beneck a Vito Ailara, il papà di Clelia. La bambina che proprio nell’estate del 1980, quella della maledetta strage, aveva cominciato a giocare a seaball: una pallina in acqua, un tuffo per afferrarla. Come quel sogno affidato al mare, in una notte di quell’estate maledetta. Quel mare le avrebbe restituito il sogno, persino con gli interessi. Lei cresciuta nella squadra del papà, lei trascinatrice e simbolo di quel movimento isolano capace di meravigliare l’Italia e purtroppo dissoltosi a inizio del Duemila: medaglie e trofei, la maglia azzurra, per tre volte campionessa europea con la nazionale italiana di softball, due volte da titolare ai campionati Mondiali e soprattutto uno storico traguardo olimpico, sempre vissuto da titolare. La prima e unica usticense ad aver partecipato alle Olimpiadi.

Vent’anni dopo Giuliana Superchi, anche lei salì le scalette di un aereo tenendosi stretta al petto il proprio sogno. Estate del 2000, volo Roma-Sidney, un volo d’andata e ritorno completato. Il quinto posto alle Olimpiadi, il trionfale rientro a casa. Ambasciatrice di Ustica. Di quel mare, di quell’isola che purtroppo non s’è ancora tolta quell’immeritata etichetta. Ustica, purtroppo sempre e solo l’isola della strage e non quella del diamante splendente, quello dove si gioca a baseball e softball. Clelia sì, l’avrebbe completato il suo ritorno a Itaca. Non come Guliana, a dieci anni uccisa da un missile e da quarant’anni maltratta e disonorata da segreti e menzogne. Non c’è ancora una fine per la sua storia, per quella di altre ottanta innocenti vittime. Viaggiano ancora vagabonde. Senza una casa, senza un perché.

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