E’ il 28 giugno 1982, Barcellona. Enzo Bearzot va nella camera dove sta provando a riposare Claudio Gentile, il “Feroce Saladino” così come l’apostrofò Gianni Brera. “Te la senti di marcare Maradona?”, gli chiede il vecio con la pipa. “E che problema c’è?”: così risponde quella sera – almeno così raccontò di aver risposto al ct azzurro quella sera di 38 anni fa – il terzino che prima di partire per la Spagna s’è fatto crescere i baffi per una semplice scommessa. E anche quella sembra una scommessa, una scommessa assai complicata però. Anzi un azzardo, in realtà l’ultimo disperato appiglio italiano per restare aggrappati al Mondiale: un numero due arcigno e risoluto abituato a giocare terzino contro il dieci più forte del Mondo, uno abituato a partire in dribbling da metà campo per arrivare sin dentro la porta. E’ quasi notte invece quel 28 di giugno del 1982, è la vigilia di Italia-Argentina, sarà la partita che deciderà le sorti del Mundial. Quella notte nasce l’epico corpo a corpo del giorno dopo sul prato del Sarrià, un duello passato alla storia del calcio mondiale. Un marchio di fabbrica per anni appiccicato ai difensori italiani, di quelli che si attaccano all’avversario più forte e non lo mollano, nemmeno se la corsa e la rincorsa finissero nel tunnel degli spogliatoi. Magari pure fin nel gabinetto. Quella partita del 29 giugno 1982 finirà 2-1, Gentile esultante, Maradona furioso.
E’ il 16 luglio del 1944, Milano, mezz’ora prima della partita, anche questa non è una finale ma è come se lo fosse. Negli spartani spogliatoi dell’Arena di Milano il tecnico Ottavio Barbieri, ex nazionale e scudettato con la maglia del Genoa, va dal mediano Mario Tommaseo con il quale per giunta ha litigato mesi prima e, con tono secco e perentorio, dice: «Mario, tu segui Valentino Mazzola anche dovesse andare al gabinetto, non dargli tregua: così mi disse. E io così feci. A fine partita provai un misto di felicità e uno strano senso di colpa, mi avvicinai a Valentino e gli chiesi scusa. Mazzola mi fissò sorpreso e mi rispose: “Scusa di cosa? Contro di te oggi non ho capito niente”. Sorrise e mi abbracciò. Non ho mai dimenticato quell’abbraccio, come non avrei mai dimenticato quel giorno, perché con quella marcatura impeccabile si era compiuto il capolavoro di tutta la mia vita». Anche quella partita finirà in maniera imprevista, anche quella 2-1: Mazzola incredulo e Tommaseo pure. Poi cantante lirico e persino pittore, Mario Tommaseo se n’è andato nel 2006, a 85 anni. Il ricordo di quell’epico e indimenticabile giorno l’aveva raccontato qualche anno prima ad Armando Napoletano, giornalista e scrittore, autore del libro “Un giorno di allarmi aerei”. E da quel libro sarebbe poi nata anche una pièce teatrale – “Eravamo quasi in cielo” – scritta e interpretata da Gianfelice Facchetti, poliedrico figlio del mito nerazzurro Giacinto. Allarmi, aerei, il cielo, il pallone: tutti fili che si legano a una storia terrena. Una storia di guerra e di calcio. Una storia vera. La storia dell’anno 1944.
Vera, come quelle bombe che arrivano dal cielo. Davanti ci sono gli spalti: sono spalti semi-distrutti, sono soltanto rovine e macerie. Tra il cielo e gli spalti c’è un pallone che rotola, nonostante quelle sirene – il “piccolo allarme” – obblighino a restare in campo almeno sin quando dal cielo non cadranno per davvero le bombe. E’ così quasi ogni giorno a cavallo tra il 1943 e il 1944. E’ la vita di tutti i giorni, quella degli italiani ai tempi della Seconda guerra. La passione per il calcio tiene in vita una nazione spaccata in due. La “Linea Gotica” divide speranze e resistenze: da una parte italiani e gli Alleati, dall’altra parte sempre italiani ma anche tedeschi. E’ una nazione dilaniata che prova però a resistere, a tenere duro, a guardare oltre l’isolamento, le macerie e la morte. Giorni e anni di paure e incubi, pure di sogni infranti. Come quello dello Spezia, anzi quello del Gruppo Sportivo 42° corpo Vigili del Fuoco La Spezia perché quella è la stagione dell’abbinamento obbligato, le società di calcio cioè si associano a corpi militari o aziende belliche per evitare che i calciatori siano chiamati alle armi: per dire il Torino diventa Fiat e i giocatori, compreso il divino Valentino Mazzola, sono operai che al mattino vanno in fabbrica e di pomeriggio si allenano dando calci al pallone. La Juve diventa Cisitalia, la Triestina è sostenuta dall’Ampeleia, il Milan si chiama Milano e l’Inter invece Ambrosiana: Mussolini così ha deciso. Il 16 luglio del 1944 i pompieri La Spezia battono all’Arena di Milano il Torino di Vittorio Pozzo e Mazzola, il 20 luglio sono proclamati campioni d’Italia eppure lo scudetto non sarà mai cucito sulle maglie. Un’epica conquista bruciata da un laconico comunicato emesso da quei brandelli di Figc appena il giorno dopo quella storica vittoria: “Allo Spezia va la Coppa Federale del campionato di guerra”. Niente scudetto, niente albo d’oro. Fino al 2002 nessuna menzione per un’impresa eroica. Anni di petizioni, istruttorie e richieste ufficiali. Niente. Soltanto 58 anni dopo – dei protagonisti di quell’impresa gli unici all’epoca ancora in vita Tommaseo e Bicchielli – la Figc riconoscerà ai Vigili del Fuoco La Spezia un titolo onorifico. Da diciotto anni lo stemma di quel campionato, riconosciuto come quello di “Alta Italia”, è cucito sulle maglie dello Spezia Calcio.
Spezia, sede d’industrie militari e d’un arsenale bellico e per questo bombardata più volte dagli Alleati alla fine del 1943. L’Italia è divisa in due, dopo l’8 settembre al Nord c’è la Repubblica Sociale di Salò e una parvenza di Figc ha sede a Venezia. Si prova a organizzare il campionato di calcio, campionato nazionale misto con squadre di A e B insieme ma divise in gironi regionali e poi se la buona sorte vorrà una fase finale che assegnerà lo scudetto. Così viene stabilito. I calciatori “perdono” il vincolo, si gioca nella squadra più vicina. Tanto per dire Silvio Piola è della Lazio ma va a rinforzare il Torino perché è bloccato in Piemonte, Meazza invece va al Varese. Lo Spezia invece è reduce da un buon sesto posto in serie B, chiuso da una gara indimenticabile, a suo modo. «All’intervallo trovammo nello spogliatoio un pacco di riso e cento lire – ricordò Sergio Bicchielli, uno dei giocatori di quello Spezia – e nella ripresa lasciammo fare all’avversario che aveva bisogno di un punto per salvarsi. Cosa dovevamo fare? Noi facevamo la fame. Non gli lasciammo vincere però tornammo con un pacco di riso e cento lire».
Tutte le squadre nel 1943 sono state sciolte, il presidente dello Spezia Coriolano Perioli è stato catturato dai tedeschi perché ha aderito al Comitato Nazionale, l’unico dirigente si chiama Giacomo Semorile e decide di contattare il comandante dei Vigili del Fuoco locali, l’ingegnere Luigi Gandino, per allestire una squadra che possa affrontare il campionato. L’accordo viene raggiunto con l’impegno scritto di restituire tutti i giocatori allo Spezia alla fine del conflitto. E’ uno stratagemma azzeccato: sottrae i calciatori agli obblighi del servizio militare, sono tutti giocatori veri e al gruppo base se ne aggiungono altri. Tori e Angelini vengono da Livorno, Viani dal Genoa: sono tutti giocatori di serie A, tutti professionisti, come Gravaglia preso dal Napoli. Tommaseo lascia invece Palermo: i Vigili della Spezia garantiscono un posto di lavoro, ottantamila lire mensili e la possibilità di allenarsi e giocare regolarmente. In tempi di guerra, un lusso. Un privilegio anche quella tessera di forza pubblica che garantisce la libera circolazione nell’Italia dimezzata. Tessera negata a Riccardo Incerti, diciannovenne portiere che comincia l’avventura calcistica coi Vigili del Fuoco ma poi è chiamato alle armi: dopo due mesi diserta per raggiungere il fratello Walter, calciatore pure lui, per entrare nella Brigata Garibaldi. Sull’Appenino emiliano, imbracciati i fucili, Walter diventa il partigiano “Vince”, e Riccardo prende il nome di “Toni”. E’ un’altra storia, sono altre maglie.
Quella calcistica, invece. S’indossa quella della prima squadra che si fa sotto pur di non imbracciare un fucile. Quel tesserino è un lasciapassare che consente di sottrarsi a controlli e rastrellamenti tedeschi. Il tecnico è Ottavio Barbieri, uno scudetto col Genoa, ex nazionale: adotta il mezzo-sistema imparato dall’inglese Garbutt, schiera il libero ed è così che imbriglia Valentino Mazzola nello scontro all’Arena di Milano il 16 luglio 1944, dopo sei mesi di viaggi e rincorse.
Un viaggio lungo, tra mille ostacoli: le bombe e i morti, la distruzione e la paura non danno tregua. Lo Spezia gioca nel girone delle emiliane, le gare casalinghe sul neutro di Carpi perché lo stadio Picco è macerie. Si parte a febbraio del ’44 dopo un rinvio di due mesi e una serie di partite annullate: le strade di collegamento con il Piemonte non esistono più. Sono tutte distrutte. Si viaggia sopra un’autobotte: la botte d’acqua sotto e due panche di legno sistemate sopra. E sopra quelle panche si sistemano i giocatori-pompieri. E pure commercianti. Olio, sale e farina: nelle trasferte caricano l’autobotte – una fiammante Fiat 621 L – e prima di scendere in campo vendono generi di prima necessità che altrove sono introvabili. Dormono nelle caserme dei colleghi, dei pompieri: nel piatto cipolle, fagioli e polenta. Sono viaggi memorabili come questo, stampato negli occhi di Tommaseo. «Un temporale ci fa tutti fradici mentre stiamo andando a Milano per la fase finale, in pieno luglio. In caserma ci togliamo le maglie e le stendiamo vicino al fuoco. E’ un momento ma sono già quasi mezze bruciate. Solo quelle abbiamo e con quelle giochiamo».
A Milano. All’Arena di Milano. Il 9 luglio c’è la prima gara del girone finale. Sono tre le squadre a contendersi il titolo. Il sorprendente Spezia che ha eliminato il Bologna che alla gara di ritorno non si è presentato dopo l’andata chiusa con l’invasione delle camice nere. C’è poi il Venezia e c’è lo stra-favorito Torino, quello allenato dall’ex ct Pozzo, quello che è già di Ossola, Loik, Mazzola e c’è persino Piola. Il 9 luglio i Vigili del Fuoco La Spezia pareggiano contro il Venezia grazie ad un gol di Tori, uno che per scappare dai bombardamenti nella sua Brescia si è bruciato i piedi ma che continua a giocare come se nulla fosse, arrivando fino a quella incredibile sfida-scudetto.
E’ il 16 luglio e i pompieri sfidano il Torino, galattico direbbero ora in Spagna come fosse il Real Madrid. Il tenente degli alpini Pozzo prima della gara va nello spogliatoio ligure, si complimenta con gli avversari ma dice, “mi spiace, noi di solito ne diamo almeno quattro all’avversario e stavolta tocca a voi”. Parole che danno la carica ai pompieri: quando esce dallo stanzone Tommaseo gli scaglia una sedia e quasi lo prende. Sul campo – mille appena gli spettatori presenti, c’è il rischio incombente di rastrellamenti tedeschi – accade l’impensabile: è il Toro che le prende. Angelini sigla il vantaggio dei liguri, Piola pareggia, poi ancora Angelini segna nel finale di tempo. Tommaseo non molla di un centimetro, sta attaccato a Mazzola, rispetta le consegne nonostante abbia due dita del piede destro fratturate. La ripresa – così la cronaca sulle colonne della Gazzetta dello Sport – è di veementi assalti granata e di strenua resistenza ligure. La traversa all’89’ colpita da Mazzola ancora trema ma niente. I Vigili del Fuoco spengono i campioni, battono 2-1 il Torino. Resta una partita per chiudere il triangolare, per chiudere il cerchio, per assegnare lo scudetto. Se il Venezia batte il Torino con più di un gol di scarto campioni d’Italia saranno i lagunari. Invece il Torino – si gioca il 20 luglio 1944 – è campione di sportività e travolge (5-2) il Venezia. I Vigili del Fuoco La Spezia sono così campioni d’Italia. Sono a La Spezia, sono in caserma, in attesa da tre giorni. Non hanno però nemmeno il tempo di festeggiare: la Figc si è già rimangiata tutto. Niente scudetto, nessun titolo, soltanto una Coppa Federale e un miserevole premio in denaro: 25mila lire. Resta per sempre però una formazione, una squadra che ha fatto la storia: Bani, Persia, Borrini, Amenta, Gramaglia, Scarpato, Rostagno, Tommaseo, Angelini, Tori, Costa. E poi Bicchielli, Castellini, Fiumi, Medica, Tavoletti, Rossi, Viani. Campioni tra quegli spalti distrutti, più forti di quelle bombe sputate dal cielo.