Se ne stanno lì, a destra ma nella parte alta di quella porzione di classifica. Se ne stanno lì, oltre la linea di confine della paura, una addirittura quasi attigua alla zona che proietterebbe alla Conference League se entrassero in gioco nuove penalizzazioni. Se ne stanno lì, a 15 gare dalla fine, pronte a tagliare il primo traguardo della stagione – senza ansie, in anticipo e togliendosi più di qualche sfizio – il più importante: mantenere la serie A. Se ne stanno lì, Monza, Empoli e Lecce: tra le due neo-promosse c’è una veterana che però preferisce sempre la linea verde. Si sono arrampicate sin lì in classifica seguendo modi e filosofie diverse perché se è vero che non esiste una sola strada per arrivare all’obiettivo è pur vero nel calcio nulla s’inventa: conta sapere cosa si fa, conta credere in cosa si fa, conta credere in chi fa.
L’ha fatto il Monza di Berlusconi e Galliani che nei due anni di serie B ha investito oltre settanta milioni di euro ma poi, arrivato in A, ha scelto una strategia diversa eppure le finanze sarebbero illimitate. Sedici acquisti in estate e solo uno (via Inter il baby Franco Carboni) a gennaio. Sedici giocatori nuovi ma quasi tutti presi con la formula del prestito con obbligo di riscatto condizionato: è stato così per Cragno, Petagna, Pessina, Caprari e Pablo Marì, in un certo senso i big. S’è impegnato cioè ad acquistarli ma soltanto in caso di salvezza. Il perché l’avrebbe spiegato Galliani in un’intervista: «Siamo una neopromossa, non possiamo appesantire il bilancio magari ritrovandoci l’anno dopo in B e con un passivo enorme. Abbiamo preso un impegno con gli altri club fissando già il prezzo, e con i giocatori che così sono pure più motivati». Oltre ai prestiti con obbligo, altri prestiti (da Sensi a Izzo, da Rovella a Ranocchia) e tre soli acquisti a titolo definitivo: soprattutto giovani e made in Italy. Dei 16 nuovi, 13 sono italiani. Il perché lo avrebbe spiegato, sempre in estate, Galliani. «Gli stranieri impiegano del tempo per ambientarsi, e noi non abbiamo tempo. Una volta ambientati, saremmo già retrocessi». Sei partite, le prime sei. Cinque sconfitte e un pareggio. Dopo il primo punto, la decisione drastica: chiudere con Stroppa e affidarsi ad un nuovo allenatore.
Lo avrebbero potuto scegliere tra mille, Berlusconi e Galliani, rovistando in rapporti quarantennali di calcio: esperti, scafati, dal profilo internazionale, di nome e di grido, dalle spiccate connotazioni tattiche o di immagine. E invece ed eppure si sono affidati senza tentennamenti, senza perder tempo, al tecnico della formazione Primavera, a un giovane allenatore alla sua prima esperienza in panchina.
A Raffaele Palladino hanno affidato le chiavi del motore, che ha cominciato a girare in un ambiente armonico, sintonizzato, motivato: a volte non è solo questione di panchina. Otto risultati di fila prima del ko con il Milan, in campo 8 titolari erano italiani, altri tre subentrati a gara in corso. Dodici italiani sui 16 impiegati nella vittoria all’Allianz contro la Juve, battuta pure nella gara d’andata, nella gara d’esordio di Palladino che s’è poi tolto lo sfizio di togliere anche un punto all’Inter a San Siro e di battere a domicilio il Bologna. Perché non esistono le partite che non si possono vincere, perché quella frase “non sono queste le partite dove una squadra che deve salvarsi deve far punti” è roba da idioti. Se una squadra che deve salvarsi ragionasse così, sarebbe già retrocessa.
Sa bene come funziona la serie A l’Empoli, una piccola realtà di provincia che da parecchi decenni e a petto in fuori (ha disputato anche in Coppa Uefa qualche anno fa) coniuga la competizione sportiva all’equilibrio dei conti e alla valorizzazione del (proprio) settore giovanile, capace due anni fa di vincere lo scudetto. Si è affidata ad un allenatore giovane, serio, preparato (Zanetti), senza farsi condizionare dall’infelice conduzione del Venezia in serie A, ha chiuso il mercato estivo con 16 acquisti (quasi tutti prestiti) tra cui 6 italiani mentre gli stranieri avevano già calcato i campi tricolore e soprattutto ha investito. Prima ha riscattato Vicario, il portiere italiano più forte in circolazione e che a fine stagione sarà ceduto fruttando una notevole e reale plusvalenza, come accadrà pure con Parisi. Poi ha dato spazio ai suoi talenti più fulgidi, lanciati dalla primavera a una maglia da titolare in serie A, come ad esempio Baldanzi e Fazzini; ha inoltre dato vetrina e spazio (frutteranno premi di valorizzazione a bilancio) giovani di altri club, come ad esempio Cambiaghi (Atalanta) che lo scorso anno aveva rubato l’occhio nel retrocesso Pordenone, De Winter (Juve) e Satriano (Inter). A gennaio si è concessa il “lusso” di inserire il veterano Caputo, preso in prestito (con obbligo) dalla Samp e un altro giovane di talento (Vignato). La linea verde anche quest’anno sta regalando punti, sorrisi e qualche impresa da ricordare, come la vittoria a San Siro contro l’Inter.
Ha invece dovuto fare di necessità virtù il Lecce. Con il monte ingaggi più basso della serie A (meno di 15 milioni), con 7 milioni di euro da spendere sul mercato, ha scommesso sulle capacità e sulla voglia di riscatto dell’esperto Pantaleo Corvino la cui abilità nello scovare talenti (a buon prezzo) pareva appannata. Quattordici volti nuovi nella campagna estiva (a gennaio il prestito dalla Fiorentina di Maleh), 6 gli italiani: quasi tutti giocatori presi in prestito, qualcuno a parametro, tre gli acquisti tra cui Baschirotto ora è nei pensieri del ct Mancini, si gode il talento di Strefezza preso un anno fa a poco dalla Spal e prepara una plusvalenza milionaria con la cessione del 23enne vichingo Hjulmand. Pareva destinato a fare da Cenerentola il Lecce, e invece a 15 giornate dalla fine è a più dieci sulla terz’ultima, ha battuto in casa e fuori l’Atalanta, ha pareggiato a Napoli, in casa ha battuto la Lazio, ha fatto pari con Milan e Roma: al gran ballo della serie A s’è iscritto con merito. E merita di restarci.