Chissà. Chissà come ci si sente a chiedere, “Ehi Jonathan, come va?”. Jonathan sta uscendo dalla prigione, ha appena messo fuori i piedi da un tunnel che l’ha inghiottito e sepolto per ventitrè anni. Ventitrè anni da innocente, chiuso in una gabbia. Se ne perde pure il conto: 365 per 23 fanno 8395 giorni. Giorni strappati alla vita, pagati senza risarcimento – ma quale indennizzo potrebbe mai ristorarlo? – alla giustizia americana, anzi all’ingiustizia del sistema giudiziario statunitense. Lo stesso che nel 1988 fece gridare al pugile Rubin Carter, soprannominato Hurricane, quello del film “Hurricane, il grido dell’innocenza” interpretato da Denzel Washington, quello al quale Bob Dylan dedicò finanche una canzone (quella strofa ancora risuona, “il giudice chiamò i testimoni, i più miserabili ubriaconi”), “Signori, guardate che l’America è un penitenziario con la bandiera a stelle e strisce, mica la patria della libertà”. Anche lui in carcere da innocente per ventidue anni. Però lui era un pugile, era conosciuto, per lui si mobilitarono pure Joan Baez, Norman Mailer, persino Mohammad Alì. Jonathan Irons invece non lo conosceva nessuno, il suo caso non avrebbe mobilitato le masse per venti lunghi, interminabili anni. Se non ci fosse stata lei.
Chissà. Chissà quanto c’è da sentirsi vuoti, maldestri e idioti quando quel ragazzone grande, grosso e di colore, condannato a 50 anni di carcere quando lui di anni ne aveva 16, condannato senza uno straccio di prova per tentato furto con scasso e aggressione a mano armata – sì, avete letto bene, 50 anni di prigione a un minorenne per tentato furto con scasso – risponde sereno, gli occhi accesi pieni di riconoscenza e le parole beate di un ragazzino manco fosse appena uscito da una lezione di catechismo: «Sono libero, sono benedetto, voglio solo vivere la mia vita in modo degno dell’aiuto e dell’influenza di Dio. Eh, ma se il prezzo da pagare era poi ricevere questo regalo significa che il Signore mi ha già ricompensato. E io oggi ho ricevuto un regalo ancora più grande».
E mentre lo dice il suo angelo custode ha appena ripiegato le ali ed alzato le braccia al cielo. Indossa una maglia bianca con sopra scritto a caratteri cubitali “Do justice, love mercy, walk humbly” – fai giustizia, ama la misericordia, cammina umilmente – veste pantaloni larghi e grigi, una comunissima mascherina celeste le copre il viso. E’ in carne ed ossa, gli sta di fianco. Inginocchiata e in lacrime. Si chiama Maya, ha otto anni in meno, però anche lei è grande, anche lei è grossa, anche lei è di colore. E’ il suo angelo custode ma è un’umana che potrebbe anche starsene beatamente sollevata a quattro metri da terra, che potrebbe infischiarsene di cosa le capita intorno, passando invece le giornate tra i canestri e i riflettori e poi una botta di vita, nel mondo patinato, alle feste vip, in viaggi oceanici. Perché lei è una regina, lei è una star, lei è una campionessa del basket americano, incoronata dalla rivista Sport Illustrated nel 2017 come la più forte giocatrice statunitense del ventunesimo secolo. Lei è Maya Moore. Due volte campionessa Ncaa, quattro volte vincitrice del titolo Wnba (la Nba versione femminile), due volte medaglia d’oro alle Olimpiadi con la maglia Usa, due volte medaglia d’oro ai Mondiali con la canotta a stelle e strisce, miglior rookie, miglior giocatrice della Lega per tre anni, miglior marcatore, miglior difensore, due volte campionessa d’Europa (d’inverno a far centro dall’altra parte del pianeta, tanto per tenersi in allenamento visto che negli Usa il campionato si gioca dalla primavera) con Ekaterinburg e poi Valencia e tre volte vincitrice del titolo in Cina sempre per quella storia che d’inverno da qualche parte doveva pur far canestro. Insomma è la numero uno del basket americano, dunque mondiale. Insomma, è la Le Bron James in gonnella.
Però no accidenti, a proposito di campioni, lei in realtà è l’unico che ha materializzato lo slogan della Nike coniato per Colin Kaepernick, l’atleta Nfl che nel 2016 perse il posto in squadra dopo la protesta contro Trump inginocchiandosi all’inno americano. Ecco, quel “Believe in something. Even if it means sacrificing everything” – “Credi in qualcosa. Anche se significa sacrificare tutto” – lei è l’unica, al momento almeno, ad averlo messo in pratica, coronando una lunga battaglia, sociale, culturale, legale.
Jonathan l’aveva conosciuto nel 2007: era andata a trovarlo dopo la segnalazione di un parroco, un amico di famiglia. Sarebbero presto diventati amici, sarebbero continuate le visite, si sarebbero scambiati lettere e libri, parole, carezze e speranze; lei l’aveva battuto in una partita a dama e poi gli avrebbe detto: “La rivincita te la darò solo fuori da qui. Non mollare, io ti tirerò fuori di qui”. Lei aveva preso a cuore quel caso di palese ingiustizia e superficialità, lei aveva fatto propria la battaglia di associazioni per i diritti umani che, inascoltati da anni, dimostravano come Irons fosse detenuto per un reato mai commesso. Condannato dalla fretta di un procuratore di voler chiudere il caso, l’ennesima vittima di un sistema che se hai soldi e un buon avvocato te la cavi pure se hai ammazzato ma se sei povero e di colore, beh, allora puoi pure marcire là dentro anche se tu non hai fatto nulla. E mentre diventava la numero uno del basket americano, Maya assumeva un team di avvocati nel tentativo di far riaprire il caso. Nulla. Niente da fare. Un muro di gomma: ogni richiesta, ogni appello, ogni tentativo, che tornava indietro. Però i campioni sono quelli che non si arrendono, sono quelli che dalle sconfitte imparano a vincere. Sono quelli che trascinano, quelli che aprono una strada che nessun altro vede. In fondo proprio i campioni insegnano: non si vince mai da soli. E allora due anni fa Maya ha scelto di posare il pallone a spicchi, di sporcarsi le mani facendo un salto nel fango della giustizia americana. Decidendo di fare i conti con la propria coscienza. Ha rinunciato ai soldi, alla carriera, ai successi, alla fama. Ha abbandonato il dorato e amato parquet per cominciare un’altra partita, un’altra carriera. Ha messo in pausa la propria vita perché sentiva che doveva farne ripartire un’altra. La sentiva dentro, quella voce che le diceva, “il vero cambiamento è quando capisci che devi rinunciare a qualcosa di tuo per donarlo a un altro, vivi solo quando capisci quale è il tuo scopo”. Ha cominciato a occuparsi in prima persona e a pieno regime del caso: prima ha posto l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda, poi è riuscita a far riaprire il caso. Due anni in prima linea, tra aule di giustizia, post sui social, campagne in strada e poca attenzione dei media. E il mondo del basket che la reclamava: ehi, ma dove è finita Maya? Maya era lì, a combattere, a sporcarsi le mani, a scuotere le coscienze. Ci sono voluti mesi prima che la sua decisione finalmente trovasse spazio sui media sportivi, tra i fan, che aprisse una breccia nell’opinione pubblica. Quando camminava per le strade di Atlanta, la sua città natale adottiva, pochi la riconoscevano. La sua storia non ha raccolto neanche lontanamente l’attenzione che sarebbe andata a un giocatore maschio con il suo livello di statura nello sport. Però lei se n’è infischiata. Dritta e fiera, per la propria strada. Perché i campioni sanno che per vincere ci vuole tempo. E il tempo è galantuomo. Due mesi fa un giudice – stabilendo che le impronte digitali sulla scena del delitto non erano quelle di Irons e nemmeno della vittima – dopo aver riaperto il caso, l’ha scagionato con formula piena ordinandone la liberazione. Solo allora l’America se n’è accorta.
E così tutto il carrozzone mediatico, dopo anni di battaglie racchiuse in qualche trafiletto e dieci secondi sui canali tv, si è spostato a Jefferson City, in Missouri, davanti a quella prigione che per 23 anni ha tenuto dentro un innocente che per ventitrè anni si era sentito ripetere, a ogni disperata e implorante richiesta di revisione del processo, “no, il caso è chiuso e tu resti dentro”. A marcire fino al 2048. E invece. E invece è arrivata Maya.
“Ehi Maya, ma tu perché l’hai fatto? Ehi Maya, ma il basket non ti è mancato in questi due anni? Ehi Maya, ma adesso tornerai in campo?”, le ha chiesto l’America. E Maya, come fosse ancora su quel parquet, come dovesse scoccare un tiro da tre sulla sirena, uno di quelli che ti lascia senza fiato, ha preso la mira. Ha chiuso gli occhi. E poi la palla ha fatto centro. Ha fatto ciuf. Come un soffio leggero, come uno di quelli che però fanno parecchio rumore. Come può farlo solo la gioia. Di se stessi e degli altri. «Ci sono diversi modi per misurare il successo. Quello che ho avuto nella pallacanestro mi fa esplodere la testa ogni volta che ci penso. Ma il modo principale con cui io misuro il successo nella vita non è qualcosa che si può enfatizzare esplicitamente attraverso la pallacanestro professionistica. Il modo in cui io misuro il successo è chiedendomi: Sto vivendo con uno scopo? Me lo sono chiesta per anni, e adesso lo so cosa significa avere uno scopo. E’ adesso che finalmente ho vinto, è adesso che non posso fermarmi, è adesso che comincia un’altra vita».
Già, un’altra vita. Ma quale? Dopo la sentenza e la gioia, sono arrivati riconoscimenti a pioggia. Maya è stata premiata con il Muhammad Ali Sports Humanitarian Award agli Espys, i premi della tv ESPN per gli sportivi distintisi in cause sociali e umanitarie. La celebre rivista Time l’ha inserita tra le 100 personalità più influenti del pianeta nel 2020: protagonista di una storia che sa di miracolo. Ha persino incassato benevola il commento di Lou Williams, stella dei Los Angeles Clippers, in un mondo ancora abituato a coniugare solo e sempre al maschile: «La sua immagine ora colpisce in maniera differente. Perché è una donna che mostrerò ai miei figli dicendo loro: lei è un vero modello di vita a cui ispirarsi».
Maya mica si è fermata. Lei va avanti. Ha fondato un’associazione che si chiama “Win with justice” che punta a riformare il sistema giudiziario Usa e che assiste altri uomini e donne ingiustamente detenuti. I media sportivi l’assediano. “Maya, tornerai a giocare, andrai alle Olimpiadi?”. Maya non ha ancora detto se tornerà. Però un segreto l’ha rivelato. L’ha mostrato, perché tutti lo vedessero, magari capissero pure: un fiore, nato sopra un macigno di sbarre, cresciuto senza acqua, al buio, dentro una gabbia di cemento. E quel fiore l’ha portato in tv, l’ha presentato a una nazione smarrita a tre giorni dall’esito delle elezioni presidenziali, attraversata da paure e fremiti, l’ha regalato a una società rinchiusa e retrograda. In diretta, da casa sua sugli schermi dell’ABC, nel corso del popolarissimo programma “Good morning, America”. Lei, e accanto Jonathan Irons. Semplici. Sorridenti. Speciali. “Sono felice di annunciare un nuovo capitolo della mia vita. Volevamo solo annunciare oggi che siamo super entusiasti di continuare il lavoro che abbiamo svolto insieme. Però adesso lo faremo come coppia sposata”. Buongiorno America, anzi Buongiorno Mondo. Chissà, forse c’è ancora una speranza. Riaccendere vite fa più bene che viverle.