Muller, l’ultimo gol è una carezza

Il centravanti tedesco è malato di Alzheimer e ricoverato in una clinica. La moglie rivela: Ha gli occhi chiusi, sta dormendo verso la fine
Gerd Muller
Facebook
Twitter
WhatsApp
Telegram

E’ così bello, quando Gerd apre gli occhi per un attimo. «Es ist so schön, wenn Gerd kurz die Augen aufmacht». Dolce e drammatico, delicato e dirompente. C’è tutto, in una sola frase. Ursula Ebenböck, l’hai sussurrata in tedesco, con un singhiozzo piccolo e un lungo respiro. Danke. Significa grazie Ushi, così come ti chiamava il tuo Gerd. Perché hai descritto la meraviglia di un amore e al tempo stesso lo strazio del tuo amore, il buio che si mangia la vita e quello sprazzo di luce – quell’istante, quell’attimo – che tenta di infilarsi, che prova a fermare l’inesorabile discesa verso l’oblio, che prova a dribblare quel nemico insuperabile chiamato demenza senile, che prova a rigonfiare la rete intessuta di memorie, sentimenti, ricordi, affetti. Però quella rete adesso è bucata e non c’è più modo di rattopparla. La porta è sempre più piccola, e gli occhi sono diventati una fessura. Non un filo di luce. Niente, nemmeno l’effimero riflesso artificiale di uno specchio. Niente. Senza un perché.

Lo hai detto in un’intervista alla Bild denudando con pudore i tuoi sentimenti, raccontando di come un amore possa ancora nutrire e nutrirsi pure nella sofferenza, pure se la vita è arrivata al capolinea. Alla fine dei suoi giorni. Il conto alla rovescia è partito da tempo, e non c’è più modo e tempo per stopparlo. Lo hai detto titanica nell’accettazione della perdita, come se volessi condurci in un silenzioso viaggio verso quel lettino, a salutare quell’uomo che pareva invincibile. E invece. «Gerd schläft langsam hinüber». Sì Ushi, hai detto proprio così. Sì Ursula, tu purtroppo ci hai rivelato che il tuo “Gerd si sta spegnendo lentamente”. E tu non puoi farci niente. Come niente possono fare i medici. Come niente ancora hanno potuto la ricerca e la scienza. Per tutti i malati di questo morbo che si chiama Alzheimer, compreso il tuo Gerd. Gerd, il compagno di una vita pur tra bufere, dissidi, separazioni e ritorni – 55 anni assieme da quel giorno del 1965 quando si avvicinò a un tavolino di uno dei bar nella stazione di Monaco di Baviera per offrirti una cioccolata con panna – che non sa più chi è lui e chi sei tu, che cosa ci sia stato nella sua vita, come sia stato il vostro amore. Da cinque anni ha lasciato casa e il mondo, è in una clinica specializzata, da qualche mese è come un’ameba. Vegeta.

Ha appena compiuto 75 anni ma è come se fosse da un’altra parte, in un luogo senza spazio né tempo, come inghiottito da un’orbita sconosciuta. E’ lontanissimo, come si trovasse su Plutone: sparito a se stesso ma al tempo stesso testimone inconsapevole della propria sparizione. Un destino crudele. «Gerd sta quasi 24 ore al giorno a letto, ha solo rari momenti di veglia. È così bello, quando apre per un attimo gli occhi. A volte riesce a dire sì o no, muovendo le ciglia. Non mangia più nulla, riesce a deglutire soltanto qualche frullato. Sta dormendo, in attesa della fine. E’ sempre stato un combattente, un tipo coraggioso. Lo è anche adesso. È calmo e tranquillo. Spero solo non soffra, prego solo che non possa pensare al suo destino. Perché questa maledetta malattia priva un uomo di tutto, innanzitutto della propria dignità. E’ la peggiore delle malattie».

E’ l’Alzheimer, è una male che estirpa, che estorce, che erode. I malati, i loro cari: a soffrire di più sono proprio quelli che stanno accanto. Un milione in Italia i malati e il Ministero della Salute stima che nei prossimi 40 anni la cifra sia destinata a triplicarsi; ogni anno nel mondo 47 sono i milioni di uomini e donne colpiti da questa malattia neurodegenerativa, settima causa di mortalità. Altro che virus. E’ un mostro, è un nemico empio che toglie la vita e la fa sua, che se la prende e la modella a suo piacimento. E’ un microscopico alieno che uccide. E’ un pullulare di creature del non-essere che ronzano per dire che non c’è speranza, che non si vedrà più la luce. Mai. Mai più. Ti riduce a brandelli e ti tiene in ostaggio fin quando non crepi. Fa già male, solo a scriverlo così.

Però è la vita che fa sempre un po’ male. Gerd l’ha incontrata tardi, appena valicati i trentacinque anni. L’istante esatto dopo aver smesso di fare quello che faceva come nessun altro centravanti, e come nessun altro mai più riuscirà a fare. Solo allora – era il 1981 – si accorse che il mondo non era riducibile a quel rettangolo verde denominato area di rigore, quello che per vent’anni gli aveva fatto da casa, lì dove avrebbe costruito una carriera ineguagliabile. Ineguagliata.

Segnava senza sosta, senza sollievo, senza sbornia. Non è solo quanto, ma come. Segnava senza nemmeno guardare il pallone, faceva gol senza dare un’occhiata alla porta. Aveva il gol dentro di sé. Amato, celebrato, venerato. Era Gerd Muller. Il bomber che qualsiasi allenatore avrebbe voluto. Era il centravanti che qualsiasi bambino, in Germania e in Europa, sarebbe voluto diventare. Lo chiamarono “Der bomber” e presto diventò “Bomber der Nation” (il bombardiere della nazione, e lo è ancora perché nessuno ha segnato come lui in Bundesliga); non era alto, era sgraziato, aveva cosce grosse e baricentro basso e per questo ci fu chi lo bollò “Kleines dickes” (Piccolo grasso) o finanche Der Mann der Kleine Tor” (l’uomo dei piccoli gol), eppure continuò a segnare. Infischiandosene.

Come un fulmine, gli bastava un istante per incenerire. Di destro, di sinistro, in giravolta. Di testa, che incornate. Di rapina, che sveltine. Lui sapeva dove aspettare, lui sapeva cosa fare. Sapeva che gli sarebbe bastato un attimo, e quell’attimo l’avrebbe trasformato in gol. Inarrestabile. Come una macchina che non possiede il tasto stop: 1460 reti comprese le amichevoli, 735 gol in 793 partite ufficiali (praticamente media di un gol a partita), 365 gol in 427 gare di campionato con il Bayern Monaco, 569 centri in 611 partite con la maglia bavarese, 68 reti in 62 gettoni con la maglia della Repubblica Federale di Germania. Un iradiddio, un satanasso, un trascinatore: 4 Bundesliga, 4 Coppe di Germania, 3 volte la Coppa Campioni (consecutivamente, ’74, ’75, ’76), una Coppa delle Coppe, una Coppa Intercontinentale: tutti trofei conquistati indossando la maglia numero nove del Bayern Monaco. In nazionale un titolo di Campione d’Europa e una Coppa del Mondo, e fa nulla se quel giorno del ‘74 all’Olympiastadion avesse la numero tredici: la giravolta improvvisa arrivò lo stesso, senza dar scampo a Jongbloed rimasto di sale, a ricacciare in gola l’urlo dell’Olanda di Cruijff, a consegnare alla nazione adorante e impazzita la Coppa Rimet, in cima al Mondo la Germania dopo gli anni di umiliazione e ricostruzione post-bellica. Giorni felici, che adesso ricordano i suoi compagni. Per lui. «Dove c’era la palla c’era Gerd», dice Paul Breitner, compagno al Bayern e in Nazionale. «Forse non è stato il giocatore più forte ma di sicuro è stato il giocatore più importante del Bayern e della Nazionale, perchè senza di lui non avremmo vinto. E quando dico che non avremmo vinto, intendo dire che non avremmo vinto proprio nulla». Un animale da gol. Feroce. «Brutto da vedere, con quelle gambe corte e tozze e le spalle spioventi. Però veloce come un ghepardo e che saltava come un’anguilla. Con lui non potevi distrarti un solo secondo»: così kaiser Franz, al secolo Beckenbauer, il capitano del Bayern e della Deutsche Mannschaft, il compagno e l’amico di mille partite. E Sepp Maier, il mitico portiere di quella Germania occidentale capace di vincere, in appena due anni, Europei e Mondiali. «Gerd si aggirava come un coniglio selvatico in fuga, era imprevedibile e imprendibile».

Imprevedibile e imprendibile, già. Adesso è malato, adesso è una pietra che sta rotolando verso il precipizio. Ma c’è ancora. Esiste per Ushi, per gli ex compagni, per il mondo che l’ha visto campione e per quello che un giorno, leggendo tra le pagine delle antologie di calcio, vedrà accostato al sostantivo gol un nome e cognome: Gerd Muller. Adesso non mangia più, deglutisce solo frullati. Ma lui è quello che nel 1970 segnò 38 gol in Bundesliga, che vinse la Scarpa d’Oro, che ai Mondiali in Messico ne fece sette in tre partite e poi altri tre eliminando l’odiata Inghilterra con un gol da cineteca nei supplementari, e altri due all’Italia nel leggendario 4-3 dell’Azteca. L’unica doppietta inutile della carriera eppure pure gli valse il titolo di capocannoniere del Mondiale e il “Pallone d’Oro”, primo davanti a sir Bobby Moore e Gigi Riva. Lui è quello che nel 1972 divenne il fuorilegge dell’area di rigore, una pistola fumante che in cinque secondi stendeva portieri e avversarie: 68 gol tra coppe e campionato, la doppietta che stritolò il Belgio nella semifinale degli Europei, un’altra doppietta tre giorni dopo quando disarmò – in piena Guerra Fredda – l’Unione Sovietica nella finale, e quel giorno la Germania tornò über alles. Lui è quel ribelle che l’anno dopo la giurò alla Federazione che gli aveva negato il trasferimento al Barcellona infrangendo il sogno di vederlo al fianco di Cruijff con la maglia blaugrana. Che coppia sarebbe stata, la coppia d’attacco più forte di ogni epoca, eppure quel nein non gli impedì di essere un buon soldato: “Vi regalerò il Mondiale ma dal giorno dopo non metterò più piede in Nazionale, dimenticatevi di me”. Lui è quello che un anno dopo – era domenica, era il 7 luglio del 1974 – mantenne fede al giuramento: secondi che hanno fatto la storia, fotogrammi che restano in quegli occhi adesso socchiusi in un lettino d’ospedale, in attesa dell’eternità.

Come quella domenica. Il tempo di arpionare un pallone che pare destinato sul fondo, il baricentro basso che sbilancia Krol, il destro potente che incenerisce Jongbloed, le braccia al cielo e poi il congedo, dopo essersi goduto il trionfo, dopo aver issato la Germania sul tetto del mondo. Che a volte a salirci non basta una vita però a scendere ci vuole un attimo. Just like a rolling stone, come una pietra che rotola, che prende velocità e non si può più fermare. Come quella malattia che lo tiene adesso in ostaggio su quel lettino in una clinica di Monaco di Baviera: Gerd sta rotolando verso l’ignoto, verso il vuoto, dentro un buco nero che inghiotte. Un deja vù. Gli era già successo ma la malattia che l’aveva attaccato anni prima non era mica spietata come l’Alzheimer. Lui aveva saputo affrontarla, lui l’aveva sconfitta. Grazie a se stesso, e agli altri.

Altri cinque anni al Bayern Monaco, il tempo di vincere tre volte di seguito la Coppa dei Campioni e di cedere il testimone al giovane Kalle, Karl Heinz Rumenigge. Le gambe cominciano a cedere, e lui cede davanti all’offerta milionaria dei Fort Lauderdale Strickers; resta fi­no a 37 anni negli States. Apre una birreria e un ri­storante in Florida ma poi gli affari vanno in rovina, come il matrimonio con Ushi. Tutto è alle spalle, e davanti non c’è più niente. Se non il buio, l’oscuro. Anno disgraziato, il 1982. Finita la gloria, inizieranno i tormenti.

I gol erano stati come il paraurti tra lui e la sua esistenza. Finiti quelli, l’impatto con la realtà. Il vuoto. Il precipizio. Era appena rientrato in Germania dall’esperienza negli States, lì a raccattare le ultime briciole di gloria e una montagna di dollari come Pelè, come Beckenbauer, come Chinaglia. Era tornato a casa, eppure naufrago in un oceano profondo, senza salvagente. Per strada, senza una via. La solitudine, la depressione, l’alcolismo. Sì, a volte a scendere dal tetto del mondo ci si mette un attimo. Lui l’avrebbe descritto così, quell’attimo nel quale il centravanti Muller abbandonava per sempre l’uomo Gerd. Senza più l’area, senza più l’aria.

«I mei compagni sono riusciti a riempire il vuoto, io no. C’è chi è rimasto nel calcio, chi ha cambiato radicalmente. Quel matto di Sepp ad esempio per un po’ ha lavorato al circo. Loro sono andati avanti. Io no, io sono rimasto fermo in una maledetta area di rigore. Per loro è stato più facile. In fondo quando giocavamo nel Bayern e in Nazionale loro dovevano difendere, marcare un attaccante, parare i tiri avversari o galoppare sulle fasce e fare cross. Tutte cose che è più facile dimenticare, come metter via un album di fotografie in un cassetto e andare avanti. Io invece facevo gol E non c’è paragone. Il gol è tutto. Il gol è ossessione prima ed è liberazione dopo. E poi ci sono quei 5 secondi dopo che la palla ha superato quella maledetta linea bianca. Quei cinque secondi sono una droga. In quei 5 secondi non sai chi sei, dove sei o cosa stai realmente facendo. Ebbrezza, rapimento, visibilio, abbandono, estasi, felicità. Quei 5 secondi sono stati la mia droga per più di 20 anni. Fino a quel giorno di dicembre del 1981 quando ho dovuto dire basta. Le mie gambe tozze e storte non ce la facevano proprio più. Anche se con la testa avrei potuto giocare altri dieci anni. Il giorno dopo stavo già scivolando in fondo a quel buco nero dove mi trovo ora. Non avevo più nulla della mia vita precedente. I giorni con le mie certezze, i mei riti, le mie abitudini erano finiti. Per sempre. Allenamenti, partite, ritiri, trasferte, riunioni tecniche, i compagni di squadra, lo spogliatoio, gli scherzi, i pranzi, la preparazione estiva. Ritmi meravigliosamente sempre uguali, tempi scanditi e conosciuti. Tutto finalizzato alla partita. E al gol, la mia droga. Ora tutto questo non c’è più. Finito per sempre. Ed io mi sento completamente perso. Guardo i miei vecchi amici. Sepp, Uli, Franz, perfino Hans-Georg. Sono sereni. Io, dopo più di 10 anni da allora, sono rimasto ancora là. Forse addirittura a quel giorno di luglio del 1974. Quando ho capito, nell’esatto momento in cui quel tiro mio contro l’Olanda aveva superato quella maledetta linea bianca di porta, che non avrei mai più rivissuto un momentocome quello. E avevo ragione. Un mio gol aveva consegnato al mio Paese i mondiali di calcio. Quel giorno ero sul tetto del mondo, poi da lì sarei finito nel buco del culo dell’inferno».

Da quell’inferno ne sarebbe uscito. Lentamente, ma con forza, dedizione, amore. Quello di Ushi, tornata al suo fianco. Quello di alcuni tra i vecchi compagni del Bayern che un giorno l’avevano incrociato in un bar dell’aeroporto di Monaco: un uomo, con la barba lunga, trasandato, in evidente stato confusionale. Un uomo da aiutare, da sorreggere. Con discrezione. Il soggiorno in una clinica specializzata, il programma di recupero, la disintossicazione dall’alcool e dai tormenti, la depressione schiacciata in una valigia, la lenta risalita verso la luce. Nel ’92 il ritorno al Bayern, al campo, al pallone, alla vita. Allenatore e dirigente nel settore giovanile. Ventidue anni di gioie e impegni, di riscatto e rivincita. Perché quando il nemico si mostra, puoi affrontarlo e sconfiggerlo. Gerd ce l’aveva fatta. Ce l’ha fatta. Fino al 2015. Perché poi è arrivato questo mostro che si chiama Alzheimer, questo nemico empio che toglie la vita e la fa sua, che se la prende e la modella a suo piacimento. Questo morbo che tiene in ostaggio, che ti fa rotolare come una pietra inconsapevole verso il precipizio. Che se uno potesse rivedersi un attimo prima della fine, a Gerd Muller forse piacerebbe questa scena. 1972, Europei in Belgio, semifinale contro i padroni di casa. Beckenbauer gli si avvicina, “Ehi Gerd, perché non vieni a darci una mano in difesa?”. E lui, Gerd: “Ehi Franz, quando verrai a darmi una mano a far gol, allora io verrò dietro a difendere”. Ognuno ha il proprio territorio, il proprio habitat. No, così è proprio crudele. Non affoga un pesce nel mare, non affoga un centravanti sopra un lettino.

© 2020 Riproduzione riservata
Facebook
Twitter
WhatsApp
Telegram

Correlati