La storia di Andrea è una storia di amore e passione, di forza e coraggio. Una di quelle storie antiche, quelle di un calcio scomparso, maciullato adesso solo da isterie e interessi. È un viaggio, troppo breve eppure molto intenso; il viaggio di un ragazzo sicuro e pulito, all’apparenza sfrontato ma in realtà pieno di fiducia e coraggio. Il sorriso di un ragazzo che nel futuro vede solo promesse, non certo agguati. È la storia di un bambino del Sud quando al pallone si gioca ancora per strada. Minuti, ore, giorni. Senza mai stancarsi, solo la voglia di realizzare un sogno, il desiderio di completare il viaggio. Una storia che sembra così simile a quella di un altro ragazzo del Sud, all’apparenza spigoloso e invece tenace anche lui, all’apparenza diffidente e invece rispettoso proprio come Andrea. Andrea come Pietro Mennea, e Pietro Mennea corse per il Mondo ad afferrare medaglie ma anche la sua fu una storia di riscatto e di rivincita. Anche Andrea correva. Correva più di tutti gli altri. Il pallone in cortile, il pallone nei tornei del quartiere, il pallone grande amore di una vita fino alla Juve, alla nazionale. Passione e amore, forza e tanto coraggio. Il coraggio, quello che a 13 anni ti fa andare via di casa, e nel 1983 non era come adesso. Da solo, lontano da casa, lontano dagli affetti, da solo a inseguire con caparbietà il suo sogno. Allora non è come adesso, non c’era un contratto milionario, solo la promessa di completare gli studi fatta ai genitori. Anni di sacrifici e di rincorse. Di ostacoli, ogni volta superati. Grazie a una caparbietà senza eguali. Sempre con il sorriso e la convinzione di farcela. Andrea è uno che ha sempre creduto di arrivare alla meta, alla fine del viaggio. La storia di Andrea è una storia di successi, di scelte, di amore. Lui ad esempio che sceglie la Juve, la squadra del cuore, rifiutando un ingaggio superiore dal Parma: succederebbe oggi? O ancora. Succederebbe oggi che un calciatore, bravo, bello, forte, insomma un ragazzo da copertina, accetti un declassamento che è una punizione societaria per una banale incomprensione con un vice-allenatore? La storia di Andrea è la storia di un ragazzo che dice: darei l’anima anche per mille lire, correrei pure per nulla. La storia di Andrea è la storia di un ragazzo coraggioso, che il male a 23 anni l’affronta prendendolo di petto, lasciandoci un frase che oggi, proprio in questi giorni, è un testamento di vita. Non pensavo fosse così meraviglioso fare una semplice passeggiata. La sua storia è una luce che non si è mai spenta. “Scomparsa la luce dopo il tramonto, in qull’oscurità io sogno”. È la strofa di una poesia del coreano Ko Un, non ce n’è una migliore per ricordare la storia di Andrea. Per tutti, resterà sempre Bei capelli.
Come fosse un capo indiano. E da Sioux si vestiva a Carnevale mentre al fratello toccava indossare la maschera di Zorro. Bei capelli, come fosse un nomignolo del leggendario “Balla con i lupi”, ma questo non è un film. E non è una leggenda perché Bei capelli correva davvero su un prato e l’avversario s’attaccava alla chioma. Una forza della natura selvaggia e devastante, come quella bestia brutta e cattiva chiamata leucemia linfoide acuta che se lo sarebbe portato via un giorno. Il 25 aprile del 1995, dopo undici mesi di corse e rincorse, di cure e trapianti, di preghiere e speranze. Un brutale sgambetto che arriva da dietro, l’inciampo fatale per chi corre troppo veloce con quella chioma, luminosa come solo la scia di una cometa che attraversa il cielo. Nel vento, come il titolo di un romanzo di Emiliano Gucci che racconta di un centometrista, ma questa è invece la storia di un ragazzo che andava a cento all’ora col pallone tra i piedi. Pure sotto la pioggia, come quel giorno – il 26 aprile del 1995, tre mesi dopo avrebbe compiuto 24 anni – quando l’amico fraterno Gianluca Vialli lo salutò inebetito dall’altare nella cattedrale di Salerno gremita e fuori in cinquemila piangevano increduli. Un mare di lacrime, sotto la pioggia. Un giorno di singhiozzi e sgomento. “Speriamo che in Paradiso ci sia una squadra di calcio e che tu possa continuare a essere felice correndo dietro a un pallone. Onore a te, fratello Andrea Fortunato”. Tanti anni sono passati da quel 1995 ma Bei capelli è ancora qui: il fratello di Andrea si chiama Candido e sarà il filo che aiuta – virgolette basse, in gergo i caporali – a legare i ricordi di una storia che non finirà mai.
«Gli anni sono passati, sono tanti e sono pochi: il ricordo certo è più intenso per noi familiari, per gli amici, per chi gli è stato accanto in quei mesi di battaglie quotidiane». Andrea Fortunato in una stanza sterile dell’ospedale di Perugia, Andrea ospitato a casa di Ravanelli, Andrea che per un mese, quando il male sembrava sconfitto, può concedersi lo stupore di una porta spalancata, oltre a una fugace visita ai compagni a Marassi per vedere Samp-Juventus. Quanto mai attuale quella frase – «non immaginavo quanto potesse essere meravigliosa anche una semplice passeggiata» – detta nell’ultima intervista, una sorta di testamento spirituale. Quando il male ti prende, devi semplicemente impedirgli che ti ammazzi. «Mio fratello era un ragazzo solare, battagliero. Fiero. Una lezione quanto mai attuale in questo lungo periodo che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, chiusi in casa per evitare il contagio eppure c’è chi si lamenta del disagio. Lui la malattia l’affrontava ogni giorno lottando e sorridendo, senza lamentarsi e imprecare. Questo è stato ed è un momento particolare che ha aiutato e aiuta a recuperare valori e sentimenti, ad assaporare la salute e la libertà, a riprendersi il proprio tempo, a riflettere». E a ricordare. Frammenti, sempre presenti.
Come quelle corse in auto, da Salerno a Perugia, nei mesi della malattia. «Andrea mi aveva regalato una Punto turbo. L’aveva avuta dalla Juve a metà prezzo, come la lancia Thema che s’era tenuto. Ogni fine settimana correvo da lui, ogni volta più veloce. In due ore e 45 minuti, un record che mi costò pure l’unica infrazione sulla patente. Ricordo quelle poche passeggiate sotto casa di Ravanelli, Andrea in tuta e con la mascherina; fuori per gustarsi un gelato e poi di nuovo a casa. Si guardava intorno felice e sorpreso, come se per la prima volta avesse visto un albero, incrociato uno sguardo».
Andrea se ne andò qualche giorno dopo, se ne andò nelle stesso giorno in cui Gianni Agnelli veniva operato per un’aneurisma a New York. Se ne andò ormai debole e debilitato, lui in un letto d’ospedale a Perugia e intorno a quel letto il dolore di papà Giuseppe cardiologo, di mamma Lucia bibliotecaria che ora non c’è più, del fratello Candido e della sorella Paola che si sottopose a parziale trapianto pur di salvargli la vita perchè il donatore compatibile si trovava in Canada e fu impossibile farlo arrivare in tempo. L’avversario l’aveva consumato eppure non vinto. L’ultimo giorno si tolse il respiratore. «Basta, non ne posso più. Voglio respirare da solo: io sono qui, che venga a prendermi senza maschere», disse al fratello che gli era accanto. Di Andrea e di quella sua indomita battaglia, restano segni indelebili. Il reparto di ematologia dell’ospedale Santa Maria della Misericordia a Perugia porta il suo nome. Restano vittorie costruite nel tempo. «La casa d’accoglienza per i familiari dei malati a Perugia intitolata a Chianelli è una residenza costruita grazie anche ai soldi di 34mila salernitani che in quell’estate all’Arechi parteciparono al torneo in suo ricordo». E resta pure qualche sconfitta, perché nel calcio come nella vita qualche volta pure si perde. «L’approvazione della legge sul passaporto ematico. Ci abbiamo provato, lottato e sperato, ma è rimasta sospesa. Sarebbe stata utile anche in questi giorni nei quali tipizzazioni e trasfusioni sono operazioni vitali», sottolinea Candido Fortunato.
Andrea aveva esordito in nazionale nel ’93, il suo viaggio era però cominciato appena undici anni prima. Nelle notti del Mundial in Spagna. Da largo San Giovanniello in pieno centro storico alla Juve, da Salerno a Torino. Tutto di corsa, undici anni come quegli undici mesi. Anni e mesi di lotte e rincorse. Fosse stato oggi, chissà magari sarebbe qui a raccontarci proprio lui con quel suo sorriso di una sfida vinta. «Ora i mezzi sono maggiori e migliori, le cure sono più efficaci grazie alla ricerca. La percentuale di guarigioni per fortuna è cresciuta». E ognuno dei guariti ha un po’ pure il volto di Andrea, sempre sorridente eppure con un’angolazione ombrosa. Di curiosità, più che di diffidenza. «Marchegiani e Taccola, due suoi ex compagni, mi hanno regalato una foto ai tempi del Pisa, loro tre al ristorante che brindano. È un po’ buffa ma descrive proprio Andrea». Andrea che di amici nel calcio ne aveva tanti, da Sasà Russo col quale da tredicenne condivise il primo viaggio a Como a Ravanelli, compagno alla Juve e nella nazionale militare, prima ancora di quella maggiore conquistata con Sacchi allenatore. Nella fredda e norvegese Kongsvinger nacque il sodalizio in bianconero tra Andrea e Fabrizio. Con un abbraccio. Come altri.
Perchè se oggi Andrea fosse stato qui avrebbe di sicuro condiviso pensieri e sentimenti con Gianluca Vialli. S’erano conosciuti una sera a Genova, da avversari. Uno del Genoa, l’altro della Sampdoria. Fu Carmine, il proprietario napoletano di una pizzeria, a metterli di fronte come fosse un derby tra i tavoli. “Mi guardò dalla testa ai piedi come per dire: tutto qua”: così Vialli ricordò la prima volta. La prima stretta di mano, il primo sorriso. Vialli che si rasò a zero e come lui Ravanelli e Di Livio, una goliardata per farlo sorridere quando la terapia gli aveva fatto perdere i suoi belli e lunghi capelli. «Avevano un rapporto solido, vero. Anche con Fabrizio, ma entrambi troppo testardi per stare insieme. Fabrizio era l’amico che ti viene in soccorso nel momento del bisogno. Con Vialli invece condividevano la visione della vita e del calcio. Le serate in discoteca, le ragazze, ma anche discorsi e consigli su come affrontare gli ostacoli, non solo quelli del campo. Stessa forza, identica visione: per loro il dribbling era affrontare di petto il nemico. Due ragazzi di personalità. Si erano squadrati all’inizio e poi nel tempo s’erano piaciuti».
Due ragazzi, di quelli che non pretendono né si accontentano. Dopo 17 mesi di terapie un anno fa Vialli annunciò di aver battuto il male, chissà in tutti quei mesi quante volte avrà pensato all’amico. «Andrea mi manca tanto – ricorda Candido – l’ultima volta me lo disse nella serata di addio al calcio di Ciro Ferrara. Poi l’ho rivisto due anni fa in una convention aziendale a Torino. Era provato ma fece un discorso da capitano, da leader, da uno che sta nella mischia. Disse: io sono malato ma tra voi che ascoltate so che ce ne sono tanti che sanno cosa significa affrontare il nemico. Lo avrei abbracciato». Come un film che ti ripassa davanti agli occhi. Sì, perché quando hai carattere e volontà, la sorte a volte ti accarezza come un tiraccio che va all’incrocio e ti cambia il viaggio. Il destino.
Come quella volta, ad Ascoli. Andrea ha 15 anni, da due gioca nel Como. Mille chilometri da casa, eppure ha preso il coraggio a due mani ed è andato: mamma e papà io voglio inseguire il mio sogno, io voglio fare il calciatore. Papà e mamma non sono proprio d’accordo, vogliono che Andrea continui negli studi. Prenderò quel diploma di ragioneria, promette Andrea. Manterrà la promessa. A Como alloggia nel convitto dei preti e si corre anche lì, perchè alle ore 22 in punto la luce si spegne e bisogna studiare. Bene anche se di fretta. Anche perché mamma Lucia ogni due settimane sale fino a Como per interrogarlo: basta un’insufficienza e si torna a casa. Andrea è un ragazzino esile, ha il sinistro affilato. Insieme a lui c’è Salvatore Russo, anche lui virgulto della Giovane Salerno di Alberto Massa. Mino Favini (“il signor Mino Favini”, così lo salutavano tutti i ragazzi delle giovanili lariane prima che passasse all’Atalanta) spedisce Gatti come osservatore a Salerno ricevendone una relazione minuziosa, dettagliata. “Russo è forte. Fortunato forse, ma deve farsi le ossa”. Alberto Massa insiste con Gatti, parla con Favini: “Sasà è più fragile, a Como lontano da casa non resisterebbe. Se ci fosse pure Andrea…”. Andrea viene acquistato insieme con Sasà, le resistenze familiari vinte dopo un incontro con il papà di Massa che è paziente del dottor Giuseppe, il papà di Andrea che si convince e lo lascia andare. È così che inizia il viaggio. Indimenticabile, come la prima notte in un albergo della città sulle rive del lago, la notte prima del provino decisivo. Lucia e Giuseppe Fortunato a stringersi nel letto matrimoniale per far posto anche a Russo: spaventato e smarrito, sul suo viso gli erano comparse strane macchie rosse. Presi entrambi, e poi.
Poi. Rispedito al mittente: è questo il marchio impresso con poche parole – “Gentili genitori, il Como svincola vostro figlio, cordali saluti” – in una lettera recapitata nella cassetta delle poste a via Arce numero 51, palazzo Pedretti-Stanzione, Salerno. Ad Andrea nessuno ha il coraggio di dirlo. Da due anni nelle giovanili del Como fa il centravanti ma non segna. Soprattutto non cresce. Gli altri diventano alti e grandi, contro non si passa. La mamma allora va a Como per fare i bagagli, l’estate sta arrivando e il figlio tanto non subdorerà: portiamo giù tutti i panni che li laviamo, gli dice con un sorriso materno. Armi e bagagli, però prima l’accompagna ad Ascoli dove è in programma un torneo Allievi. Negli ultimi spiccioli della finale contro l’Inter Fortunato esce dalla panchina e finalmente pesta il prato. Pochi minuti, come fosse un contentino, una specie di congedo indolore. Un risarcimento. Invece. Invece passano solo due minuti e il suo sinistro si infila proprio lì, all’incrocio. È un gol, un segno, un destino che cambia. Il tecnico Giorgio Rustignoli decide che su quel ragazzo bisogna puntarci, che forse il ds Alessandro Vitali e mister Massola non lo hanno compreso a fondo. No, non può fare il centravanti – intanto Russo da un pezzo è tornato a Salerno e ripartirà dalle giovanili del Napoli fino ad arrivare alla serie A con l’Ancona – bisogna cambiargli ruolo. Andrea allora passa ala sinistra, corre come un ossesso e poi quel sinistro è davvero fatato. Ha messo su qualche chilo e si vede. Tiene i contrasti, si butta nella mischia. Poi si fa male il terzino titolare, Massola che ha fiuto l’arretra: partendo da dietro Fortunato accelera, apre la manopola del gas, sfreccia e sorpassa. Nella Primavera lariana diventa inarrestabile: il 29 ottobre del 1989, a 18 anni, esordisce in serie B. E fortuna che Giorgio Vitali, è il fratello di Sandro e ha i baffi, glielo dica al mattino buttandolo giù dalle coperte: sveglia ragazzo, oggi giocherai titolare, devo parlarti. Glielo avesse detto prima di andare a dormire sarebbe stata una notte completamente in bianco. Una volta Di Livio, suo compagno alla Juve, raccontò come Andrea alle 24 in punto di ogni pre-gara si alzasse dal letto per andare a prepararsi un toast. Un modo per abbassare il livello d’adrenalina, come la camomilla bevuta insieme a Ravanelli per sedare le emozioni nelle notti delle vigilie. Notti di sogni, desideri che si avverano. A volte però bisogna incrociare la persona giusta.
Eugenio Bersellini. Il sergente di ferro, l’allenatore che nell’80 riportò lo scudetto all’Inter dopo dieci anni di attese: a Como l’hanno chiamato per rilanciarsi dopo la retrocessione in C. «Andrea ha avuto tanti allenatori e molti, a partire da Massa, hanno creduto in lui. Però credo che Bersellini sia stato l’allenatore giusto al momento giusto», ricorda Candido Fortunato che in passato è stato anche agente di calciatori. Andrea si porta a spasso chioma, palla e avversari. Corre e crossa, sprinta e pennella. Il Como ha il suo gioiello, c’è la fila davanti la vetrina. Si schiudono le porte dell’under 21, si spalancano quelle della serie A. Il Genoa l’acquista per 4 miliardi di lire: è il Genoa di Branco e di Bagnoli, è la grande occasione. Però a volte bisogna superare diffidenze e maldicenze, non basta essere un campione. Poche presenze, poi la rincorsa pare interrompersi. “Non so se Bagnoli non credesse in me ma forse ho pagato quella nomea di arrogante, di testa calda, che qualcuno ha costruito su di me. Comunque devono mangiare sassi prima di scalzarmi”, confidò Andrea quando tornò a vestire il rossoblù, sei mesi dopo. Perché a ottobre, tre mesi dopo l’acquisto, il Genoa aveva deciso di mandarlo al Pisa. Il retroscena, postumo: nel corso di un allenamento Maddè, il vice di Bagnoli, se la prende pesantemente con Fortunato, frasi che risuonano come offese personali alle quali il calciatore replica con decisione. Maddè va da Bagnoli, Bagnoli va da Spinelli e Fortunato va via, in prestito. A farsi le ossa. Ma i suoi spigoli erano segnali di carattere, non bizze di ragazzino viziato, figlio di una famiglia benestante e perbene. «L’esperienza di Pisa è stata decisiva, formativa – ricorda il fratello – in quella squadra c’era gente come Simeone e Chamot, e poi un presidente che era come un secondo papà».
Romeo Anconetani, pittoresco padre-padrone nerazzurro. La moglie è di Salerno, un cognato è paziente del papà di Andrea. Una chiamata, un incontro a casa, e il passaggio si realizza. «Quando ci telefonava era contentissimo. Ogni volta che andavano in ritiro a Montecatini Anconetani portava i giocatori in negozi di abbigliamento o di elettronica: comprate quello che volete, pago io. A Pisa c’era un clima familiare che ad Andrea servì per esprimersi al meglio». Abitava in un appartamento con Marchegiani, centrocampista laziale che ogni sera gli diceva, “ma che ci fai qui, tu sei da nazionale”. Lui cucinava e Andrea mangiava, lui rompeva oggetti e Andrea li aggiustava. Una coppia perfetta, tranne quando c’era da liberare il bagno.
Il bagno di gloria Bei capelli lo farà al termine della sua stagione al Genoa, quella del ritorno e del riscatto, grazie a un altro allenatore bravo eppure dimenticato troppo in fretta: Bruno Giorgi. Trentatrè presenze, tre gol e galeotto, un occhiolino del Trap. «Eravamo nella nostra casa in campagna a Fuorni, squilla il telefono fisso. Risponde mia mamma: vi mando una maglia bianconera, ma non è quella dell’Udinese… Ricordo ancora quelle parole». Era una domenica, era stata la domenica di Genoa-Juve e sfilando davanti alla panca bianconera Fortunato vide Trapattoni fargli un occhiolino. Più che un tic pare fosse un segnale del Trap, sì il Trap da Giussano rapito da quel giovane terzino di Salerno che ricordava un po’ Antonio Cabrini, ma “io voglio essere solo Fortunato, lasciate stare Cabrini” ripeteva spesso. Che poi il “bell’Antonio” era un suo idolo, lui che nel cuore aveva sempre avuto la Juventus. “In campo darei l’anima anche per mille lire”, disse quando si presentò a Torino insieme a Del Piero. Accanto c’era Boniperti che come da copione nei primi giorni di ritiro l’avrebbe portato a lezioni di Madama. “Sì, mi taglierò i capelli, ma solo dopo che Baggio avrà tagliato il codino”. Tosto, il ragazzo. Una scelta di cuore però, la Juve. Perché il Parma, molto prima della Juventus, era andata all’assalto da Spinelli che doveva far cassa, ottenendone il via libera. «Pastorello un giorno andò a casa sua, a Pegli. Gli offrì un triennale da 800 milioni di lire, però Andrea decise di andare alla Juve che al Genoa versò 12 miliardi di lire mentre Andrea firmò un contratto da 600 milioni l’anno». Testardo, ambizioso, generoso. Non c’è uno che non lo ricordi così. Non c’è nessuno che quel giorno non gli pronostichi un futuro da big, lui che aveva cominciato da bimbo nella pallanuoto e pure in acqua quel mancino a lasciare il segno, a predirne un futuro da pallanuotista come il fratello. Niente da fare però, il pallone un amore troppo grande. Dopo due mesi di bianconero – il 22 settembre del 1993, undici anni dopo quella partita a largo San Giovanniello nel pieno centro storico di Salerno – fa l’esordio in nazionale. L’Italia gioca in Estonia, i fari dello stadio di Tallin fanno poca luce eppure si vede benissimo quando Arrigo Sacchi piazza Andrea Fortunato a sinistra titolare dal 1’, posizione e ruolo fino ad allora di un certo Paolo Maldini. «Quando ci disse della convocazione fu un brivido lungo, papà e mamma composti al solito, io e mia sorella un po’ meno». Andrea accelera fin quasi la primavera, poi comincia a frenare, e con lui la Juve. Giorni complicati.
E poi arriva un giorno, uno di quelli affilati. È il 19 marzo del 1994, allo stadio Comunale una cinquantina di ultras irrompono all’allenamento, ce l’hanno con quasi tutti i bianconeri che le hanno prese pure dal Cagliari in Coppa Uefa. “Dateci Moeller e Fortunato, dateceli vivi”, urlano. Andrea se la vede brutta, lo giudicano uno smidollato, un indegno. Lo spingono, lui si rifugia sull’autobus. «Fu un giorno brutto. La gente non sapeva, come non sapevamo nulla noi. Noi eravamo solo preoccupati ma Andrea ci disse di star sereni, che lui avrebbe fatto vedere chi era». E invece Andrea è stanco, tormentato da una febbriciattola allarmante, non ha energie. Però tiene il segreto fino al 20 maggio quando esplode: “Sono sfinito, non ce la faccio”. Il dottor Agricola lo accompagna alle Molinette, il responso degli esami è impietoso. Leucemia linfoide acuta. «Più che su quel giorno vorrei soffermarmi su quello dell’aggressione subita da mio fratello. Gente che l’accusò e che l’offese senza farsi domande. Senza darsi un contegno. Senza conoscere la realtà. Succede ancora purtroppo ovunque, nel calcio e nella vita». Quegli ultras si sarebbero poi scusati quando la notizia della malattia fu resa pubblica. Il resto del viaggio di Andrea sono undici mesi di lotta e di battaglie. Di sfide, prima a Torino poi a Perugia. “Le sfide si possono anche perdere ma mai, nemmeno per un attimo, bisogna sentirsi sconfitti. Quando il male ti prende devi semplicemente impedirgli di ammazzarti. Non pensavo che fosse così meraviglioso fare anche una semplice passeggiata ”. Tre frasi, sono le sue ultime parole pubbliche prima di quella polmonite che gli abbassa le difese immunitarie e che se lo porterà via il 25 aprile del ‘95. Via, per sempre. Come rapito nel vento. Con una carezza, su quei bei capelli che non ci sono più.
Ce li aveva già lunghi quando cominciò a mettersi in mostra da ragazzino. Lui al sesto piano e l’amico Sergio Mitidieri al terzo di quel palazzo a Salerno: la prima porta che si apre, il rumore dal pianerottolo come secondo e definitivo segnale. E poi via, via di corsa. Tutti giù dopo pranzo a giocare nel cortile tra le palazzine dei ferrovieri, zona tra i Mutilati e via Arce. Le elementari alla Cesare Battisti, le medie al Ruggi di via Vernieri, in pieno centro. E nel centro storico, a largo San Giovanniello, i tornei nella squadra del quartiere, quella messa su da Matteo il giornalaio. Fu lì che Alberto Massa lo notò la prima volta, lui quel sinistro affilato e quella zazzera nera. Era la finale del torneo degli ultras della Salernitana, erano i giorni delle notti Mundial e di Paolo Rossi, era la squadra di Matteo il giornalaio – e c’erano Florindo, i fratelli Chianese, Sergio Ventura – contro quella dei Fedelissimi. È in quel giorno di metà estate del 1982 che cominciò il viaggio di “Bei capelli”. Quello che a Carnevale si vestiva da indiano Sioux mentre al fratello toccava fare Zorro.