Tre Olimpiadi in un anno. Nel 1968, in quale altro se no? In quelle invernali di Grenoble il quarantenne italiano Eugenio Monti corre lungo una canalina di ghiaccio dentro una specie di slitta che pare un mezzo siluro: si chiama bob e l’italiano, il “rosso volante”, conquista due medaglie d’oro. Un febbraio storico, specie perché un francese sulle piste innevate di casa si lancia in un’impresa ineguagliata, impresa compiuta in soli nove giorni: oro nella discesa libera, oro nel gigante e oro nello slalom speciale. E’ semplicemente l’Olimpiade di Jean Claude Killy, di chi altri se no?
Più volti, più colori e più bandiere, soprattutto più simboli renderanno indimenticabili quelle estive. Si disputano a ottobre, a Città del Messico. Il salto in lungo di Bob Beamon, la cavalletta di New York dopo una rincorsa atterra 8,90 metri più in là dello stacco: 55 centimetri più in là del precedente primato mentre il suo durerà 23 lunghi anni. Il salto triplo del russo Viktor Saneyev stampa il record del mondo in una giornata irripetibile: insieme all’italiano Giuseppe Gentile (poi bronzo) e al brasiliano Prudencio (poi argento) si superano a suon di primati, cinque in pochi minuti. Basta invece un attimo a Dick Fosbury per stupire il Mondo: scavalcando l’asticella a 2,24 metri supera antiche convenzioni e convinzioni davanti a una platea stupita. Sorvola e sorpassa l’inimmaginabile saltando di schiena, guardando al cielo. E’ il fosbury, il gesto più rivoluzionario nella storia dell’atletica, come nella storia resteranno i pugni chiusi sul podio di Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo sui duecento metri. Una foto che non ha bisogno di essere rivista, per esser ricordata e celebrata: orgogliosi e trasandati, i calzini abbassati per denunciare la povertà della loro gente, il pugno alzato avvolto in un guanto nero per dire no al razzismo. Quel pugno sollevato sul podio durante l’inno per trentasette lunghi anni sarà soltanto un colossale, mortificante e doloroso pugno nello stomaco della storia e dello sport perché soltanto trentasette anni dopo verrà restituito onore ai due campioni, privati quel giorno delle medaglie ma non della dignità, espulsi il 16 ottobre del ’68 dai Giochi per quella protesta. Quella fotografia, quale altra se no?
Quattro giorni prima s’era conclusa un’altra Olimpiade. Disputata sotto l’egida di un’altra bandiera. Non quella bianca con cinque cerchi colorati del Cio ma un semplice triangolo, con due strisce blu, una bianca, un’àncora e il numero 14. Colori, disegno e numero inusuali racchiusi in una sigla, GBLA che sta per Great Bitter Lake Association. “Grande Lago Amaro”: l’associazione costituita nell’ottobre del 1967 prende il nome dal domicilio forzato degli associati ma la storia comincia qualche mese prima. Il 5 giugno del 1967.
Immobili. Incastrati. Insabbiati. Uomini e navi. Gli uomini sono marinai, le navi sono mercantili che trasportano per lo più lana, petrolio, metalli, giocattoli, pellame, carne e grano. Sono quattordici, perché la quindicesima – batte bandiera Usa – è rimasta attardata, staccata, separata dal gruppo: due tedesche, due svedesi, quattro inglesi, due polacche, una statunitense, una cecoslovacca, una bulgara e una francese. Se ne stanno una accanto all’altra, una davanti all’altra: prua e poppa come fossero un’unica striscia. Sembra di stare in autostrada, e invece sono adagiate sopra un lembo d’acqua. Quel corridoio stretto e lungo è un istmo, è un canale artificiale, è un passaggio. E’ un’invenzione: è stato inaugurato cento anni prima, progettato dall’ingegnere trentino Luigi Negrelli, costruito e realizzato dai francesi. E’ lungo più di 160 chilometri e largo meno di 60 metri (sarà ampliato e allargato nel 2010), si chiama Canale di Suez e collega il Mediterraneo col Mar Rosso, consente alle navi il passaggio dall’Europa all’Oceano Indiano e viceversa senza dover circumnavigare l’Africa, senza passare dal Capo di Buona Speranza.
La speranza di attraversarlo presto – la media di navigazione al tempo è di quindici ore – gli equipaggi di quelle quattordici navi però la perderanno presto. Sopra il loro cielo volano i Mig e i Mirage, piovono missili e cadono bombe: quasi mille marinai spettatori spaventati e smarriti di una guerra che si combatte tra il deserto d’Egitto e le alture del Sinai. E’ la “Guerra dei Sei giorni”. Israele ne esce vincitore travolgente: Nasser, il presidente egiziano, per evitare di perdere il controllo cedendolo al nemico, decide di rendere impraticabile il canale. Dà quindi ordine di affondarvi battelli e chiatte, di gettare mine sui bassi fondali, persino un ponte viene abbattuto per diventarne diga invalicabile. Impossibile sbucare a Nord, inutile tornare indietro, ridiscendendo lungo il Canale: le quattordici navi restano bloccate, costrette alla fonda verso Nord, nella parte più larga di Suez, quella che tutti chiamano il “Grande lago amaro”. Gli armatori tengono al carico, le navi non possono essere abbandonate: si calcolano i tempi per la ripresa della navigazione ma per rendere il Canale di Suez di nuovo praticabile ci sarebbe bisogno di un ingente sforzo economico. L’Egitto non si muove, non si muovono le altre nazioni, nemmeno quelle che hanno navi e equipaggi come in ostaggio. Passa un mese, ne passa un secondo, ne trascorrono altri. Un crescendo senza un domani. «Il primo mese fu come una vacanza», raccontò anni dopo il capitano della nave polacca Jakarta, Miroslaw Proskurnicki. «Il secondo mese fu più difficile. Alla fine del terzo mese diventò tutto terribile».
E’ autunno quando interviene la Croce Rossa, le nazioni in conflitto autorizzano un ponte aereo tra Il Cairo e Atene di lì alla primavera che verrà. Una parte degli equipaggi potrà tornare a casa, però sulle imbarcazioni dovranno restare gli ufficiali e i marinai necessari alla manutenzione dei mercantili e alla salvaguardia del prezioso carico. Vengono stilati i turni di cambio. Quattordici navi, di nazionalità diverse: è il 1967, si è in piena Guerra Fredda e alla fonda del Grande Lago Amaro ci sono marinai del blocco Occidentale e del blocco Orientale. Però è gente di mare, abituata alla solidarietà, al cameratismo, all’assistenza, all’amicizia: quella flotta eterogena diventa così una sola flotta. La “Yellow Fleet”, la flotta gialla perché la polvere del deserto così la renderà. Gialla, ammantata di polvere. Sono tutti sulla stessa barca. Chi altri, se non i marinai?
E’ ottobre del 1967 quando nasce la GBLA, la Great Bitter Lake Association: il capitano Jim Starkey invita gli altri tredici comandanti e relativi ufficiali sulla Melampus. E’ qui che viene scritto lo statuto dell’associazione, qui vengono scritte le regole: si divide quello che si ha e quello che arriva dai ponti aerei. I generi di prima necessità, gli alimenti, i mezzi per la manutenzione delle imbarcazioni, il tempo da ingannare. Viene persino disegnata la bandiera: un triangolo con due strisce blu e una bianca, un’àncora e il numero 14, a Natale su una zattera sarà issato un albero di Natale. Con la carta e i pennelli vengono creati anche dei francobolli, servono per spedire le lettere ai familiari: diventeranno nel tempo preziosi e introvabili, autentici cimeli da collezione. Quella flotta diventa una nazione, in tutto e per tutto. Sulla nave svedese c’è una piscina, su quella bulgara un proiettore che diventa un cinema all’aperto, su una delle due tedesche vengono celebrate le messe e poi si bevono pinte e pinte di birra: magari un po’ brilla, ma è una comunità unita, in netto contrasto con il conflitto che l’ha relegata sul fondo di un canale, abbandonata da un mondo che corre, s’affanna e si dà battaglia in nome di una ideologia. Il grande lago amaro diventa come un’isola, un atollo lontano e dimenticato. Una nazione, una sorta di Onu.
Arriva il 1968, l’anno delle contestazioni, della rivoluzione culturale, dei movimenti operai e studenteschi. Cambia l’arte con Warhol, accomuna la musica dei Beatles, il cinema dà spazio allo spazio di Kubrick. E’ l’anno della “Primavera di Praga” e poi della restaurazione sanguinaria: i carri armati sovietici invadono la Cecoslovacchia mentre la guerra in Vietnam trova le prime feroci contestazioni interne. E’ l’anno dei proiettili che uccidono il pastore di colore Martin Luter King e poi anche il fratello di Kennedy, Robert Fitzgerald. E’ un anno che va di fretta, la Terra corre verso l’inesplorato spazio celeste: la sovietica Zond 5 orbita intorno alla Luna, gli Stati Uniti replicano lanciando tre astronauti a bordo di una navicella che si chiama Apollo 8 col compito di fotografarla. Qualche mese prima il Concorde ha fatto il suo primo volo di prova da Tolosa a New York superando alla velocità di Mach2 la barriera del suono mentre Usa, Unione Sovietica e Gran Bretagna hanno firmato il trattato dello “Spazio Esterno”: i corpi celesti sono patrimonio dell’Umanità, così almeno hanno convenuto. E’ un mondo che va di fretta, così tanto da dimenticarsi di quel gruppo di marinai. Incastrati e immobili sopra un lembo d’acqua, lungo il Canale di Suez. Dimenticati, abbandonati. Egitto e Israele non trovano l’accordo, gli armatori delle navi non sono disposti ad accollarsi l’ingente impegno economico che servirebbe per ripulire e bonificare il canale. C’è solo una rotazione negli equipaggi: chi torna a casa e chi sulle navi.
La “Yellow Fleet” decide allora di far sventolare la propria bandiera, di accendere i riflettori, di richiamare l’attenzione. L’associazione del Grande Lago Amaro decide di organizzare i Giochi Olimpici, quasi in contemporanea con quelli messicani d’ottobre. La gara di apertura il 26 settembre, due settimane prima che la torcia si accenda nel braciere dello stadio Olimpico di Città del Messico: i Giochi olimpici del Lago amaro cominciano con una regata velica. Quale altra gara, se no?
L’evento raggiunge almeno un effetto, l’attenzione dei media internazionali. Il Daily Express dal Regno Unito invia strisce e palloni di calcio, oltre ad un trofeo e un inviato che dà conto con un ampio reportage: foto, dichiarazioni, speranze. I marinai polacchi – secondo la ricostruzione di uno di quei marinai, Cath Senker nel libro “Stranded in the Six-Day War” – sono quelli che prendono con maggiore serietà l’impegno. Sono loro a produrre a coniare le medaglie con i metalli che hanno a bordo: le dipingono d’oro, d’argento e di bronzo. Sono loro a creare archi, frecce e bersagli, a realizzare i pesi per il sollevamento, sul ponte di prua della Jacarta disegnano quattro linee per la gara di corsa, mettono a disposizione i materassi per i saltatori. Quattordici le discipline, programma dettagliato con tanto di giuramento: canottaggio, pallanuoto, tuffi, vela, tennistavolo, corsa, sprint, salto in alto, sollevamento pesi, immersioni, tiro con l’arco, tiro a segno, nuoto e persino calcio. Il ponte della nave più grande, la “Port Invercargill”, diventa come uno stadio. Duecento i marinai impegnati nelle gare, tutti gli altri spettatori entusiasti, ogni gara chiusa con tanto di cerimonia e inno nazionale. Una vera e propria Olimpiade: gli svedesi primi nel salto in alto, ai francesi va la gara di vela, ai polacchi quella di canottaggio. L’inglese George Wharton è il pluri-medagliato mentre nella classifica generale prima a sorpresa chiuderà la Polonia – quatto ori, quattro argenti e cinque bronzi – davanti a Germania e terza l’Inghilterra che però si aggiudicherà la medaglia più ambita, quella del calcio, due anni dopo la vittoria dei Mondiali a Wembley. “Non avevamo nulla da soli, ma quello che avevamo lo abbiamo condiviso con tutti gli altri. Ogni uomo, di ogni nave, ha dato tutto quello che aveva e quelle gare ci aiutarono a conoscerci, a volerci bene, a rispettarci, a tenerci vivi”: così c’è scritto sul diario del capitano della nave polacca. Passeranno quasi altri sette anni, prima che il Canale di Suez venga finalmente bonificato, finalmente liberato, finalmente di nuovo navigabile.
Mentre l’uomo metteva piede sulla Luna quelle quattordici navi ancora lì, alla fonda, in quel lago amaro. Nel tempo si sarebbero ridotti gli equipaggi, gli ultimi a lasciare quelli tedeschi, la manutenzione e la sorveglianza affidata a un rimorchiatore norvegese. Il canale al termine di un’altra guerra quella – quella del Kippur – sarà ripulito dai rottami, dalla sabbia, dalle mine, persino da oltre un milione di bottiglie di birra. Tante ne avevano consumate gli equipaggi di quelle quattordici navi. Dodici finiranno la corsa lì, ormai inservibili, rimorchiate e poi rottamate. Tremila marinai legheranno per sempre i loro nomi e la loro vita a quegli otto anni, dal giugno del ’67 al maggio del ’75, tra avvicendamenti e cambi di turno: l’associazione è rimasta in vita e 50 anni dopo, nel 2017, i superstiti si sono incontrati a Liverpool per brindare e ricordare, ognuno con una foto, un francobollo, un ricordo. Cronache d’altri tempi, di una storia incredibile.
Due soli mercantili – ormai datati, perché nel frattempo era già iniziata l’era dei cargo – riuscirono a tornare a casa, col proprio motore. Era maggio 1975, otto anni dopo la “Guerra dei Sei Giorni”: la Nordwind e la Munsterland vennero trionfalmente accolte da trentamila persone nel porto di Amburgo. Erano le due navi tedesche, quali altre se no?