La vela di Azzurra e la lite delle comari

L'affascinante sfida alla Coppa America del 1983: la storia di un'appassionante regata in un'Italia che cambiò 4 governi in un anno
Azzurra
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Azzurra. E’ così che si chiama. C’è il ferroviere che ha ottenuto l’aspettativa, il maestro di sci che ha salutato neve e allievi, il medico che ai pazienti ha detto: trovatevene un altro, ci vediamo tra un anno. C’è il surfista che sulla spiaggia ha lasciato la tavola da surf, lo studente d’ingegneria che s’è preso un anno sabbatico dall’Università, c’è il marinaio di Portofino e pure il cineoperatore di Roma. Poi c’è Cino Ricci, il baffo rosso della provincia romagnola gaudente: è lo skipper, il capitano magnetico e schietto, altro che figurina da capitan Findus. E poi c’è Mauro Pelaschier, finnista dalla barba e dalla chioma bionda: pare uscito dal set di Jesus Christ Superstar e invece fa il timoniere, lui magnifico olimpionico nel ’76 a Montreal. Nel pozzetto insieme a loro ci sono anche il tattico Nava, e poi Roberti e Scala: tre velisti di livello internazionale ma anche per loro è la prima volta. Nessuno ha esperienza di match-race, nessuno ha sfidato il mare per una brocca d’argento. Sono una squadra. Ventitrè uomini usciti da una selezione di ottanta, dodici a turno che a seconda delle scelte tattiche se ne stanno sopra uno scafo di dodici metri, compressi in una superficie velica di 150 metri quadri uno di fianco all’altro, guidati da una vela gonfiata dal vento, una vela che scende da un albero alto venticinque metri, tanti quanti un palazzo alto nove piani.

AZZURRA

Sono l’equipaggio di Azzurra, sono l’Italia che sta navigando verso la gloria. Non sono professionisti, per quell’impresa è stato stabilito solo un rimborso spese. I professionisti verranno dopo. Loro invece su quello scafo volano a pelo d’acqua, cavalcano il mare, assecondano i salti del vento. Solo per passione e sfida, per amore e gloria: cosa c’è di più evocativo e onirico? Sono regate ma sembrano come tornei medievali: volteggiano le rande, si gonfiano gli spinnaker, si danza, si fatica e si corre sulle onde. Combattono sotto il guidone di uno yacht club ma in fondo rappresentano un’intera nazione. Il meglio in termini di evoluzione velica e tecnologica. Navigano sotto le nuvole, accanto ai venti. Baciati dal sole, bagnati dalla pioggia. Due barche si sfidano sopra quelle acque, è come una contesa tra due cavalieri: no, non è previsto mica il pareggio. Uno finisce davanti e l’altro dietro. Chi esulta e chi mastica amaro, chi a cercare quella linea bianca sopra il blu, chi invece il riscatto.

Sono diventati la nuova Italia per cui tifare, un anno esatto dopo la vittoria del Mundial. Una nazione li segue con gli occhi, batte e trepida insieme al loro cuore: distanti sei ore di fuso orario, divisi dall’Oceano e dai Continenti, eppure pare di stare lì insieme a loro, nel mare di Newport come fosse lo stadio Sarrià. E’ un’altra estate indimenticabile. E’ l’estate del 1983. Regata dopo regata, i successi hanno cominciato a esaltare proprio tutti, altro che quei pochi velisti sparsi lungo lo Stivale. E’ un’euforia contagiosa. Spinnaker e bolina, albero e bompresso, randa e genoa. Staorzare, strambare, lascare, cazzare. Parole e verbi fino a quel giorno incomprensibili per sessanta milioni di italiani diventano invece le parole dell’estate. Più delle canzoni. Renato Zero spopola con la malinconica “Spiagge”, i Righeira inondano i lidi con “Vamos alla playa” mentre un altro duo coinvolge sulle note di “Sunshine reggae”. Gli amori e la spiaggia, la luce del sole e le notti di stelle. Tutto sa di mare. Come quello scafo azzurro e bianco che porta l’Italia dall’altra parte del mondo. Come Azzurra. C’è voglia di far squadra, il desiderio di sentirsi tricolore, la necessità di non pensare troppo. Si freme e ci si appassiona. Anche perché la vita economica, sociale e politica del Paese è avvolta dalla solita, tragica routine.

A Roma sta giurando Bettino Craxi, è il quarto governo nel giro di dieci mesi, il primo a guida socialista nella storia della Repubblica. La campanella gliela ha passata  nel fastoso “salone delle Galere” Amintore Fanfani, il professore di Economia tornato a Palazzo Chigi per la quinta volta in carriera ma soltanto perché il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli aveva chiesto di traghettare la nazione alle ennesime elezioni politiche. Come spesso, anche queste sono anticipate. Stavolta provocate dalla dolorosa e rovinosa caduta di un altro professore, il repubblicano Giovanni Spadolini. Il primo presidente del Consiglio non democristiano dal 1946, impallinato però dai franchi tiratori dello scudocrociato a luglio del 1982, dopo un anno di navigazione a vista e in piena trance Mundial, e poi definitivamente disarcionato alla vigilia di Natale dalla “lite delle comari”, lo scontro a calor bianco tra ministri il democristiano Beniamino Andreatta e il socialista Rino Formica. Una lite furibonda ha portato all’implosione del pentapartito. Ha prodotto un’altra crisi, un altro vuoto. Quattro governi in appena un anno. Trecentosessantacinque giorni logoranti. Come fossero uno soltanto. Come un incubo senza fine, senza risveglio. Senza lieto fine.

Da vent’anni c’è invece chi sogna un’altra alba, un altro giorno. Il lieto fine. Quel giorno: partecipare con un’imbarcazione italiana al trofeo velico più prestigioso del mondo. Regatare nella competizione internazionale velica più antica del pianeta: l’America’s Cup. La Coppa America. E’ solo una brocca d’argento ma suscita travolgenti passioni nell’animo di ogni velista. Da sempre. Dal lontano 1851. Da quando lo Schooner America attraversò l’Atlantico battendo platealmente gli inglesi a Cowes in una regata intorno all’isola di Wight, per giunta davanti agli occhi della regina Vittoria. Stupita e sorpresa anche lei dalla disfatta, più ancora da una risposta per nulla regale. “Maestà, ma qui non c’è un secondo”. Uno smacco. Che si perpetua da decenni. Da oltre un secolo. Perché da quel giorno del 1851 la “Coppa delle cento Ghinee” fa bella mostra nella sede del “New York Yacht Club” al quale fu donato perché venisse messo in palio in una “regata amichevole tra nazioni”: sempre difesa dall’assalto degli inglesi, degli australiani, dei francesi. Ventiquattro edizioni e la coppa è rimasta sempre lì, al New York Yacht Club, lì in America. Per gli italiani è lontana, irraggiungibile. Ci provano, ma niente. Come quella volta.

Newport, settembre del 1962: una foto in bianco e nero illumina i volti colorati di un pomeriggio marinaro. Sullo yacht del presidente degli Stati Uniti si riconoscono il profilo aquilino dell’avvocato Gianni Agnelli, del giovane presidente John Kennedy, del motore velistico italiano Giuseppe Croce e del progettista delle mitiche moto Guzzi, Giulio Carcano. E’ un pomeriggio di vela trascorso guardando Weatherly battere gli australiani di Gretel, è soprattutto il primo e segreto contatto tra l’America’s Cup e l’Italia. Seme che sboccerà nel tempo, con il tempo. Perchè il defender statunitense lascia intendere agli italiani come uno spettacolo modesto possa rovinare l’immagine della regata più famosa al mondo. No, niente da fare. Da quella spedizione del ‘62, ufficialmente trasvolata sull’Atlantico per il lancio di una nuova Fiat, l’Italia rientra solo con un bigliettino: ritenta, sarai più fortunata. E’ un seme che però germoglia. Lentamente, ma germoglia. Fino a fiorire alla fine dell’anno 1980, quando il progetto diventa realtà. Si muove persino Kissinger e il messaggio in bottiglia arriva sulle coste italiane. Sono quelle della Sardegna.

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L’Aga Khan, Cino Ricci e Gianni Agnelli

Gianni Agnelli coinvolge l’amico Karim Aga Khan, insieme danno vita a un consorzio: diciotto sponsor italiani s’impegnano per trecento milioni di lire ciascuno. Lo yacht club è quello della Costa Smeralda, l’angolo di Sardegna inventato dal principe ismaelita. Il nome Azzurra pare lo scelga Luca Cordero di Montezemolo, amministratore delegato di uno dei partner, la Cinzano. Tra gli altri ci sono Alitalia, Augusta, Pininfarina, San Pellegrino, Iveco. E’ un fil rouge costituito da amicizie e interessi economici, ma anche e soprattutto dalla passione per la vela, dalla voglia di sfida. Progettato dal romano Andrea Vallicelli, lo scafo in alluminio viene costruito a Pesaro, nei cantieri dell’ingegnere Mario Cobau. Costerà in tutto due miliardi. Al varo di quello scafo che un anno dopo, dopo novecento ore di allenamento in mare e di migliaia di prove e partenze, porterà per la prima volta l’Italia nelle acque dell’Atlantico a competere contro le imbarcazioni francesi, inglesi e australiane nella Luis Vuitton Cup – il challenge che designerà la sfidante di Liberty, la detentrice dell’America’s Cup – c’è anche Spadolini. Il presidente del Consiglio è preoccupato, logoro. Il volto pallido stona accanto a quello dell’abbronzato e sorridente Franco Carraro, il presidente del Coni. Figure e figuranti, tutti e tutte comunque scompaiono al cospetto di una signora di rara classe che avanza tra due ali di folla, in settemila sono arrivati per quel varo. Nel suo incedere la signora è accompagnata da sospiri e applausi. E’ bellissima e assai chic, è Begun Salimah, la moglie inglese dell’Aga Khan: è lei la madrina del varo. Tocca a lei lanciare la bottiglia di champagne verso la chiglia dello scafo. E’ stata realizzata con un vetro speciale, sottilissimo: dopo un passaggio di carrucole s’infrange alla prima contro la prua, facendo così tirare a tutti il fiato. Un bel respiro. Buon segno. L’avventura di Azzurra comincia quel giorno. Nasce sotto il segno del cancro. Sotto il segno di una buona stella.

Azzurra varo

E’ il 19 luglio del 1982 e l’Italia è ancora inebriata, come inebetita dal trionfo spagnolo. La vittoria del Mundial è stata un’impresa imprevista, conquistata da una nazionale denigrata e dismessa diventata invece spada e granito. La pioggia d’insulti e critiche dei tifosi, della stampa e dei politici si sono trasformate in una desolante e umiliante corsa: tutti a salire, a sgomitare per arrivare primi sul carro dei vincitori. Al solito. E al solito l’Italia è alle prese con una crisi politica che ha conseguenze nella vita reale degli italiani: economia e società sono in ginocchio. Con mille lire non si compra più nemmeno un litro di benzina, la ricerca di una soluzione al problema della “scala mobile” per mettere un freno all’inflazione galoppante ha creato una spaccatura tra i partiti di governo e opposizione, persino un solco invalicabile tra ministri democristiani e socialisti. Spadolini prova a scongiurare il quarto consecutivo scioglimento anticipato delle Camere. Ricevendola a palazzo Chigi prima della partenza verso Vigo, alla nazionale di Bearzot aveva detto: “Se vincerete il Mondiale, la memoria storica degli italiani del 1982 sarà molto più legata ai vostri nomi che non a quelli del governo Spadolini”. Profetico l’ex direttore de “Il Corriere della Sera, defenestrato dalla poltrona di via Solferino nel ‘72 da Giulia Crespi per far spazio ad Alberto Cavallari nel momento più difficile della vita del quotidiano milanese. Un momento difficile è quello che adesso vive il senatore Spadolini: mentre l’Italia proseguiva il suo viaggio Mundial, provava a rinsaldare le fila incontrando il governatore della Banca d’Italia Azeglio Ciampi, il presidente della Fiat Gianni Agnelli e l’onorevole Giulio Andreotti. Tentativi inutili. Il fuoco dei franchi tiratori democristiani lo farà cadere sulla classica buccia di banana: un decreto petrolifero, pochi giorni a Ferragosto. Dimissioni, governo a casa e poi di nuovo in sella subito dopo Ferragosto, adempiendo così, al solito e in pieno, ai consueti cerimoniosi e pomposi riti della prima Repubblica. Il presidente della Repubblica riceve i presidenti dei due rami del parlamento, al Quirinale colloquia con le corpose delegazioni dei mille partiti, affida l’incarico esplorativo, assegna l’incarico. Un’altra volta a Giovanni Spadolini, un’altra volta a guida della stessa identica coalizione pentapartitica: democristiani, socialisti, liberali, repubblicani, socialdemocratici. Un’altra volta con la stessa, identica, formazione di ministri. Tanto da essere ribattezzato come il “governo fotocopia”: al Tesoro siede sempre Andreatta, alle Finanze ci resta Formica. Saranno loro i protagonisti della “lite delle comari”, appena tre mesi dopo.

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Beniamino Andreatta e Rino Formica

Caratteri più diversi non ci potrebbero essere: trentino, economista, professore associato a Cambridge, uomo di rigore e di vulcanica flemma il primo; ruvido e sanguigno uomo di partito barese con una spiccata tendenza a non aver peli sulla lingua il secondo. Inevitabile, lo scontro fra questi due galli nel pollaio inizia quando Andreatta – per calcolata malizia o per uno sventurato anglicismo? – definisce “nazional-socialista” l’indirizzo del Psi che adombra l’ipotesi di tassare i Bot o di consolidare i titoli del debito pubblico. La replica di Formica è al veleno. “Se un professore che ha studiato a Cambridge e si è specializzato in India perde le staffe e usa un linguaggio da ballatoio, vuol dire che abbiamo una comare come Lord dello Scacchiere”. Lo scontro ha solide fondamenta. Politiche, sociali, economiche. Andreatta è stato il fautore della legge che ha dato autonomia alla Banca d’Italia svincolandola dal Tesoro, s’è battuto affinché fosse liberata dalle decisioni dei centri di spesa ministeriali, dai centri di potere che nulla hanno a che fare con un buon governo. Ha una visione lungimirante, certo non insegue voti e popolarità. Con i termini “socialista e nazionalista” prova a stanare i fautori della mano pubblica e delle partecipazioni statali, chi sospetta delle privatizzazioni e delle deregolamentazioni. Vuole mettere un freno al debito pubblico ma di fronte ha i socialisti e molti del suo partito che spingono invece in direzione opposta. In direzione velenosa, ostinata e contraria. Sentono il vento della ripresa economica, vogliono assecondarlo senza dar troppo peso alla spesa e ai conti pubblici. Del resto sono un partito in ascesa, non sarà un processo virtuoso ma aiuterà a prender voti. Il potere. Palazzo Chigi. La disputa in termini diventa sempre più violenta tenzone verbale. Il Popolo, quotidiano del partito scudocrociato, di Formica così scrive: “Un commercialista di Bari esperto in fallimenti e in bancarotta i cui propositi dissennati sono un insulto all’intelligenza”. Craxi decide di rompere, le mille correnti democristiane fanno il resto. E’ la fine del governo Spadolini, la vigilia del Natale ’82 riporta come un pacco dono il professor Fanfani a Palazzo Chigi. Altro giro, altra corsa. Durerà poco, pure questa: giusto il tempo di iniziare il 1983, di portare l’Italia a nuove elezioni. Il solito copione insomma, mentre nello sport l’Italia sta vivendo una rinascita clamorosa. Successi, conquiste, trionfi.

Uncini diventa campione del mondo di motociclismo mentre Giuseppe Saronni invece passa all’esterno, dentro il vento, pitturando l’ultima curva prima del rettilineo, prima dello sprint adrenalinico: è la famosa “fucilata di Goodwood”, è il nuovo campione del mondo di ciclismo su strada e Lemond e Kelly non capiranno mai come abbia fatto a piantarli, lì e così. Questione di gambe e di volontà, come quelle che nemmeno un mese dopo spingono Daniele Masala a Roma, primo sul traguardo di Piazza di Siena: sì, per la prima volta l’Italia ha anche un campione del mondo di pentathlon moderno. Un finale d’anno col botto, e con il botto riparte a gennaio il nuovo: l’arbitro Paolo Casarin rompe le consegne del silenzio attaccando società, giocatori e persino qualche collega. “L’integrità dei fischietti italiani? Non metto le mani sul fuoco per tutti”.  Nel fuoco, per un solo punto, dopo una battaglia di nervi e di muscoli: è così che Cantù supera Milano nella finale di Coppa Campioni di basket. Per l’ottava volta resta in Italia. E’ solo la premessa di un’altra storica conquista cestistica. A Nantes l’Italia di Sandro Gamba tre mesi dopo batte la Spagna, per la prima volta si laurea campione d’Europa: a vedere Charlie Caglieris slalomeggiare col pallone sul parquet sembra di rivedere Bergomi passare la sfera di cuoio a Coelho sul prato del Bernabeu, nella finale del Mundial. Corre pure il ragioniere brianzolo Alberto Cova che diventa campione del mondo sui diecimila metri e sfreccia ancora Pietro Mennea. Bronzo iridato a 32 anni e trascinatore della staffetta 4×100 che ai Mondiali di Helsinki strappa l’argento dietro gli Stati Uniti guidati allo strabiliante record del mondo da uno stratosferico Carl Lewis: è l’estate del 1983, è appena sbocciata la leggendaria carriera del “figlio del vento”.

E’ l’estate del 1983. Fila nel vento, Azzurra. Si fionda tra le acque di Newport, entra nel cuore degli italiani di notte. Fa sognare ed esultare chi non sa cosa siano bolina e randa. Lascia miglia marine e incubi rovinosi agli stupefatti rivali. Arrivano le vittorie, arriva pure il calore degli italo-americani a spingerla. A Newport si respira orgoglio, entusiasmo, senso di riscatto e rivincita rispetto a un lontano passato di emigranti ed emigrati. Si accalcano ai cancelli della base, con le loro bandiere. Tifano e sperano. Sì, sembra di stare un’altra volta al Sarrià, al Nou Camp, al Bernabeu. Esattamente un anno dopo. Azzurra con il procedere dei tre round robin si mostra all’altezza, mette nella scia i francesi di France III, gli australiani di Challenge e di Advance. Passa in semifinale. Imprevista, imprevedibile: è già una vittoria. E’ già leggenda.

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Nata per una sfida visionaria e ambiziosa, naviga spedita grazie al coraggio, all’energia, alla determinazione, all’affiatamento di quei marinai guidati da Ricci e Pelaschier. Un romagnolo e un veneto, e insieme a loro romani, liguri, lombardi, campani. Il ferroviere, il medico, lo studente universitario, il professore di educazione fisica, il surfista. Proprio come una storia romantica, proprio come una storia d’altri tempi. E’ la storia di una squadra. Di una vera nazionale. Quella barca sta diventando anche lei alfiere del made in Italy, quello che sta riprendendo vigore dopo la vittoria Mundial. Anche lei sinonimo di successo, il biglietto da visita per la traballante società italiana, appiedata da lotte politiche cruente e da una questione morale che imporrebbe scelte drastiche. Eppure la questione morale passa solo come l’inutile nenia di qualche vecchietto. E’ tempo di marchi, di etichette, di réclame. Armani, Versace, Valentino. Barilla, Buitoni, Grana Padano. Le aziende di moda e quelle alimentari fanno da apripista, conquistano fette internazionali di mercato.

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L’equipaggio di Azzurra ricevuto al Quirinale dal presidente della Repubblica Sandro Pertini

«Mi raccomando, non andiamo a fare la figura dei cioccolatini». Così Gianni Agnelli aveva salutato Cino Ricci prima della partenza di Azzurra verso l’avventura negli Stati Uniti. Varata sotto il governo Spadolini, ha cominciato i round-robin a Newport sotto quello di Fanfani e continua a stupire ora che sta giurando il governo Craxi. Al suo ritorno a fine agosto sarà accolta da migliaia di tifosi a Porto Cervo, poi omaggiata da Pertini al Quirinale. Nemmeno un anno: tre governi che affondano, una sola barca a volare sul mare. Capace di stupire il mondo, di dare credibilità e infondere orgoglio a una nazione di mare che di mare poco sapeva.  Tanti quanto in uno dei tanti governi tricolore: ventitrè uomini capaci invece di lavorare insieme alla perfezione, senza sbavature, senza attriti, con una sola testa. Prendere di petto la “Louis Vuitton Cup”, la competizione che decreta la sfidante degli americani per la conquista della Coppa America. Capace di farsi spazio tra gli sfidanti. Tre barche australiane: Australia II, Advance e Challenge Twelve. Una inglese, Victory ‘83, la canadese Canadae la francese France 3. In acqua dal 18 giugno del 1983: la storia di due mesi inebrianti. Ventiquattro regate su quarantanove chiuse davanti: superati due scafi australiani, umiliati i francesi, molto più avanti nei pronostici e con ben cinque partecipazioni alle spalle. Persino una volta la prua davanti ad Australia II, quella che vincerà la Vuitton Cup e poi capace di una vera impresa: battere dopo 132 anni la barca degli Stati Uniti strappando la Coppa America in una sfida appassionante contro Liberty dell’asso Dennis Conner. Azzurra avanti fino alla semifinale: ne uscirà a testa altissima dopo un’autentica battaglia contro gli inglesi della Victory per infilarsi direttamente nella storia. Azzurra, il nome del sogno italiano di andare sul mare, solo con la forza del vento. Prima del Moro di Venezia e di Luna Rossa, prima della tecnologia e dei miliardi, prima dei professionisti e dei marchi: Azzurra apre un mondo, segnerà un’epoca. Il ferroviere, il medico, lo studente universitario, il professore di educazione fisica, il surfista. Una storia romantica, proprio una storia d’altri tempi. Per questo il cuore degli italiani batterà sempre a quel nome. Così si chiamano molte neonate di quegli anni. Così si chiamerà per sempre la barca degli italiani. Azzurra.

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