Shaul Ladany, la marcia della memoria

Sopravvissuto alla Shoah, scampato all'eccidio di Monaco nel '72: la corsa del professore israeliano è la storia di una testimonianza senza tempo
Shaul Ladany
Facebook
Twitter
WhatsApp
Telegram

La memoria è tempo presente. Vincere non è salire sul podio. Vincere sarà mettersi al blocco di partenza e completare la gara. Una gara di marcia. E’ sofferenza fisica, è martirio psicologico. La marcia è l’apoteosi della disciplina forzata, le gambe e la mente vorrebbero andare, liberarsi e invece non si può: al primo accenno di corsa si va fuori, squalificati. A turno uno dei due piedi deve sempre mantenere il contatto con il terreno, tesa deve sempre andare la gamba che avanza. Tacco e punta, punta e tacco. Sincronizzati, come il tic-tac di un orologio. Dovrà dosare le energie, bilanciare l’andatura, controllare l’impulso. Passo dopo passo, chilometro dopo chilometro. Dovrà darsi, dovrà misurarsi, dovrà superarsi. Così, per cinquanta chilometri. “Sì, sono il primo, sono l’ultimo, sono l’unico”: se lo dice da ventotto anni e adesso che il giorno è finalmente arrivato se lo ripete prima di allinearsi sulla linea bianca. Addosso sente gli occhi di tutti. Spettatori e avversari, giornalisti e politici: tutti concentrano lo sguardo sui suoi gesti.

Eppure non è il favorito, il suo nome non figura nemmeno tra le possibili sorprese: non ci crede nemmeno la nazione per cui marcia, tanto che alle Olimpiadi ci è andato un’altra volta da solo. Da solo, come quattro anni prima, senza nemmeno un allenatore che gli dia supporto, conoscenze, ritmo: ventiquattresimo a Messico ’68 in cinque ore e spiccioli, ma anche allora la posizione finale non contava. Contava soltanto tagliare il traguardo. “Perché gli sportivi veri non amano partecipare a una competizione ma portarla a termine”: è questa la frase che si ripete da quando ha abbracciato la marcia, una marcia accompagnata da una frase ricorrente, sferzante. “E’ pazzo, gli ebrei non corrono”: la frase l’ascolta però quelle parole non l’hanno mai frenato, non l’hanno mai fermato. Mai. Passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, lui non si è mai fermato. Chi si ferma non vince, e chi vince non si arrende. Per questo si è ripresentato alla linea di partenza. Anche stavolta. A Monaco di Baviera, alle Olimpiadi del 1972, alla gara dei 50 km di marcia. Ha 37 anni, il fisico minuto e asciutto, inforca occhialini da professore dai quali si separa solo prima di mettersi a dormire. E’ un professore, ha la cattedra d’ingegneria e gestione industriale all’Università di Tel Aviv dopo la specializzazione conseguita alla Columbia University a New York, è sposato e ha una figlia: però adesso è solo un marciatore, e la benzina che carbura nel suo motore nessun altro la possiede. Marciare per lui è un esercizio di memoria, significa non rinunciare ad andare avanti. La sua vita è già un’infinita sequenza di chilometri che attraversando il ventesimo secolo ha lasciato un segno, a ogni passo. Il 3 settembre del 1972 è arrivato il momento di imprimerne un altro.

Ladany
Shaul Ladany in una marcia su strada

Un ebreo è sopravvissuto all’Olocausto, si è disegnato la stella di David sulla maglia di riscaldamento e vuole che la vedano tutti, a cominciare dai tedeschi, lì proprio sulla loro terra, una terra che ha conosciuto da bambino. Quell’ebreo si chiama Shaul Ladany. Non lo anima un sentimento di rivalsa, non ha una rivincita da prendersi, non ha gesti clamorosi da vibrare. Vuole dare solo un esempio: sopravvivere è un caso, rivivere è una scelta. Lui è un sopravvissuto che ha scelto di rivivere, di completare la propria marcia. Le tasche vuote, prive di ogni rivendicazione: sarebbero pesi che ne rallenterebbero il passo. Il cuore è gonfio, però. Sempre gonfio, pieno di amore e di orgoglio per tutti quelli come lui. Quelli che ancora ci sono, quelli che non ci sono più. Ogni giorno un berrettino sul capo e via, di tacco e di punta. Come un orologio. Sempre in marcia. Quell’ombra proiettata sull’asfalto, distante e spaventosa ma in movimento, è lì a ricordargli che è vivo. Ora deve dimostrarlo agli altri. Da tempo ha smesso di avere paura, di voltarsi, di pensare agli ostacoli superati. Punta solo al prossimo da affrontare, da oltrepassare, da mettersi alle spalle. E’ l’unico modo per restare aggrappato alla vita, perchè la vita si coniuga al tempo presente. E’ l’unico atleta ebreo sopravvissuto all’Olocausto – duecento campioni olimpici o mondiali sono morti nella Shoah, tra le sei milioni di vittime sessantamila gli sportivi di origine ebrea – è il primo e unico ebreo a marciare alle Olimpiadi in Germania ed è l’unico atleta della squadra israeliana superstite di quel genocidio, di quella spaventosa, terrificante, nefasta pagina di storia. La più nefasta pagina di storia dell’umanità.

Adesso che è su quella linea di partenza sull’asfalto, lì sulle strade di Monaco di Baviera, i ricordi si diluiscono in una nebbia che è soltanto sua. Intercetta solo alcuni dettagli. La fame, il freddo, la baracca, il labbro leporino e le urla di un ufficiale delle SS, il filo spinato, soprattutto la pianta di pomodori selvatici al di là di quel campo. Una pianta irraggiungibile come la libertà, una pianta i cui frutti marciranno, come le vite di quel campo: è il campo di Bergen Belsen, è il campo di concentramento dove centomila persone sono state uccise. Vite soppresse dall’odio razziale, dalla follia. Finite dalla fame, dal freddo, dagli stenti, dal gas. Ventimila prigionieri sovietici e poi in pochi mesi, prima che la Seconda Guerra finisse, ottantamila ebrei. E’ il campo di concentramento dove è morta Anna Frank insieme alla sorella Margot. E’ il campo dove è stato internato, dove è stato deportato insieme alla sua famiglia, dove ha resistito per sei mesi. Ci è arrivato dopo un viaggio che non ha scelto. Una fuga. Una fuga dagli orrori, dalla morte, dalle bombe.

Ladany
La foto di Shaul Ladany nel museo della Memoria a Bergen Belsen

Una fuga cominciata nella primavera del 1941. Venticinque chilometri, è questa la misura della sua prima marcia. I piedi congelati che affondano nella neve, i passi veloci che attraversano le macerie, gli occhi spaventati che cercano un rifugio mentre dal cielo sopra Belgrado piovono le bombe della Luftwaffe. Shaul è un bambino di cinque anni, è figlio di genitori di origine ebrea. Il papà si chiama Dionys ed è un commerciante in servizio attivo nell’esercito jugoslavo, la mamma Sofia Kassovitz è in casa quando una bomba centra in pieno l’edificio dove vivono. La Germania ha appena attaccato la Jugoslavia e la famiglia Ladany inizia a scappare tra le macerie e la morte, sparse ovunque per strada. Salva per un miracolo – al suono sinistro delle sirene s’era rifugiata in un sottoscala, il corpo della nonna a proteggere i tre nipotini – si incammina cercando un riparo fuori città. Scappano verso la campagna, i piedi nella neve affondano, congelano: venticinque chilometri senza fermarsi, senza voltarsi, senza capire perché. Il freddo, la fame, la paura: nascosti resistono quindici giorni, fin quando il tenente Ladany non li raggiunge. Ha trovato un carretto e due muli, caricano i nonni, riprendono la marcia. Scappano verso l’Ungheria, lì ci sono altri familiari a accoglierli, lì vi abitano ottocentomila ebrei al momento salvi perché l’Ungheria è pur sempre un’alleata di Hitler, lì il papà diventerà un membro attivo del movimento sionista guidato dal giornalista e politico Rudolf Kastner. E’ dura e difficile, però dura nel ghetto a Budapest quasi due anni, fin quando il governo magiaro non prova a uscire dall’alleanza. Scatta la repressione, feroce.

L’Ungheria viene invasa dalle truppe tedesche, ottocentomila ebrei saranno arrestati, deportati, trasportati nei campi di concentramento in Germania, lì dove  troveranno la morte. Come i nonni di Shaul ad Auschwitz, come altri suoi ventotto familiari. Col papà, la mamma, una sorella e una cugina adottata dai genitori, lui sale invece su un altro treno. E’ tra i 1684 ebrei ungheresi che viaggiano sul “treno di Kastner”: in cambio di diecimila dollari, oro e diamanti, Rudolf Kastner è riuscito ad ottenere dal vice del sanguinario Adolf Eichmann una sorta di salvacondotto. Quei 1684 ebrei – 273 sono bambini sotto gli otto anni – dovrebbero viaggiare verso la Svizzera, verso la salvezza. Invece la corsa del treno viene deviata, la motrice si ferma in Germania, dalle carrozze di quell’improvvisata “arca di Noè” vengono fatti scendere tutti i passeggeri. Saranno reclusi a Bergen Belsen, nel Nord-Ovest della Germania, vicino Hannover. Sei mesi di prigionia nel campo di concentramento: la fame, il freddo, le baracche, le camere a gas. La morte che finisce. Lo strazio di vite ridotte a scheletri, a fantasmi, che non finisce mai. La morte. Continua a volteggiare sinistra intorno a quel bambino. Lo insegue, lo inseguirà come un’ombra per tutta la vita. Anche davanti ai suoi occhi si compie un massacro, senza tregua, senza respiro: colpirà e colpirà ancora la morte nazista, fino all’ultimo vecchio, fino all’ultima mamma, fino all’ultimo bambino. L’odio antisemita brucia, inghiotte, scioglie, incenerisce. Fino alla fine, fino a sei milioni di persone. Vittime innocenti, le vite bruciate dall’Olocausto. I martiri della Shoah. Non solo i morti, perché poi ci sono le vite di altri milioni. Gli scampati, i sopravvissuti, i perseguitati. Gli esiliati. La morte del passato, delle abitudini, degli affetti, degli oggetti più cari, della lingua madre, dello status sociale. L’esilio cifra dell’identità ebraica, tanto quanto quella dello sterminio di un popolo.

E’ per quel popolo che marcia Shaul, è a quella nazione che vuole dedicare quel giorno. Il 3 settembre del 1972, a Monaco di Baviera. Ci è arrivato dopo un altro viaggio. Un’altra, ennesima, seconda vita. Prima che lo sparo esploda e dia il via alla cinquanta chilometri, gli scorrono davanti agli occhi gli ultimi suoi ventotto anni. Dalla prigionia di Bergen Belsen alla liberazione. Il nuovo viaggio verso Montreux, in Svizzera. Un anno e poi il ritorno a Belgrado. Una casa temporanea prima della nuova, agognata. La terra di Sion, la terra di Davide. E’ il 1948 quando il primo ministro Ben Gurion fonda Israele. Shaul ci arriva che ha dodici anni, continua a studiare fino a laurearsi prima in ingegneria meccanica, poi in economia aziendale. Ai diplomi di laurea somma i successi sportivi. Prima come maratoneta, poi come marciatore. Nel 1963 arriva il primo dei suoi ventotto titoli nazionali israeliani. Marcia però in un Paese senza pace. Da ufficiale d’artiglieria partecipa prima alla guerra del ’56 per il canale di Suez e poi a quella dei “Sei giorni” nel ’67 contro l’Egitto; nel ’68 si classifica ventiquattresimo nella marcia alle Olimpiadi del Messico e l’anno dopo vola negli Stati Uniti dove ottiene un dottorato di ricerche. Insegna alla Columbia, però non rinuncia alla marcia. Deve tenere duro, vuole arrivare alle Olimpiadi a Monaco di Baviera. Ci arriva. E’ l’unico componente della squadra d’atletica israeliana, è l’unico superstite dell’Olocausto che marcerà sull’asfalto tedesco, il primo a vivere un’emozione così.

Ladany
E’ il 3 settembre del 1972: Shaul Ladany sta per completare la sua gara: la marcia di 50 km. Arriverà diciannovesimo

E’ il 3 settembre del 1972. Vincere non è arrivare sul podio, vincere sarà partire allo start e tagliare il traguardo, cinquanta chilometri dopo: se lo ripete da giorni, mesi. Se lo ripete ancora, ancora una volta. Sarà dura, e lo sa. Ha trentasette anni, ha gli occhiali da professore, ha il fisico asciutto e ossuto: a gara finita avrà tempo per recuperare ciò che resta del suo corpo. Massaggerà i tendini, si coccolerà le cartilagini consunte. Dopo, però. Adesso è davanti alla marcia più importante della sua vita. Non deve pensare a nulla, deve solo marciare, non sarà da solo: la sua ombra proiettata sull’asfalto, distante e spaventosa ma in movimento, sarà lì a ricordargli che è vivo. Vivo e in marcia, ventotto anni dopo il lager. Si è allenato da solo, senza assistenza, senza allenatore eppure quattro mesi prima ha stabilito la migliore prestazione mondiale di marcia sulle 50 miglia. Quelli che adesso ha davanti sono cinquanta chilometri, ci sarebbe da distribuire meglio lo sforzo. E invece la voglia è così tanta che lo fa partire come un razzo. Troppo veloce, troppo. L’amica incaricata del rifornimento personale resta bloccata nel traffico. E’ stremato, è sfinito ma resiste, tiene duro, non molla, arriva sul traguardo dopo quattro ore, ventiquattro minuti e otto secondi. Diciannovesimo sotto lo striscione, nella gara vinta da Kannenberg. Un tedesco.

Ha però macinato chilometri sulla terra che ha marchiato a nero il Novecento, quella terra che ha marchiato per sempre anche la sua esistenza. Ma lui al traguardo ci è arrivato. Dopo le bombe, i treni, la deportazione, il campo di concentramento, lo sterminio anche della sua famiglia. Ha completato la sua corsa, è salito sul suo podio. Ha dimostrato che è vivo, vivo e fiero come il suo popolo. La sua marcia è un esercizio della memoria, la scelta di non rinunciare ad andare avanti. Non ha mai smesso di marciare, neppure nei momenti più devastanti della sua vita. Non l’ha fatto nemmeno stavolta. Ha sempre trovato in quell’agonia – dolore, fatica e competizione – la ragione per tornare alla vita. Ha superato un’altra prova, un altro ostacolo. Non sa ancora che, poche ore dopo quel traguardo, dovrà correre ancora. Perché un’altra volta la morte proverà a sfidarlo, a sfiorarlo. Un’altra volta l’odio antisemita mieterà vittime israeliane, un’altra volta in Germania. Ventotto anni dopo lo sterminio. Un agguato. Vigliacco. Nel buio.

Per festeggiare la prova, la sera con una parte della delegazione israeliana va a vedere un musical, Il violinista sul tetto. Prima di rientrare in Connollystrasse 31, lì dove c’è il villaggio olimpico, il gruppo sorride in una foto. Per molti di loro è l’ultimo scatto, ventiquattro ore dopo saranno quasi tutti morti. Shaul dorme nell’unità 2, all’alba lo tira giù dal letto un compagno di camera. “Svegliati, c’è un attacco terroristico”. Crede sia uno scherzo. Alle 4.30 di mattina otto guerriglieri palestinesi sono invece entrati nelle unità 1 e 3 prendendo in ostaggio nove tra atleti, allenatori e tecnici della squadra israeliana. Altri due sono già stati freddati: Moshe Weinberg, allenatore di lotta a cui Shaul aveva prestato la sveglia e il sollevatore di pesi Yossef Romano. E’ con due tiratori della nazionale israeliana che in camera hanno le armi. Per questo, si scoprirà dopo, il gruppo di “Settembre Nero” non assalta l’unità due. Ladany si butta dalla finestra: cerca una via di fuga, sa di essere sotto il tiro dei mitra dei terroristi ma non ha altra scelta. Corre sul prato verso la palazzina che ospita la delegazione statunitense, sveglia l’allenatore di atletica Bowerman. Sarà proprio lui, il professore-marciatore, il sopravvissuto all’Olocausto, a dare l’allarme. Le forze di polizia tedesca sono impreparate; già blande, le misure di sicurezza erano state allentate perché l’Olimpiade era ormai quasi alla fine. La Germania non comunica all’esterno, nemmeno al villaggio tutti sanno dell’irruzione. La richiesta per ottenere la liberazione degli ostaggi viene scritta e gettata per strada: devono essere rilasciati 234 incarcerati in Israele oltre a Bader e a Meinhof, i due leader della Raf, la brigata terroristica tedesca. Shaul cerca di chiamare la moglie, ma tutte le linee telefoniche sono occupate. Ufficialmente è uno scomparso. Il suo nome nelle liste dei sopravvissuti non c’è. Gli ostaggi con le mani dietro la schiena e i terroristi partono su due elicotteri diretti all’aeroporto. Zamir, il capo del Mossad, freme senza che le autorità tedesche lo facciano intervenire: “Dopo la Shoah ancora una volta gli ebrei camminano legati sul suolo tedesco”.

Ladany
Uno dei terroristi del gruppo “Settembre nero” che provocherà una strage alle Olimpiadi di Monaco, uccidendo undici atleti ebrei

Shaul Ladany è l’unico che sa cosa significhi quell’immagine. E’ sopravvissuto ai treni, alle camere a gas, a Bergen-Belsen. Il resto della squadra ha conosciuto quella storia, lui l’ha vissuta, parte della sua famiglia è stata sterminata. L’attacco del gruppo “Settembre Nero” finirà in strage: tutti morti gli atleti in ostaggio, più cinque terroristi e un poliziotto tedesco. Un giornale tedesco titola a tutta pagina: “Ladany non è potuto sfuggire una seconda volta al suo destino”. Invece ci riesce ancora una volta, e ancora una volta fa sentire la sua voce. Spietata, metterà a nudo le falle nel sistema di sicurezza tedesco, nelle operazioni di salvataggio. “Perché all’aeroporto di Furstenfeldbruck c’erano solo cinque cecchini mentre i terroristi erano otto? Perché i tiratori non erano forniti di walkie-talkie e di un’ottica a infrarossi per mirare anche al buio?”. Domande agli atti dell’inchiesta secretata per vent’anni, mesi dopo invece piomberà implacabile la vendetta del Mossad.

Israele è di nuovo nel terrore, gli ebrei sono ancora una volta nel mirino. Ancora una volta sarà quel piccolo testardo marciatore a indicare la strada. Due mesi dopo quella strage Shaul Ladany torna a marciare, contro il volere di Israele che minaccia di squalificarlo: ha deciso di partecipare ai campionati del Mondo a Lugano in Svizzera, perché la vita deve continuare, perché gli ebrei non si devono fermare. Lui ha scelto la marcia dal primo giorno. Perché marciare è fatica. Perchè la fatica è medicina. Perché solo la fatica offre in cambio la libertà. Quasi seguisse in pieno un dettato di Tommaso D’Aquino secondo cui “essere liberi non significa semplicemente fare ciò che si desidera, ma soprattutto saper sopportare la fatica che sempre accompagna la ricerca di quella libertà”.

Libero, Shaul si sente libero. Sulla maglietta dipinge un’altra volta la stella di David e col pennarello scrive la parola Israele. Davanti ha un percorso di cento chilometri, al suo fianco marcia una guardia del corpo, armata. Stavolta però non conta solo partecipare, conterebbe anche vincere. E Shaul vince, diventa il campione del mondo sulla lunga distanza. Dopo l’alloro torna a insegnare negli Stati Uniti, quattro mesi dopo però rientra in Patria. Si arruola un’altra volta nell’esercito, partecipa alla guerra dello “Yom Kippur”, un’altra volta la morte torna a sfiorarlo, a inseguirlo. Niente. La sua ombra ancora lì, viva sull’asfalto. Ancorata al tempo presente. Continua a segnarne i passi.

Continua a insegnare, a marciare, a vivere. Vince altri titoli nazionali, scrive dodici libri, diventa direttore del dipartimento d’ingegneria all’Università Ben Gurion del Negev, viaggia per il mondo portando ovunque la sua testimonianza, quella del suo popolo. Sconfigge un linfoma alle gambe, supera due attacchi coronarici. Nella sua gambe immagazzina oltre quattrocentomila chilometri, primo ultrasettantenne a percorrere cento miglia in meno di un giorno, record fissato e tuttora imbattuto in 21 ore e 45 minuti. Dal Cio riceve la medaglia “Pierre De Coubertin” per “l’eccezionale servizio reso al movimento olimpico” e dalla vita ha in regalo tre nipoti. Nessuna che marci, però Saked del nonno una volta ha detto. “Nessuno dei miei amici ha avuto un nonno così”. Quanto al nonno, di sé s’è sempre limitato a osservare sorridendo, quasi schernendosi. “Quello che posso dire della mia vita? Solo che non c’è mai stato un momento di noia”. Niente, niente di più.

Shaul Ladany è ancora qui. Vivo. Sempre in marcia. Sempre accompagnato da quella frase, il mantra della sua vita. Della vita. “Perché puoi percorrere migliaia di chilometri ma certe esperienze non le puoi sudare via. Stanno lì, sono la tua ombra proiettata sull’asfalto, distante e spaventosa ma in movimento, a ricordarti che sei vivo”.  Sempre ancorato al tempo presente. Vive a Be‘ er Sheva, l’ultima città israeliana prima che i piedi incontrino la roccia, la montagna, la terra e la sabbia, prima che gli occhi incrocino l’incanto del Negev. Il deserto. Il deserto di spine diventato magnifico giardino di rose. Il simbolo di Israele, scelto dai fondatori della patria. Lì dove tra le gole lo spazio riprende il suo vero significato, lì dove il tempo si dilata. Lì dove da trentacinque anni Shaul Ladany festeggia il compleanno percorrendo tanti chilometri quante sono le candeline da spegnere. Il 4 aprile saranno 85 candeline, saranno 85 chilometri di marcia. Shaul si sta preparando, pronto a salire un’altra volta sul podio: non basta partecipare a una competizione, conta completarla. No, non esiste un nonno così. Così come il suo. Saked ha ragione. Come dimenticare? Come non ricordarlo? Sempre. Per sempre. La memoria è tempo presente.

© 2021 Riproduzione riservata
Facebook
Twitter
WhatsApp
Telegram

Correlati