La pioggia bagna, non cancella. Sono gocce che restano, sono frammenti del tempo. L’acqua scorre, come le emozioni. Che ritornano. E corrono. Ancora, dopo anni. Tornano e corrono. Si accavallano e si addensano insieme a domande inevase, a intrecci mai sciolti, a quesiti che fanno a cazzotti. Con la storia. Con la verità. Era fuorigioco o gioco pericoloso? Un maldestro malriuscito colpo di stato oppure solo il calcolato atto di una strategia della tensione? Le domande rimbalzano, ancora dopo anni. Scendono insieme alla pioggia, nella notte dell’Immacolata. Notti di anni fa.
Piove, quella notte. Tanto che la palla rimbalza, come solo un coniglio quando scappa sull’erba. Tokyo, 8 dicembre 1985, finale di Coppa Intercontinentale. In Italia sono le ore 4 del mattino, Juventus-Argentinos Junior va in diretta solo per i telespettatori della Lombardia. I diritti esclusivi se l’è assicurati Canale 5. Bettino Craxi, il ministro repubblicano Oscar Mammì e i pretori della Repubblica italiana ancora non sono arrivati a soccorrere Silvio Berlusconi, riscrivendo ad personam la regolamentazione radiotelevisiva italiana. La sfida andrà in onda in tutta Italia in differita, ben sedici ore dopo. Alle ore 20.30. Per sedici ore, il nulla. Il vuoto. Solo l’attesa. Non esiste internet, figurarsi i social. La radio vive anni di oblio. Per giunta in Rai hanno deciso di “oscurare” completamente l’evento. Come non ci fosse. Nessun inviato, nessun servizio, nessuna immagine. Copertura zero. Eppure una squadra italiana si gioca la Coppa Intercontinentale, da anni – da ben otto anni – è dominio esclusivo delle sudamericane, un po’ perché il calcio europeo snobba l’evento e un po’ perché in quegli anni da Brasile e Argentina i campioni non devono per forza emigrare, raccattando dollari e fortuna anche per soccorrere i bilanci dei propri club. E’ la Juventus di Giovanni Trapattoni, dell’inarrivabile capitano Gaetano Scirea, di Tacconi e Cabrini, di Mauro e Manfredonia. Delle chiome bionde, quelle di Bonini e Laudrup. Ma è soprattutto la Juventus di Platini, di Michel le roi. Il francese di Joeuf, il numero dieci genio e ironia che un giorno avrebbe fatto dire a Giovanni Agnelli, proprio nel giorno del suo settantesimo compleanno, per giunta festeggiato a Parigi: “I tre uomini più significativi della mia vita? Mio nonno, Kissinger e Michel Platini”.
La Juve quella notte – in Giappone è appena sera, in Italia non è ancora alba – sfida l’Argentinos Junior. Squadra tecnica e tignosa, tenace e tonica. Una squadra argentina, insomma. C’è il gigante Batista campione del mondo nel 1986 con Maradona, c’è Jorge Olguìn campione del mondo invece nel 1978. In avanti si muovono ballerini di tango. Si esaltano negli spazi stretti, ma sanno diventare pure cagnacci che non si tengono un tocco, un aggancio, un braccio, una gamba avversaria. Pure se davanti hanno i baffi arcigni di Favero o i muscoli del gigante-nasone, quelli di Sergio Brio. E poi con la diez c’è Borghi, l’arma segreta, il talento che Silvio Berlusconi porterà poi al Milan, talento triste e svaporato una volta rossonero e addirittura sbolognato in riva al lago, quello di Como.
Sotto la pioggia, sotto le luci artificiali. Si gioca a Tokyo, gara secca. Tutto per pure esigenze commerciali. In tribuna solo occhi a mandorla. In Giappone nel 1985 il calcio è quasi all’anno zero, non ci fossero i cartoni animati sarebbe uno sconosciuto. Arbitra il tedesco Roth, corre poco e fischia troppo. Il pallone è di quelli antichi. E’ di vero cuoio. Diventa sempre più pesante, ogni minuto che passa. Sotto l’acqua rimbalza, e poi scappa. Come solo un coniglio, quando rimbalza sull’erba.
Il primo tempo è vibrante, le occasioni fioccano da una parte e dall’altra: così si scriveva una volta, quando il cronista andava di fretta nel metter su carta il taccuino di biro. E assai di fretta vanno le due squadre, nella ripresa. La partita è bella, tanto che ancora adesso è considerata la più bella finale Intercontinentale, almeno dagli anni ’80 in avanti. In avanti intanto segnano. Finalmente. Due gol in pochi minuti dopo altri due annullati, uno per parte. In gol vanno prima gli argentini: Videla a centrocampo è troppo libero, ha il tempo di piroettare. D’istinto infila il pallone lì, proprio tra Brio e Scirea. Il pallonetto è teso, è chirurgico. E’ come un taglio secco in una ferita, e in quella crepa s’inserisce Ereros che si fa beffe di Tacconi, superato in uscita disperata. Aldo Serena, uno che ha cambiato tante maglie e che per un curioso scherzo del destino ha indossato entrambe quelle di Milano e Torino, è alto e grosso però ha il tempo di stoppare il pallone che Platini gli scodella, aprendo campo e difesa avversaria. L’anziano Olguin gli frana addosso mentre mette la palla su quel terreno bagnato. E’ fallo, è rigore. E’ Platini che va dal dischetto. Freddo e glaciale, il portiere da una parte mentre il pallone s’infila dall’altra. E’ uno a uno. E’ palla al centro.
Tre minuti ancora, ed ecco. Il tempo si ferma. Sta per essere immortalato, per sempre. Come un’opera d’arte. E’ un’opera d’arte. E’ il genio, è il talento, è la capacità di racchiudere tutto in un momento. Un gesto imprevedibile, come una follia. Come solo gli artisti sanno fare. Nasce da un banale schizzo, che poi è un calcio d’angolo come tanti. Maldestro. Batista colpisce di testa per spazzare l’area, Bonini di testa ricaccia il pallone in area. Al limite dell’area. In aria. E’ un fazzoletto minuscolo, è una zolla di cielo. Il pallone spiove addosso a Platini, come sputato all’improvviso dall’alto. E’ un pallone sordo, in attesa d’essere accordato. Michel lo stoppa di petto ma è in una morsa, Pavoni e Commisso gli stanno addosso. Il francese è rapido, più di un fulmine. Palleggia con il destro, il pallone passa sopra la testa di Pavoni che nemmeno se ne accorge. Il pallone non tocca terra, tocca invece la coscia sinistra di Platini che se l’aggiusta dandogli un colpetto per alzarlo e poi, come fosse una prolunga, in mezza rovesciata al volo di sinistro lo scaglia in diagonale. Lì, all’angolino basso. Il più lontano. E’ un tiro teso, è un colpo di sciabola.
E’ una meraviglia. No, è proprio una magia. Che lascia tutti a bocca aperta, persino la porta si rianima, accogliendolo generosa. Perchè un pallone così non lo vedrà mai più. E’ gol. Platini corre all’impazzata, i compagni l’inseguono. Lo braccano, l’abbracciano. Non s’accorgono. Roth è fermo lì, in piedi. Se ne sta a centro area, con il braccio alzato, come un vigile qualunque in mezzo ad un traffico qualunque. Il gol non è valido, dice. Come fosse una contravvenzione per sosta vietata. Giuseppe Albertini, l’asciutto commentatore su Canale 5, pronuncia solo una parola: “Fuorigioco”. Bettega, che gli sta accanto, lo corregge senza che sappia cosa dire. “No, è gioco pericoloso. Forse. No, non capisco”. Nessuno capisce e nessuno l’ha ancora capito, a distanza di trentacinque anni.
E’ proprio in quel momento che quel gesto diventa immortale, tanto che ancora ora sembra di averlo sotto gli occhi. Perché Platini sta per fare in modo che nessuno possa mai dimenticarlo. Prima guarda Roth incredulo, poi si stende di lato. Ironico, fa uno sbuffo leggero. Le guance si gonfiano. Gli occhi parlano, senza che le labbra si muovano. Si sdraia su quel prato bagnato, il braccio che si tiene la testa e la nuca. Un sorriso di meraviglia, stupore. Guarda Roth mentre tutti lo guardano, incantati. Poi si rialza e applaude, e non si capisce se il gesto sia diretto a se stesso oppure se stia prendendo per i fondelli l’arbitro tedesco. Le telecamere l’inquadrano, non lo mollano. Uno stadio intero è ai suoi piedi, mentre gli spettatori in mondovisione si stanno ancora chiedendo, e sono passati già due minuti: “Ma come è possibile? Ma perché? Ma è fuorigioco, o fallo? Ma come si fa ad annullare un gol così?”.
Più ancora del gol in sforbiciata, è quella l’immagine che resterà per sempre di quella notte. Notte che per la cronaca la Juventus farà poi sua. Sotto un’altra volta, riprende la partita con una rete di Laudrup, e la vince ai rigori. Quello decisivo di monsieur Platini. Le roi Michel. “Ci fosse stata la Var me l’avrebbero convalidato? Non so, c’era Brio in fuorigioco passivo. Però, che stupidata. Quella del guardalinee, quella di Brio e pure questa Var…”. Anni dopo, ospite di Fazio in tv, così commento quel non gol, il “non gol” più bello della storia del calcio. Segnato in una notte di pioggia, nella notte dell’Immacolata.

Pioveva pure un’altra notte. A Roma, è la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. Cinquanta anni fa. Junio Valerio Borghese, 64 anni, romano, soprannominato il “principe nero”, sta impartendo gli ordini dalla sede del Fronte Nazionale, in via Sant’Angela Merici. Nel comando operativo, a Monte Sacro, sono pronti i bracciali per gli uomini, pronti anche i contrassegni per le auto da usare subito dopo. Subito dopo il “Colpo di Stato”. Ha già pronto il discorso da leggere alla nazione dopo aver occupato la sede della Rai l’ex capo della Decima Mas, gli incursori di Marina che agirono contro gli alleati ma anche uomini spietati nei rastrellamenti di partigiani e civili nella Seconda Guerra Mondiale e per la Repubblica Sociale di Mussolini. “Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato, ha avuto luogo. La formula politica che ha portato l’Italia sull’orlo dello sfascio economico e morale ha cessato di esistere”. Parole che non pronuncerà mai. Che resteranno nel cassetto dei segreti. Per anni. Ancora oggi.
Anni duri e bui. Inizio anni ’70. In Grecia sono già arrivati i colonnelli, in Cile arriverà poi Pinochet. In Italia divampa la lotta operaia e contadina, incidenti e rivolte a Reggio Calabria, una bomba esplode su un treno – “La Freccia del Sud” – pieno di emigranti, uccidendone cinque. C’era già stato il Sessantotto, stava nascendo il terrorismo. Quello nero e quello rosso. Quasi un anno prima la strage di Piazza Fontana, a Milano. Qualche giorno prima di quel 7 dicembre 1970 invece, l’approvazione della legge sul divorzio. Il centrosinistra – il Pci è fuori ma il Psi è dentro – è realtà invisa a molti, primi fra tutti gli americani anche perché si è in piena Guerra Fredda. E’ anche da un ginepraio di servizi segreti deviati, depistaggi, intrecci tra la mafia, la ‘ndrangheta e personaggi politici, che nasce quella notte. Il piano del golpe – il “Golpe Borghese” verrà soprannominato – di quella notte di dicembre prevede l’occupazione alcuni ministeri chiave come gli Interni e la Difesa e la sede della Rai in via Teulada, ma anche il rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e l’uccisione del capo della Polizia, Angelo Vicari.
L’operazione scatta. Alle ore 20.30 un commando si introduce nell’armeria del Viminale impossessandosi di 200 mitra da distribuire ai rivoltosi, tutti istruiti e pronti. Poi, d’improvviso, il contrordine. Il colpo di Stato non viene portato a termine. Borghese dà l’ordine di sospendere l’operazione, i reparti tornano nelle caserme. Borghese fugge in Spagna, protetto dal regime fascista di Francisco Franco. Morirà qualche anno dopo, a Cadice: pare per un caffè avvelenato, diciamo una morte alla Sindona. Nei veleni e nelle nebbie resterà per sempre questo tentativo di “Colpo di stato”. A darne notizia, mesi dopo, nel marzo del ’73, è il quotidiano “Paese Sera”, che fa lo scoop: perchè l’Italia per mesi non aveva saputo nulla, di quella notte.
La “Notte della Repubblica”, così la definirà poi Sergio Zavoli nel corso di una splendida inchiesta televisiva a puntate per la Rai: il golpe Borghese fu «la cartina di tornasole del neofascismo in Italia». Per il senatore Tommaso Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo, in un passaggio dal libro “Segreto di Stato”: «Borghese non era isolato. Dal rapporto sul tentato golpe inviato nel 1974 dal Sid ai giudici di Roma, furono espunti molti nomi. Tra gli altri quelli di Licio Gelli, e di molti militari di alto grado, tra cui il generale Miceli». Il sostituto procuratore Claudio Vitalone: «L’azione avrebbe dovuto portare poi a giustificare un intervento di tipo autoritario». Depistaggi di settori deviati dei servizi segreti, contatti tra l’estrema destra e la mafia, connessioni con ambienti dell’intelligence statunitense e l’ambasciatore Usa. Anni di indagini, inchieste, processi. Nessun colpevole. Cinquanta anni sono passati e la verità ancora non si conosce.
Ancora domande che rimbalzano, che scappano come solo i conigli sul prato: fu un maldestro tentativo di colpo di stato o solo un modo per accentuare la strategia della tensione? Di quei protagonisti, in vita ne è rimasto solo uno. Ha 99 anni, vive in Sudafrica: si chiama Gianadelio Maletti, all’epoca era un generale dei servizi segreti. Pare però che lì la Var non sia prevista. Magari lì non piove, nemmeno all’Immacolata.