La conosce a memoria. Vieri, Burgnich, Facchetti, Bedin, Landini, Suarez, Jair, Mazzola, Boninsegna, Bertini, Corso. E’ la formazione dell’Inter. E’ come una filastrocca, e come fosse una poesia – serve ad allenare la memoria, anche così i bambini quegli anni imparano le poesie – la sta ripetendo mentre cammina per strada, a Milano. Cammina veloce, insieme alla sorella. Enrico Pizzamiglio ha dodici anni, tiene all’Inter e un giorno sogna di vestirla, quella maglia nerazzurra. E’ bravo con i piedi, e quell’anno – è il 1969 – gioca in una squadra dell’oratorio, zona Lorenteggio. Gioca da centrocampista, è bravo con il sinistro. E’ rapido e svelto. Enrico vorrebbe diventare come Sandro Mazzola, il suo idolo. A San Siro c’è stato sì, ma soltanto tre volte. L’ha accompagnato il papà che fa l’edicolante e non sempre può consentirsi di acquistare due biglietti. Lo stadio di domenica è quasi un miraggio per Enrico, però lui punta l’orizzonte. Lo fissa. Lo vede pieno di colori e di gente. Un giorno lo vivrà, dentro. Da protagonista, sul prato. In quello stadio. Con quella maglia addosso. Se lo ripete tutti i giorni. Anche quel pomeriggio.
Sta andando a sbrigare una commissione per il papà che non può lasciare l’edicola. Sta andando in banca, bisogna pagare due cambiali in scadenza. Bisogna fare in fretta. E’ venerdì pomeriggio, e gli sportelli della banca Nazionale dell’Agricoltura chiudono più tardi rispetto agli altri istituti di credito. Ma è giorno di mercato, è l’ultimo giorno lavorativo della settimana. Ci sarà gente, bisogna accelerare il passo. L’accompagna la sorella. Patrizia ha tre anni in più e fa la seconda al liceo scientifico. Sono appena due ragazzini, ma nel 1969 si cresce in fretta. Si dà una mano ai genitori, specie quelli che devono lavorare tutto il giorno per mandare avanti una famiglia. Papà e mamma, come milioni di altri papà e mamme, si sfiancano per assicurare ai figli un futuro migliore del proprio. Enrico sta andando in banca mentre continua a ripetere la formazione dell’Inter, formazione blasonata che cerca il riscatto dopo una stagione buia: la Fiorentina ha vinto lo scudetto sei mesi prima, il Milan invece la Coppa Campioni segnando quattro gol all’Ajax mentre Gigi Riva è rimasto al Cagliari che mica tanto a sorpresa è davanti a tutti in classifica, a dicembre di quell’anno.
E’ il 1969, in Italia. Il boom economico è alle spalle. E’ l’anno degli scioperi e dei cortei, operai e studenti in tutto il paese sfilano e protestano, riempiendo strade e piazze. Il futuro è incerto. Sta colorandosi di nero e rosso. I colori del sangue, della morte. Provocate dalle bombe. Dal 3 gennaio all’11 dicembre ne sono scoppiate ben 145. La media è una ogni tre giorni. Per 96 la responsabilità accertata è dell’estrema destra. Il 15 aprile una è deflagrata nell’ufficio del Rettore dell’Università di Padova. Il 25 aprile alla Fiera di Milano un ordigno ha provocato il ferimento di venti persone. In agosto dieci ordigni sono stati collocati sui treni, quelli che fanno su e giù per lo Stivale caricandosi di vite e speranze: otto sono esplosi, dodici i passeggeri colpiti. Vittime innocenti. A Pisa il 27 ottobre, durante una manifestazione contro i “colonnelli greci”, uno studente è morto, colpito da un lacrimogeno lanciato dalla polizia. Il 19 novembre a Milano, nel corso di una manifestazione per il “diritto alla casa”, due camionette della celere si sono scontrate, a bordo anche un ventiduenne poliziotto di origine irpina: Antonio Annarumma morirà perché gli fracassano – gli assassini non saranno mai trovati – il cranio con una spranga di ferro. Anno di morti e di scontri.
Un anno di tensioni sociali – a Battipaglia in primavera in migliaia hanno sfilato per il lavoro e dopo i disordini con le forze dell’ordine sull’asfalto sono rimasti i corpi di un giovanissimo tipografo e di una insegnante – e di tensioni politiche. A Palazzo Chigi siede da poco per la seconda volta Mariano Rumor, dopo l’addio dei socialisti Nenni e Di Martino la cui uscita ha fatto ruzzolare il suo primo governo. E’ un monocolore scudocrociato: ministro degli Esteri il professor Aldo Moro, all’Interno c’è Franco Restivo mentre il presidente della Repubblica è il socialdemocratico Giuseppe Saragat. La Cgil è movimento sindacale come nessuno in Europa, il Partito Comunista italiano è il partito comunista più votato d’Europa. Tensioni sociali e politiche avvolgono l’Italia, alle prese con “l’autunno caldo”. Sta per arrivare l’inverno. Sarà lungo, in Italia. Quindici interminabili anni.
E’ quasi inverno a Milano, il 12 dicembre del 1969. C’è la nebbia, la città sta preparandosi al Natale: le vetrine sono addobbate, le luci dai negozi sono abbaglianti, per strada il profumo delle caldarroste riscalda. Enrico e Patrizia arrivano a piazza Fontana, entrano in banca che sono passate da poco le ore 16. Dentro trovano altri clienti. Tanti, ce ne sono: agricoltori, allevatori di bestiame, venditori di sementi. Animano un mercato d’affari e contrattazioni. C’è chi contratta, e chi deve onorare cambiali. Come Enrico e Patrizia. Sono proprio allo sportello alle 16.37. Alle loro spalle, al centro del grande salone, c’è una grande scrivania. Sotto, nascosta dentro una ventiquattrore, c’è una cassetta metallica. Contiene sette chili di tritolo, la gelignite è attivata da un timer. Le lancette corrono, il tempo sta arrivando. La vita sta per finire, l’Italia sta per cambiare. Per sempre.
Un boato, il buio. Poi un silenzio. Lungo. Rotto dal lamento dei sopravvissuti, pianti e grida così forti che pare riaccendano la luce lì, dentro quel cratere di barbarie e di guerra. Il salone è polvere, la banca sono macerie. La carne è bruciata. Si respira a fatica. E quella poca aria ha l’odore della morte. Diciassette sono i corpi straziati, non sono nemmeno più corpi: sono orrendamente mutilati, sono sul pavimento, sono morti. Brandelli, pezzi staccati, sangue: ottantotto sono i feriti. C’è chi non ha più le gambe, chi non vede più le braccia. Urlano, chiedono aiuto. Urla e chiede aiuto anche Patrizia: è ferita al volto, le schegge l’hanno colpita ma non abbattuta. Cerca gli occhi di Enrico, lo trova per terra. E’ vivo ma è ferito, ha dolore alle gambe. Sanguina. Piange. Vuole la mamma. Lui ha solo dodici anni, si trova al centro di una scena che sta per diventare un buco enorme, un buco molto più grande di quel cratere lì, al centro del salone della banca, un buco che inghiottirà la verità. Per sempre.

E’ una strage. E’ la madre di tutte le stragi. Altre ce ne saranno. Ma quella è la prima, è quella che cambierà il Paese. Inaugura la stagione della “strategia della tensione”. Diciassette morti, ottantotto feriti: è un attacco al cuore dell’Italia, a duecento metri dal Duomo di Milano. Non ha precedenti nella breve storia repubblicana. La città è avvolta dalla paura, le sirene delle ambulanze lacerano i timpani. Trasportano i feriti in ospedale. Su una barella c’è pure Enrico. E mentre l’ambulanza corre verso il Policlinico, scoppiano altre bombe. A Roma, una nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro, altre due invece deflagrano sull’Altare della Patria. Sedici sono i feriti. Nessun ferito invece alla Banca Commerciale a Milano, ma solo perchè la bomba viene trovata inesplosa, eppure sarà inspiegabilmente fatta brillare in tutta fretta. D’urgenza viene operato Enrico: le ferite sono profonde, troppe schegge di metallo. Necrosi. I medici non possono fare molto. Devono amputargli l’arto sinistro, e tre dita del piede destro. Il giorno dopo un cronista de “Il Corriere della Sera” fa visita ai superstiti. Trova una signora che piange in corsia. E’ Angela, la nonna di Enrico, insieme a lei ci sono amici e familiari. Raccontano di quel bambino, di quel suo piede sinistro che non c’è più, di quel suo sogno di diventare nerazzurro, di diventare il nuovo Sandro Mazzola. La storia esce sulle colonne del quotidiano di via Solferino, con tanto di titolo a centro pagina. Lo leggono tutti quel pezzo, pure i giocatori dell’Inter che dovrebbe sfidare il Bari nel pomeriggio.

Perché in Italia si gioca, nonostante il lutto nazionale: la Federcalcio ha imposto solo il minuto di silenzio in segno di partecipazione a quella tragedia immane, a quella strage che ha fatto sprofondare una nazione nella paura, nel terrore, nell’angoscia. A Milano però c’è la nebbia, la partita non si gioca. Viene rinviata al lunedì, il giorno dei funerali: sarà Papa Paolo VI ad officiarli. Il presidente dell’Inter Ivanoe Fraizzoli è costernato, ma deve accettare. “Ci rincresce molto che si debba giocare domani, nella giornata in cui si svolgeranno i funerali. Purtroppo, abbiamo un regolamento da rispettare: giocare non toglie nulla ai sentimenti che ognuno di noi prova in questi momenti”. Il tecnico Heriberto Herrera impone ai giocatori di tornare ad Appiano Gentile. Però Sandro Mazzola e Giacinto Facchetti, le bandiere nerazzurre, si ribellano. “Noi andiamo in ospedale, andiamo dal piccolo Enrico”. Vanno a trovarlo, parlano con i genitori. Dopo il permesso dei medici, entrano nella sua stanza. Gli portano una maglia, provano a confortarlo. Enrico è un bambino di dodici anni che aveva un sogno. L’ha perso, è volato via come quel piede sinistro. E’ frastornato, silenzioso, assente. Mazzola gli stringe il braccio, e quando esce dalla stanza tutti vedono piangere Facchetti.
Piangono invece in centomila il giorno dopo a Milano, il giorno dei funerali. Il presidente della Repubblica assente mentre frettolosamente il presidente del Consiglio Rumor ha già colorato come anarchiche – non sarà così – le responsabilità di quella strage. “Ancora una volta il sangue di Abele, sparso a macchie enormi, offende questa mia diletta città. Offende le tradizioni civili e cristiane della nazione. A quest’ora grave e solenne meglio si addirebbe il silenzio”, dice nell’omelia Papa Paolo VI.

Il silenzio, la dignità, l’etica. Da quel giorno comincerà un’altra vita per Enrico, per la sorella Patrizia, per tutti gli altri feriti di quella strage, per i parenti delle vittime. Un percorso lungo. Silenzioso. Un calvario infinito senza nemmeno la soddisfazione di sapere chi ha messo quella bomba, e perché. Vite stravolte, straziate, spolpate, sventrate. Per sempre. Cinquantuno anni spesi alla ricerca di una normalità difficile da costruire e preservare. Cinquantuno anni vissuti nell’attesa di conoscere la verità. Vite offese, vilipese e derubate da uno Stato inadeguato, deviato, incapace di trovare i responsabili di quella strage. La “Strage di Stato”. La pista anarchica, poi quella nera. La bomba è attribuita agli anarchici, ma poi si rivelerà di origine neofascista. Tra ipotesi che cadono e altre che si fanno largo non si sa come e da dove, sarà un susseguirsi di inchieste, nuovi rinvii a giudizio, nuovi dibattimenti, nuove sentenze. Sempre diverse, come persone sempre diverse saranno gli imputati. Mai nella storia dell’Italia la giustizia si troverà davanti a una rete così fitta e impenetrabile: complicità, deviazioni, depistaggi, reticenze, omissis.
Cinquantuno anni in un cono d’ombra, cinquantuno anni di nomi. Freda, Valpreda, Ventura, Giannettini. La morte del ferroviere, l’anarchico Pinelli che vola da un balcone della Questura mentre viene interrogato. Un omicidio: considerata come la diciottesima vittima di quella strage, una lapide a Milano adesso così lo ricorda. Come per omicidio per mano di terroristi finirà anche la vita del commissario Calabresi, tre anni dopo: e da quel giorno altre inchieste, altri processi, altre verità negate, ribaltate, trafugate. Inspiegata resterà ad esempio la fine di un testimone, quella del tassista Rolandi che avrebbe accompagnato l’attentatore a Piazza Fontana, nemmeno fosse un turista. Il ruolo dell’estrema destra, della cellula Ordine Nuovo, la copertura di “pezzi” dello Stato: la verità sempre a un passo eppure quel traguardo non sarebbe mai stato superato. Cinquantuno anni sono passati. Passati alla ricerca della verità, spesso avvicinata da magistrati coraggiosi, come il giudice istruttore Guido Salvini. Nulla però, perché il tempo ha inesorabilmente mischiato, confuso e bruciato tutto. Come il sogno di Enrico, che voleva fare il calciatore e che invece, insieme alla sorella Patrizia, ha portato avanti negli anni, il lavoro del papà. Lì, in quell’edicola a Milano – zona Lorenteggio – da dove era partito il 12 dicembre del 1969 per andare a pagare due cambiali in banca. Il conto con la giustizia non gli è però mai stato saldato.
Perché dopo mezzo secolo d’infinite indagini e infiniti depistaggi, si può scrivere solo: “nessuno”. Nessun colpevole. Niente mandanti e niente autori materiali. Almeno per la giustizia. Così la Cassazione che nel 2005, dopo 36 anni, tre processi e tanti spezzoni, ha dovuto confermare che non poteva emettere un concreto giudizio di colpevolezza. Poteva però, dal punto di vista storico, affermare la responsabilità eversiva dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo e quella più specifica di Franco Freda, all’epoca procuratore legale a Padova e di Giovanni Ventura, libraio a Castelfranco Veneto. Entrambi condannati in primo grado e poi assolti in Appello per lo stesso reato, insieme a Guido Giannettini, agente del Sid ed esperto di ambienti militari. Tutti non più processabili perchè assolti in via definitiva. Nomi volati via, insieme alla verità, alla giustizia. Alle tenebre della violenza sarebbe poi seguito il buio della dimenticanza.

Vieri, Burgnich, Facchetti, Bedin, Landini, Suarez, Jair, Mazzola, Boninsegna, Bertini, Corso. Dopo cinquantuno anni Enrico Pizzamiglio è ancora lì, nell’edicola di via Lorenteggio 3. Dopo i primi due mesi in ospedale, dopo la visita dei campioni nerazzurri, dopo quella dell’onorevole Piccoli che gli consegna il premio “Clichè”, dopo quella di un pittore svizzero che gli porta un quadro, dopo le protesi e qualche trafiletto, tutti l’hanno dimenticato. Lui no, non ha dimenticato. Ricorda ancora a memoria quella formazione dell’Inter però no, i nomi di chi ha ammazzato quel sogno non li ha mai potuti nemmeno sussurrare. I responsabili persi nella nebbia, come la nebbia di quel giorno. Il 12 dicembre del 1969. Il giorno della strage di Piazza Fontana. Il giorno della “Strage di Stato”.