Parlano, scrivono, commentano tutti. Persino l’82enne Renzo Ulivieri che ancora governa la scuola allenatori italiani sotto l’egida della Figc, che dalla cattedra di Coverciano spara sentenze e che da presidente dell’associazione italiana allenatori ed ex consigliere federale spara ad alzo zero sul fresco ex ct della Nazionale, «non mi sono garbati né i tempi né i modi, Spalletti è un’ottima scelta». Anche il 75enne Francesco Ghirelli, da otto mesi ex presidente della Lega Pro perché silurato prima di Natale dai suoi presidenti non senza pressioni spirate dall’angolo di via Allegri: col fucile carico a pallettoni da mesi, avvezzo evidentemente ai venti e alle congiure di palazzo, dovrà aver subodorato qualcosa se il giorno prima delle dimissioni di Roberto Mancini avrebbe così detto in un’intervista pubblicata da “Il Corriere della Sera” in edicola proprio nel giorno delle dimissioni, auto-eleggendosi a salvatore della Patria o quantomeno a profeta (di sventure), come se lui piombasse da Marte. «Il calcio italiano o lo cambiamo o entro dieci anni la sua sorte sarà segnata e diventerà sport residuale, per anziani. Il giorno dopo Italia-Macedonia andai da Gravina e gli dissi che non ero venuto a parlare dell’eliminazione dal Mondiale, ma del fatto che entro tre mesi occorresse produrre un progetto concreto di sviluppo del calcio giovanile in Italia. Mirato a potenziare le infrastrutture e i centri sportivi, rifare gli stadi, lavorare sulla formazione, coinvolgendo università e scuole, eliminando le leggi capestro che favorivano gli affari per chi voleva far giocare giovani stranieri. Siamo stati il campionato più bello del mondo, condizionato da un tarlo: si reggeva sulle plusvalenze. Non abbiamo voluto cambiare, né riformare, così i nodi sono venuti al pettine. E abbiamo chiuso gli occhi. Ogni stagione perdiamo un miliardo e 300 milioni di euro, la Nazionale non è andata agli ultimi due Mondiali, i giovani calciatori sono sempre meno, strutture carenti, gli stadi obsoleti. Devo continuare?».
No, meglio non continuare (da che pulpito?) e magari invece soffermarsi giusto un istante sul titolo di un articolo – “La nuova Nazionale non può nascere dentro un tribunale” – pensiero sicuramente condivisibile se non fosse che da troppi anni ogni vicenda del calcio italiano, dai diritti tv alle plusvalenze, dalle ammissioni ai campionati alle vicende arbitrali, si decide nelle aule dei tribunali della giustizia sportiva, amministrativa, civile e penale. E, a proposito di stilettate, come non accorgersi che nel giorno dell’intervista di Mancini sulle sue ragioni, parole rilasciate dopo la lettura quasi totalitaria di articoli cartacei e televisivi nei quali la sua scelta appariva come tradimento al presidente federale Gabriele Gravina più che alla Nazionale e dovuta alle sirene arabe che avrebbero rapito il Mancio, soltanto qualche quotidiano (tra cui però il principale quotidiano sportivo) non avesse un’intervista, se non integrale quantomeno esaustiva. Rispondendo a una domanda, l’ex ct avrebbe invece risposto così su “Libero”. «Perché l’attacco della Gazzetta? Perché la Figc credo che abbia accordi di sponsorizzazione con La Gazzetta. Non so se qualcuno si è preso la briga di parlare col direttore. Sono rimasto sorpreso anch’io». Strano se ne sia accorto però solo ora, Mancini. Sono anni che la Figc ha leciti accordi commerciali di sponsorizzazione coi tre quotidiani sportivi nazionali e del resto le cronache degli ultimi anni hanno dimostrato come a volte la narrazione pare superare i confini, pur sconfinati, della più fervida immaginazione.
A proposito di risvegli dal letargo, il ministro dello Sport Andrea Abodi ha così manifestato a caldo il proprio pensiero sotto Ferragosto: «Sono dispiaciuto e perplesso, è una decisione che arriva a sorpresa a Ferragosto: tutto molto strano. Mi viene da pensare: le nomine dello staff tecnico azzurro annunciate recentemente erano state concordate con lui o no?». Strane le perplessità e specie la sorpresa: non solo è il ministro dello Sport che dopo un anno almeno un piccolo quadro del calcio italiano avrebbe dovuto farselo, non solo con Gravina ha condiviso nomine, scelte, battaglie di norme, candidature e principi: perché di Mancini Andrea Abodi è amico, compagno persino di calcetto nelle partite al circolo Aniene, il circolo del presidente del Coni Giovanni Malagò. Che è stranamente silente, almeno fino ad ora: magari sarà impegnato a guadagnare il terreno perduto nei lavori alle Olimpiadi di Cortina auto-blindandosi sulla poltrona del Coni almeno sino al 2026, magari sarà pure che è da poco diventato nonno e avrà giustamente anche altri affetti cui dedicarsi, certo è strano che il numero uno dello sport italiano, il presidente del Coni che ha poteri non solo di vigilanza sulle federazioni e dunque anche sulla Figc, non dica una parola sulla situazione della Nazionale italiana che sta facendo parlare il mondo intero e che rappresenta solo l’epilogo di una gestione annosa e lacunosa che pare somigli più al feudalesimo che al rinascimento, termine tanto decantato dal presidente federale che l’alterna a “svolta epocale, storica, rivoluzionaria”. «Andare avanti con Roberto Mancini è la scelta migliore per la nazionale. I posteri diranno se è la scelta migliore, io penso che lo sia. Bisogna vedere se Mancini ha stimoli per arrivare fino al 2026 e mettere in piedi un nuovo percorso, mi sembra sia stato molto chiaro e netto. Gravina ha raccontato un crono programma molto interessante. Il suo mandato federale ha avuto forte condivisione elettorale, ma al tempo stesso è indispensabile compattare la squadra proprio nei momenti di complessità, facendo anche degli sforzi, qualche passo indietro ed evitare conflittualità all’interno delle componenti come anche tra Lega A e Federazione perché, se ci sono interessi contrapposti, non c’è nessuna possibilità che le cose si sistemino, nessuna soluzione strutturale»: così il presidente Coni commentava nella primavera del 2022 la scelta di Gravina di continuare con Mancini dopo lo schiaffo preso dalla Macedonia. «Io dopo l’eliminazione me ne sarei anche andato, ma mi hanno chiesto di rimanere», ha rivelato l’ex ct al collega Currò su “La Repubblica”. Nella ricostruzione politica di quel momento, in molti sostengono come la conferma di Mancini voluta da Gravina (deciso a cambiare) fosse soprattutto per evitare di finire anche lui alla porta: le dimissioni del ct avrebbero messo spalle al muro Gravina e le pressioni perchè desse l’addio sarebbero state difficili da arginare. L’attuale ministro Lollobrigida, cognato della premier Meloni, un anno e mezzo fa aveva confidato come Fratelli d’Italia (non ancora al Governo) sarebbe andata all’attacco di Gravina. Risolutiva pare fosse stata la mediazione dell’attuale presidente della Regione Marche, Acquaroli. Anche lui di Fratelli d’Italia, in ottimi rapporti con Giorgia Meloni e presidente di una Regione per la quale Mancini fa da testimonial: così Mancini sarebbe rimasto, e così Gravina avrebbe proseguito nel mandato. Un altro anno e mezzo, poi lo sprofondo.
Adesso che il prato azzurro e dorato è diventato un tappeto di cocci affilati, adesso che Mancini ha persino detto, «si è mai visto un presidente federale che cambia lo staff di un ct? La verità è che da un po’ di tempo Gravina pensava cose opposte alle mie», il presidente del Coni non ha proprio nulla da dire? Nulla da aggiungere a una situazione che vede non solo la Nazionale maschile senza guida a venti giorni dalle partite di qualificazione all’Europeo ma anche quella femminile travolta da polemiche, lettere velenose e un vuoto in panchina dopo l’eliminazione al Mondiale in Nuova Zelanda senza, parole delle giocatrici, “un dirigente federale al seguito”? E, tralasciando il fatto che il campionato di serie B stia per partire con una bella x (e forse y) e che l’ultimo giudizio spetti al Consiglio di Stato, tralasciando il valore del calcio italiano rapportato a quello delle principali nazioni continentali, tralasciando le continue incursioni in un tema che non dovrebbe appartenere alla Figc (ovvero la questione dei fondi in Lega serie A e dei diritti tv) e tralasciando pure alcune vicende giudiziarie che stanno per avere sentenze (il Pergocrema-Macalli è tra queste) che potrebbero incidere sulle casse della Figc, verrebbe da (ri)leggere a voce alta a noi stessi e magari al presidente del Coni l’articolo 6 sulle funzioni del Consiglio Nazionale che presiede (“quale massimo organo rappresentativo dello sport italiano…coordina l’attività sportiva nazionale e armonizza le azioni delle federazioni sportive nazionali”) e che al comma f1 prescrive: “Delibera, su proposta della Giunta nazionale, il commissariamento delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive nazionali, in caso di gravi irregolarità nella gestione o di gravi violazioni nell’ordinamento sportivo da parte degli organi direttivi, ovvero in caso di constatata impossibilità di funzionamento dei medesimi o nel caso non siano garantiti il regolare avvio e svolgimento delle competizioni sportive nazionali”.
Certo, nella Giunta da un anno c’è anche il presidente della Figc, carica di presidente federale per la quale, come tutti gli altri presidenti federali, percepisce 36mila euro annui. Però il presidente della Figc Gabriele Gravina è anche il presidente del Club Italia, l’organismo cioè – si legge sul sito federale – “che riunisce le squadre nazionali e ne coordina la gestione delle attività. Il Club Italia è presieduto dal presidente federale, che detta le linee guida delle attività, approva i programmi tecnici, definisce l’organigramma. In queste funzioni è supportato dal vice presidente vicario della Figc e dal presidente della Lega Serie A e può avvalersi di un board, organo consultivo composto dalle eccellenze del calcio italiano che hanno dato lustro alla maglia azzurra e da rappresentanti istituzionali”. Detto che il vice-presidente vicario della Figc è Umberto Calcagno (presidente dell’Associazione italiana calciatori che dovrebbe svolgere le funzioni di sindacato a difesa dei propri, tutti, iscritti, chiedere agli iscritti conferme, anche agli juventini che firmarono la rinuncia agli stipendi) e che l’altro vice-presidente sia il consigliere di Lega D (al vertice da oltre un anno, disarcionato Cosimo Sibilia, è stato reissato Giancarlo Abete) Ortolano ma solo per rilevare come le (altre) componenti calcistiche italiane siano rappresentate nel consiglio federale esprimendo così i sensi della governance calcistica nazionale che si specchia fedelmente nei risultati, c’è da ricordare che Gabriele Gravina per il suo lavoro al Club Italia percepisca 240mila euro annui. La determinazione del compenso fu stabilita e decisa nel consiglio federale del 26 aprile 2021 presieduto da Gravina (quello famoso per le determinazioni anti Superlega), compenso che prima di allora non era previsto (“In ossequio al principio della trasparenza e a quello della corretta amministrazione cui si ispira l’agire della Federazione e dei suoi Settori, il Consiglio Federale ha deliberato di riconoscere un compenso predeterminato per l’attività e per la responsabilità derivante dal ricoprire determinati ruoli (presidente del Club Italia, presidente del Settore Giovanile e Scolastico, presidente del Settore Tecnico e presidente dell’AIA). L’argomento è stato preventivamente trattato anche con il CONI, che ha dato il suo benestare“: così dal sito Figc).
Quali sono i risultati raggiunti? Le sue condotte non sono esenti da rilievi? Qual è l’immagine che da anni il calcio italiano, e la sua Nazionale maggiore, sta dando all’interno dei confini nazionali e all’estero? È vero, non è solo questione di stipendi e di vil denaro.
Ma cosa bisogna pensare se un presidente federale si muove come fosse un presidente di club e in aggiunta facesse anche da direttore sportivo? Cosa pensare se una Federazione va a bussare alla porta di un club, per giunta guidato da un presidente col quale il rapporto è intermittente h24, pretendendo che non valga una clausola contrattuale per (“non concorrenza”), dando mandato all’ufficio legale (tra l’altro, pare che qualcuno dell’ufficio legale nel primo giorno di crash avesse caldeggiato l’ipotesi Davide Nicola sulla panca della nazionale maggiore dopo aver caldeggiato Carmine Gautieri per quella femminile) di trovare appigli per arrivare a strappare un allenatore bravo certo, ma non l’unico (bravo) sulla faccia della Terra, preoccupandosi magari più dell’immagine che della sostanza (vuoi mettere che prendi l’allenatore fresco scudettato per domare un uragano?), prendendosi in più una sonora legnata (gestionale, figurativa, in sintesi: emblematica) da un presidente come Aurelio De Laurentiis che non vedeva l’ora di sottolineare, con perfido e studiato commento, le condotte di un presidente (il presidente della Figc ma anche del Club Italia, come fosse un qualsiasi collega di club) col quale (insieme a Lotito) è in conflitto da tempo. «Se la scelta cade su Spalletti, grande allenatore con 25 anni di esperienza ad alto livello, offrendogli uno stipendio di 3 milioni netti per tre anni, non ci si può fermare di fronte all’accollo (pagare per conto dell’allenatore) di un milione lordo per anno per liberarlo dal suo vincolo contrattuale. Tutto ciò è incoerente. Per il Calcio Napoli tre milioni non sono certo molti, e per Aurelio De Laurentiis sono ancora meno. Ma la questione nel caso di specie non è di “vil denaro”, bensì di principio».
Già, la questione denaro è forse la legnata più dolce. Ben diverso questo affondo, sulle capacità e sugli strumenti di una Federazione e di chi la dirige. «Per quanto riguarda la Federazione ciò che mi appare più sorprendente è che si arrivi a poche settimane da due gare molto importanti della Nazionale subendo le dimissioni dell’allenatore Roberto Mancini. A questo proposito sono due le principali considerazioni da fare: non si sanno tenere i rapporti con i propri collaboratori inducendoli alle dimissioni; mancano strumenti giuridici idonei a trattenere gli stessi determinando il rispetto dei contratti sottoscritti anche attraverso la previsione di specifiche penali». E poi la chiusura – dilettantismo, deroghe e non regole – un vero colpo da ko tecnico. «È l’intero sistema del calcio italiano che deve spogliarsi del suo atteggiamento dilettantistico per affrontare le sfide guardando al rispetto delle regole delle imprese, delle società per azioni, del mercato. Ma fino a quando si consentirà che la “regola” sia la “deroga” il sistema calcio non si potrà evolvere e continueranno a esserci i casi ’Spalletti’ come continueranno a esprimersi “autorevoli” commentatori che non conoscono come vada gestita in modo sano un’impresa». Altro che sassolini. Autentiche bordate, alle quali la Figc e Gravina presidente del Club Italia ancora non hanno risposto, presi ora dalla affannosa rincorsa al nuovo allenatore della Nazionale (ascoltata oggi al Tg RaiUno, “nel segno della continuità tecnica e tattica”, i moduli sono l’ultima cosa, ma Spalletti predilige il 3-5-2?) dopo aver rivoluzionato appena 12 giorni fa l’intero staff (di comune accordo, almeno così fu scritto). Mancini s’è dimesso lasciando i suoi tre milioni netti all’anno, ma cosa ne sarà degli altri collaboratori se il nuovo ct dovesse chiederne altri, e quanto dovrà sborsare la Figc se i “collaboratori di Mancini” non si dimettessero e se il tecnico di Jesi non dovesse a breve firmare per qualche club? Domande che restano a galla, nel silenzio afoso di quest’agosto che ha semplicemente messo a nudo alla pluralità italica mancanze e carenze di governance, guida e gestione del calcio italiano che in realtà si susseguono pervicacemente da anni.
Il ministro Abodi non ha nulla da dire? Al presidente del Coni Malagò piace questa immagine e va bene questa gestione della federazione e del Club Italia? Domande in attesa di risposte, mentre sul fronte politico si registrano fibrillazioni filo-governative e desiderio d’intervento (il deputato Caiata s’è già lanciato avanti mentre attende il verdetto del Tar sul suo ingresso in consiglio federale, per ora stoppato). È legittimo chiedersi se la Figc (intanto i dispacci si premurano di render noto come abbia 90 milioni di utili) possa pagare, e permettersi il lusso di pagare, al Napoli il prezzo dello svincolo di Spalletti, alla stregua di un qualsiasi club? I revisori dei conti della federazione (il collegio è presieduto dal dottor Galea che nella precedente tornata elettorale era l’unico candidato) potrebbero dire qualcosa? È la condotta giusta e corretta di una federazione? Malagò (e Abodi) cosa pensano? Perché non pensare all’esempio dei revisori del Golf che hanno rilevato come i costi della Ryder Cup (pare 66,5 milioni per 4 giorni di gara) sono stati spalmati dentro i conti della Federazione italiana Golf anziché essere registrati nel bilancio del Comitato che organizza la manifestazione? Perché non ricordare di quanto già fatto dal Coni per i 10 milioni spesi dal Comitato Roma 2024? Sono o non sono denari pubblici? In attesa di risposte, tocca ricordare quanto detto da Gravina il 23 luglio scorso, a Rivisondoli, nel corso di un convegno organizzato da “L’Espresso” di proprietà del presidente della Salernitana Danilo Iervolino intitolato “Il calcio di domani”.
«Proviamo a ipotizzare uno scenario in cui io me ne vada via domani mattina: siamo alla scadenza di un mandato, perché fra un anno e qualche mese si vota. Attualmente la Figc è presente nella giunta del Coni, dove non entrava da tempo, è anche nel comitato esecutivo della Uefa, dove ricopro la carica di vicepresidente, ed è impegnata in una progettualità legata all’organizzazione di Euro 2032. Se mi dimettessi, farei un disastro sotto questo profilo. Quindi, mi chiedo: è un atto di responsabilità? Ha senso?». E, a proposito del caos in serie B (lo scorso anno toccò alla Lega Pro): «Il brand del calcio italiano è danneggiato da chi non accetta i verdetti». E ancora: «Dobbiamo far giocare e valorizzare i calciatori italiani, basta con decreti e scappatoie». Tre giorni giorno dopo la Figc equiparava i giocatori inglesi a quelli delle nazioni della Ue…
Di punti e puntini sospensivi ce ne sarebbero tanti. Eletto nel 2018 dopo il defenestramento e voltafaccia a Carlo Tavecchio, rieletto nel 2021 contravvenendo (pare) a un accordo con Cosimo Sibilia, nel (primo e secondo) programma elettorale di Gravina comparivano principalmente questi tre punti: 1) ridimensionamento dei format delle tre Leghe professioniste; 2) valorizzazione dei giovani italiani; 3) risanamento economico-patrimoniale del sistema professionistico. Qualcuno sa se almeno uno di questi tre punti, almeno una parte, è stato non approvato ma quantomeno discusso? Tra un anno e spiccioli si torna alle urne, la serie A e una parte politica provano a cercare un candidato valido, un nome spendibile. Lo troveranno in questo deserto, troveranno parole (nuove, vere, concrete) da aggiungere a una sceneggiatura che ha del gattopardesco? Chissà, intanto ma solo per ricordare cosa ne è stato di questi anni (su questo sito le puntate abbondano), si prova a fare un veloce, stringato, parziale, ricapitolo degli ultimi mesi.
La battaglia sul Decreto Crescita, la causa (persa) sull’indice di liquidità, le assunzioni e/o gli stage al Club Italia, le nomine (e i rientri, e i recuperi) nella giustizia sportiva, il calcio alle riforme e la deroga sulla multiproprietà, il perentorio diktat sulle riforme da approvare entro dicembre 2022, il dossier sulla candidatura a Euro 2032 dell’Italia definito a marzo «altamente qualificato, un dossier in grado di tenere testa e vincere la sfida sulla Turchia», diventato poi a luglio, in concomitanza con l’esclusione di un anno della Juve dalle competizioni europee decisa dalla Uefa di Ceferin, una candidatura congiunta per la quale, «siamo di fronte ad una svolta storica che ha come obiettivo la valorizzazione del calcio continentale, che esalta i valori di amicizia e cooperazione» insieme alla Turchia del “dittatore” Erdogan perché da sola l’Italia non avrebbe avuto una speranza su un miliardo di vincere la sfida contro un Paese che non rispetta forse i diritti civili ma dove le strutture e le infrastrutture sono moderne. E ancora: la grottesca vicenda del procuratore Aia Rosario D’Onofrio per la quale aveva chiesto (insieme ad Abodi e Malagò) massimo rigore e promesso l’accertamento delle responsabilità: dopo otto mesi sarebbe finito tutto in bolle di sapone, l’unico imputato e costretto alle dimissioni, il presidente Trentalange inquisito dal procuratore Chinè, assolto dalla giustizia sportiva e da poco rientrato nei ranghi con incarico a capo di una commissione. Tanto per restare al tema arbitrale, ecco la nomina fatta da presidente del Club Italia in favore di Marcello Nicchi (che intanto avrebbe stoppato l’idea di qualche contendente di candidarsi contro Pacifici alla presidenza Aia in attesa che alla prossima si candidi Rocchi) come capo delegazione della nazionale under 20 mentre il ruolo di capo delegazione della nazionale femminile sarebbe andato al direttore generale della Juventus Stefano Braghin. Incarico compatibile? Braghin è stato poi anche tra i grandi elettori nello scenario che a fine giugno ha troncato la ricandidatura di Ludovica Mantovani come presidente della Divisione femminile, mal vista dai vertici federali pare perché qualcuno avesse detto che avesse brigato con la Lega serie A maschile per finire sotto il suo ombrello, poltrona affidata alla vedova di Paolo Rossi un po’ come successo per la Lega Pro, che alla fine avrebbe eletto il candidato sponsorizzato da Gravina, e cioè il giornalista Marani che a Firenze ha poi accolto a braccia aperte l’ex dg della Lega B Bedin, sponsorizzato da Abodi e Gravina. E cosa dire delle fresche, recenti evoluzioni nella nazionale femminile, abbandonata al proprio destino in Nuova Zelanda, col ct Bertolini già sfiduciato prima della competizione, con l’estromissione di Sara Gama, con la lettera velenosa delle giocatrici, con le risposte affilate della Bertolini, con la replica della Mantovani e con le promesse d’intervento fatte dal presidente del Club Italia Gravina? Ci sarebbe poi tutto il capitolo legato alle plusvalenze, alle indagini, all’interrogatorio in una caserma della Guardia di Finanza, alle inchieste della Procura federale, alla presenza a Torino nella villa di Andrea Agnelli in una riunione con alcuni presidenti di serie A; e poi ancora al (ri)processo Juventus e a quegli altri due capitoli assorbiti come briciole. Ci sarebbe da aggiungere del caos in serie B e ci sarebbe da aggiungere ancora molto altro, compresa la rivoluzione negli staff delle nazionali che è parsa più una (mal riuscita) riedizione del Manuale Cencelli. Troppi capitoli di un libro che non sfigurerebbe certo dinanzi al Gattopardo di Tommasi di Lampedusa. Perché il calcio italiano questo è. Tutto cambia affinchè nulla cambi. Solo nomi, nomine, apparenze.
Sicuri che il problema siano le dimissioni di un ct e la ricerca del sostituto da parte di un presidente che forse pensa di essere, con tutto il rispetto, ancora al Castel di Sangro di quasi trent’anni fa?