Gravina interrogato nella caserma della Finanza. Il pallone tricolore rotola nel burrone in un’Italia di passanti distratti

Plusvalenze e conti Juventus: il presidente della Figc ascoltato a Roma dai magistrati della Procura della Repubblica di Torino. L'audizione a "casa" della Guardia di Finanza che dipende dal Ministero dell'Economia e Finanze il cui capo gabinetto è Chinè, il procuratore federale che indaga sulle plusvalenze. Intrecci irrisolti e crescenti imbarazzi: Governo e Coni in silenzio
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Passanti distratti, mentre il pallone rotola. Ore 14.39, laconico il lancio dell’agenzia Ansa. “Il presidente della Figc, Gabriele Gravina, è stato ascoltato come testimone da un magistrato della procura di Torino nell’ambito dell’inchiesta sui conti della Juventus. L’audizione si è svolta a Roma nella sede del nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza”. Così, venti minuti prima che il pallone tricolore tornasse a rotolare sui campi della A, così venti minuti prima che le attenzioni di giornalisti, opinionisti, sportivi e tifosi – insomma dell’Italia (quasi) tutta – tornassero a soffrire, gioire, sperare, litigare e dividersi e dipanarsi. Per un pallone, un gol, un rigore, un fuorigioco, un fischio. Prima che tutti tornassero a distrarsi, complici pure loro del disastro. Un ultimo soffio, prima che tutto torni in cassaforte: il presidente federale Gabriele Gravina – l’audizione della Procura torinese era nota (leggi qui)- ascoltato da un magistrato. Più che l’interrogatorio, a far notizia è anche (e assai) il luogo dove il presidente della federazione italiana gioco calcio è stato ascoltato: una caserma della Guardia di Finanza. Le Fiamme Gialle sono un organo di polizia che dipende direttamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze: il capo di gabinetto del Mef è Giuseppe Chinè che è pure – nominato proprio dal consiglio federale di Gravina lo scorso anno – capo della Procura federale. L’uomo che ieri – dopo un letargo di mesi, il procuratore ha avviato le indagini solo dopo le notizie di stampa emerse a ottobre come la segnalazione della Consob alla Covisoc – ha deferito undici società, tra cui cinque di serie A, per le cosiddette operazioni di plusvalenza. Ora, senza entrare nel merito della questione destinata a rompersi come una bolla di sapone, la domanda da porsi sarebbe: ma non si configura come un conflitto d’interessi (e intrecci) la posizione di Chinè? E ancora: come mai Gravina ha nominato proprio lui capo della Procura? Ascoltato come testimone, sarebbe interessante sapere poi cosa abbia risposto Gravina. Se non sapeva, sarebbe grave: il capo di una federazione all’oscuro. Se sapeva, sarebbe ancor più grave: il capo della federazione che sapeva ed ha taciuto, oppure coperto. Chissà. Intanto lui (e gli altri) vanno avanti, restano lì. Le istituzioni silenti, i tifosi distratti dal pallone che rotola, l’opinione pubblica esiste ancora? La tempesta è quasi passata, la mancata qualificazione dell’Italia derubricata ad un inciampo, a un incidente di percorso: quel lancio di agenzia a pochi minuti dalla ripresa l’ultima sofferenza, silenziata. Adesso sono tornate le partite del campionato…

«Non me ne vado. Devo difendere gli interessi del calcio italiano, della Nazionale. Dobbiamo capire quali sono le mancanze, cosa non è andato». Così quelle parole lunari pronunciate da Gravina dopo il ko con la Macedonia sono già un ricordo. Nove giorni fa. Pare un secolo. Tutto si consuma in fretta. Passanti distratti: tifosi (sempre meno) allo stadio e spettatori (sempre meno) davanti alla tv, da oggi avranno altro cui pensare. Il calcio italiano resta quello di Gravina, col suo carico d’imputazioni e intrecci cui nessuno (o quasi) bada. In un Paese normale non esiste la cultura delle dimissioni a prescindere, ma non può esistere nemmeno la cultura del “me ne frego”. In un Paese attento Gravina non potrebbe parlare come se fosse un passante, un estraneo che con questo smarrimento, con questo ennesimo flop del calcio azzurro non c’entra nulla. In un Paese normale il Governo, il Coni chiederebbero almeno conto. Se non c’entra nulla, allora cosa fa tra noi? Se non c’entra nulla, allora perché si è dato l’incarico (retribuito, 240mila euro l’anno) di presidente del Club Italia, cioè l’organismo che sovraintende, coordina, dirige e programma lo sviluppo e le attività delle nazionali? Abete se ne andò dopo l’eliminazione precoce ai Mondiali brasiliani, Tavecchio fu spinto fuori dopo il disastro del 2017 con la Svezia. Il primo a fare la giravolta proprio Gravina, che disse: «Mi dispiace, ma dopo questa sconfitta c’è bisogno di cambiare». Dopo 5 anni avrà cambiato idea, per carità. Non per questo deve seguire lo stesso percorso. Non è mai elegante chiedere le dimissioni di qualcuno.

Le dimissioni si offrono, non si esigono. Sono un atto spontaneo di dignità. Si mette a disposizione il mandato: è una forma (alta) di responsabilità e personalità. Invece Gravina galleggerà ancora col suo grigiore e il sostegno di buoni amici sulla propria poltrona, una delle tante che occupa (esecutivo Uefa per 150mila euro annui, Giunta Coni altri 45mila oltre ai 36mila di presidente federale e 240mila da presidente Club Italia), tutto immerso nelle lotte di potere con la Lega A, con gli arbitri, coi dirigenti di club che considera nemici. Si manterrà lì al suo posto grazie anche alla propaganda compiacente dei media che in qualità di media-partner della Federazione ricevono soldi, si terrà distribuendo cariche e poltrone, in prima fila i soliti ad applaudirlo fin quando non lo pugnaleranno. È presidente Figc dal 2018, i suoi due programmi elettorali sono rimasti tutti su carta. È per questo vuoto che dovrebbe sentire il bisogno di andarsene, non per i Mondiali. O almeno, dovrebbe sentire la responsabilità di mettersi in discussione. Nulla, invece. Andiamo avanti dice lui, a sostenerlo l’allegro carrozzone di opinionisti, ex calciatori, ex arbitri, ex allenatori, ex dirigenti che in tv o sui quotidiani magari ancor oggi faranno un ultimo accenno ai mali del calcio italiano ma poi ripartiranno col loro carico: un commento, un rigore, una vittoria, una dichiarazione, una litigata ma poi tutto passa. Tutto passa, pure la notizia che il presidente della Figc sia ascoltato nella caserma della Guardia di Finanza. Tutto passa, mentre sempre meno adolescenti giocano al pallone e ancor meno sono quelli che lo vedono allo stadio o in tv, ancor meno (chi c’era nel ’78, o nell’82 capirà) quelli che aspettano una partita della nazionale come fosse l’appuntamento con una fidanzata o fidanzato. La Nazionale adesso è solo un fastidio. Un puntino. Tra due mesi sarà di nuovo calciomercato, un’altra giostra rapirà pensieri e speranze. È questa l’Italia del pallone, quella che si accontenta di passanti distratti.

 

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