Il calcio di regime. E il regime del calcio. Mondi diversi e separati ma qualche volta coincidono, tradotti da un unico sostantivo: il potere. Il pallone deve rotolare, cosa importa se non c’è nessuno allo stadio. Calcio vuoto, finto. Senza spettatori, senza emozioni. Il regime del calcio, quello attuale: partite a porte chiuse in Europa altrimenti il castello tenuto in piedi da sponsor, scommesse e proventi tv si sgretolerebbe. Calcio di regime: si gioca, perchè si deve. A porte chiuse. Così ha stabilito un dittatore e la Fifa in silenzio: non per il rischio pandemia ma per il timore di una figuraccia, non certo l’immagine giusta per potere e propaganda. E’ successo. Appena otto mesi fa. Così pare, almeno. Perchè l’unica plastica prova disponibile è in un filmato di appena 14 secondi sfuggito alla censura del regime, postato da un diplomatico, addirittura l’ambasciatore svedese a Pyongyang, la capitale della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Quattordici secondi e venti calciatori – solo i due portieri nella propria area, tutti e ventidue hanno gli stessi lineamenti, identico è pure il taglio degli occhi, di diverso hanno solo il colore della maglia – che s’addensano minacciosamente a metà campo formando un cerchio nel cerchio, spezzato e sedato dal fischio dell’arbitro, il qatariota Abdulrahman Ibrahim Al Jassim. Urla, proteste, spintoni: sarebbe pure un’istigazione, sarebbe pure un assembramento pericoloso e per giunta vietato se solo si giocasse adesso. Per fortuna però nessuno che s’accenda sugli spalti. Spalti vuoti. Spalti di guerra. Spalti freddi, spalti da guerra fredda. Solo per questo lo stadio è completamente deserto. Le monumentali porte d’ingresso le ha sbarrate la paura, quella di perdere la partita e soprattutto la faccia. Il consenso e l’immagine valgono molto più dei tre punti e dello spettacolo. Anche questo è un virus che uccide. Almeno il calcio. Al 38° Parallelo e altrove.
“Nessun combattimento di fronte ai bambini! Oh, ma non ce sono oggi qui. Ah! Oggi qui non c’è proprio nessuno”: è il cinguettio ironico e malinconico a corredo del filmato postato su Twitter da Joachim Bergström, l’ambasciatore svedese, tra i settanta seduti nell’immensa tribuna centrale dello stadio Kim II Sung a Pyongyang, la capitale della Corea del Nord. 15 ottobre 2019, sfida tra Repubblica Popolare Democratica di Corea e la Repubblica di Corea, gara valida per le qualificazioni ai Mondiali in Qatar del 2022.
No fighting in front of the kids! Oh, but there are none here today.? Emotions run high at times as #DPRK meets #ROK in #FIFA game – but audience is sparse. pic.twitter.com/HKaoKH89sj
— Joachim Bergström (@jchmbrgstrm) October 15, 2019
La prima volta dopo 29 anni che Corea del Nord e Corea del Sud, in guerra dal 1950 – c’è solo una tregua in vigore dal ‘53 a reggere equilibri sottili e precari – si sfidano per una partita di calcio in territorio non neutrale: nel 2010 si giocò ma a Shangai perché la federcalcio della Corea del Nord aveva fatto sapere che mai e poi mai avrebbe subito l’onta di dover far suonare l’inno avversario nel proprio stadio. Insomma, ce ne sarebbe stato per renderla la sfida dell’anno, se non del decennio. Sarà, per sempre resterà, la partita invisibile.
Lo stadio, intitolato quando era ancora in vita a Kim II Sung, il dittatore che invase la Corea del Sud nel ‘50, è desolatamente vuoto. Ha 50mila posti a sedere però il maresciallo Kim Jong-un, terzogenito del dittatore e guida suprema della nazione, quello che quando studiava in Svizzera andò di nascosto e sotto falso nome al Meazza a vedere l’Inter, non ci ha voluto nessuno dentro. Innanzitutto il suo popolo, soggiogato e sottomesso. Però il pallone è rotondo, a volte prende strade imprevedibili, fa brutti scherzi. Traiettorie devastanti, peggio di quelle dei missili che utilizza come minacce. Il pallone conta. Ha il timore di fare una figuraccia il leader supremo, ha paura di una sconfitta clamorosa e disonorevole. E la propaganda non può permettersi inciampi e disastri, figurarsi sbracare davanti allo storico nemico per una partita di calcio.
«Mi aspettavo uno stadio al completo per una partita così storica ma sono rimasto deluso nel vedere che non c’erano tifosi sugli spalti. La libertà è di primaria importanza certo, però sarebbe ingenuo pensare che si possa cambiare il mondo da un minuto all’altro». Saranno le desolanti parole di Gianni Infantino, presidente della Fifa, uno dei pochi presenti alla partita invisibile. Settanta in tutto, a godersi il privilegio: i rappresentanti del regime nordcoreano, dodici diplomatici stranieri tra cui l’ambasciatore svedese, cinque giornalisti tutti nordcoreani, due membri appena della federazione sudcoreana e un fotografo, solo quello dell’Associated Press. Telecamere apparentemente in funzione ma niente diretta e nemmeno un frammento della partita da riversare in mondovisione. Certo, il video integrale era stato almeno promesso alla delegazione avversaria: dopo otto mesi però a Seul lo stanno ancora aspettando. Un mese prima era andata più o meno così anche per la partita giocata sempre a Pyongyang ma stavolta contro il Libano. Niente diretta tv per il timore di una sconfitta, immagini invece poi “liberate” visto il successo per 2-0. Per il derby tra le due Coree invece nessun racconto televisivo e neppure niente di scritto. Nemmeno una diretta testuale, quella di solito seguita dagli scommettitori di tutto il mondo. L’unico modo per avere aggiornamenti dell’incontro? Collegarsi al sito della Fifa o dell’Asian Football Confederation. Collegarsi, e accontentarsi. Play by play sempre fermo: oh, ma cosa si pretende? Si sta giocando la partita invisibile il 15 ottobre del 2019, a suo modo una giornata storica per il calcio mondiale tenuto in vita da diritti tv e sponsorizzazioni e invece nello stadio di Pyongyang è come giocare in un cortile.
Un’impresa per appassionati e curiosi averne un brandello di cronaca, e per i giocatori della Corea del Sud sarebbe stata davvero un’impresa varcare quella fatidica frontiera. Tra le due capitali al 38° Parallelo ci sono appena 195 chilometri eppure i nazionali allenati dal portoghese Paulo Bento hanno dovuto prendere un aereo, atterrare a Pechino, ottenere il visto d’ingresso dell’ambasciata nordcoreana in Cina per poi prendere un altro aereo alla volta di Pyongyang, senza peraltro smartphone e apparecchiature elettroniche, lasciate nella propria ambasciata a Pechino.
Zero spettatori, zero immagini, zero emozioni. Una partita invisibile. Come poteva finire se non zero a zero? Almeno questo, almeno il risultato, scritto a caratteri cubitali al 92’ sul display dello stadio. Un dispaccio d’oltrecortina da diciannovesimo secolo, consegnato alla storia del calcio mondiale insieme al resoconto più stringato di sempre. I nomi dei ventidue giocatori, i quattro ammoniti (due per parte), le cinque sostituzioni e non un’azione, non uno spunto di cronaca. Cronaca di regime. E pure il calcio è propaganda. Secondo la Reuters l’agenzia di stato nordcoreana avrebbe poi riportato brevemente il risultato alla nazione il giorno seguente descrivendolo come “un pareggio frutto di una serie di attacchi e contrattacchi”. Il giocatore più rappresentativo della Corea del Sud, l’attaccante del Tottenham Son Heung-min invece, una volta tornato in patria, l’avrebbe infiocchettata così la partita invisibile: «Peccato non averla vinta ma è stata talmente aggressiva che è stato quasi un miracolo essere tornati tutti interi, senza infortunati. I giocatori della Corea del Nord erano aggressivi e su di giri. Sono volati parecchi insulti». Della partita invisibile è almeno l’unica testimonianza provata: quel pericoloso assembramento a metà campo contenuto nel filmato di quattordici secondi twittato dall’ambasciatore svedese, improvvisato e imbarazzato cronista del calcio di regime. Politico e ideologico all’altezza del 38° Parallelo, cartonato e di plastica altrove. Calcio di regime e il regime del calcio: qualche volta percorrono la stessa strada. Quella dell’abbandono.