È la sedicesima edizione degli Europei di calcio. È una storia cominciata nel 1960, è una storia di successi e sconfitte, di trionfi e fallimenti. Pagine di calcio, qualcuna diventata una favola. Come il cucchiaio di Panenka che regalò alla Cecoslovacchia il successo del 1976, come la Grecia del catenaccio che nel 2004 frantumò tutti i pronostici. La favola più bella però resta un’altra e solo in un posto poteva compiersi. Perché se la Danimarca è il paese di Hans Christian Andersen e delle sue 156 dolcissime e a volte struggenti fiabe, questa è la numero 157. Anche questa, dolce e struggente.
È il 30 maggio del 1992. Mancano undici giorni alla partita inaugurale – la Svezia contro la Francia – della nona edizione degli Europei di calcio che si disputano in Svezia. I vicini di casa, i cugini danesi, le partite potranno solo guardarle in tv perché i biancorossi sono arrivati secondi nel girone di qualificazione, dietro la Jugoslavia di Savicevic che prima di arrivare al Milan dove già brilla la luce del croato Boban ha vinto la Coppa Campioni a Bari con la maglia della Crvena Zvezda. E in quella Stella Rossa e in nazionale c’è pure il macedone Pancev che all’Inter arriverà l’anno dopo ma in due anni non la butterà mai dentro. È la Jugoslavia di talenti purissimi come Prosinecki e Suker che con la Croazia nel ’98 sfioreranno la Coppa Rimet. È pure la Jugoslavia di Alain Boksic, airone di classe purissima e dalla resa incostante (l’anno dopo lo forgerà Zeman alla Lazio prima del passaggio alla Juve) altrimenti sarebbe diventato il numero uno. È la Jugoslavia forse più forte di sempre, pronta a prendersi l’Europeo in formato ridotto (otto squadre al via in due gironi, l’Italia di Vicini non c’è perché Rizzitelli ha fatto palo contro la Russia e per la prima volta dalla Seconda guerra la Germania è una soltanto) e invece resta a casa, perché a casa sua c’è la guerra e la confederazione si sta sciogliendo nel sangue. E così il 30 maggio il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva una risoluzione – la numero 757 – che esclude la Jugoslavia da tutte le competizioni. Allenamenti sospesi e viaggio di ritorno mesto; dentro chi sta già beatamente in vacanza e al pallone ci sta giocando su qualche spiaggia, in Spagna, in Grecia oppure in Italia. Il presidente dell’Uefa telefona al presidente della federazione calcistica danese che a sua volta telefona al ct della nazionale: vedi un po’ come fare, trova ventidue giocatori che si va in Svezia, gli dice perentorio. Al commissario tecnico però sembra invece uno scherzo. È notte eppure diventa subito giorno. No, non è uno scherzo.
È il 31 maggio e il ct della nazionale Richard Moeller Nielsen dà una ripassata all’elenco dei papabili prima di avviarsi ad un giro di telefonate. La prima però la fa al suo arredatore. Almeno così il ct raccontò la favola, quella degli esclusi che in un mese divennero primi. Perché la nazionale danese nacque proprio così: «Stavo arredando la cucina, mi piaceva mettere su i pezzi. Fui costretto a chiamare un amico architetto che completò l’arredamento mentre io ero in Svezia». Messe a posto le faccende di casa, gli tocca trovare ventidue giocatori sparsi per l’Europa che trovino in fretta un biglietto d’aereo e che indossino la maglia biancorossa a scacchi. Il primo della classe è un biondino, sarebbe il primo da telefonare, l’unica cartuccia arrotolata da portarsi nella manica, però il ct nemmeno gli squilla. Perché Michael Laudrup – dopo la Juve è passato al Barcellona di Cruyff ed in blaugrana ha appena alzato la Coppa Campioni nella finale di Wembley contro la Sampdoria di Vialli e Mancini – ha rotto col tecnico del quale non condivide la visione tattica, troppo difesa e contropiede sostiene il biondino che faceva impazzire e penare Boniperti e Agnelli. Michael Laudrup – memorabile la frase pronunciata da Michel Platini suo compagno alla Juve «Laudrup? Il più forte giocatore del mondo ma in allenamento» – ha un fratello che si chiama Brian. Ha meno talento, ma anche lui – il padre Finn è un ex nazionale, lo zio Ebbe Skovdhal è allenatore – gioca con discreti risultati (al Milan e alla Fiorentina non lasciò tracce) ed è il primo, dopo un’iniziale riluttanza, “mister ma non vorrei fare una figuraccia, ma come ci andiamo in Svezia se non ci siamo nemmeno allenati?”, ad accettare la convocazione. Moeller Nielsen ne mette in fila ventuno nella lista della spesa seduto in cucina, tra chi è a casa e chi è in vacanza. Nel pomeriggio – si ripete – farò la mia ultima telefonata. La più delicata.
Svezia e Danimarca sono separate da un canale, il canale di Øresund. Il ponte che collega le due nazioni è un capolavoro d’ingegneria e architettura costato tre miliardi di euro, è a basso impatto ambientale ed è uno spettacolo nella natura; è lungo 16 chilometri, ha un tratto sottomarino, ha il passaggio stradale e la linea ferroviaria, unisce Copenaghen a Malmö. Passare dalla Danimarca alla Svezia così adesso è uno scherzo solo che il ponte fu inaugurato nel 2000 dal re di Svezia Carlo XVI Gustavo e dalla regina di Danimarca, Margherita II. Nel ’92 quindi non c’era come non c’era ancora l’adesione di Svezia e Danimarca alla convenzione di Schengen. Dunque controlli, verifiche, perdite di tempo da una frontiera all’altra. Poca roba certo per dei nazionali ma non per Kim Vilfort, medianone del Brondby che ha altro per la testa da giorni e quel 31 maggio del ’92 risponderà più o meno così quando nel pomeriggio riceve la telefonata del suo allenatore: “Mister mi spiace, io non posso, mister io non ci sto con la testa e lei è l’unico che lo sa”. Kim ha tre figli, Rikke, Mikkel e Lime. Lime è la secondogenita. Ha sette anni, è malata, ha la leucemia. Fa la spola tra il lettino d’ospedale e quello di casa. Kim proprio non se la sente. “Kim, potrai andare a Copenaghen tutte le sere, potrai andare tutte le volte che ce ne sarà bisogno, potrai andarci tutte le volte che vorrai”. Kim è alto un metro e novanta ma barcolla. Al mister chiede un patto. “Questa cosa non devono saperla i miei compagni e non deve farne parola con nessuno”. Kim non vuole che i giornali o tv si occupino di Lime, non vuole titoloni e strumentalizzazioni, non vuole pietà. Moeller dice sì al patto e Vilfort ne parla alla moglie, insieme lo dicono alla figlia. Kim decide che andrà pure lui in Svezia, che tanto dalla Danimarca dista un soffio anche se quel ponte ancora non c’è.
Il 2 giugno del 1992 la Danimarca va in ritiro: ha nove giorni di tempo per prepararsi alla sfida contro l’Inghilterra dei leoni, quella di Platt e Lineker e in Premiere League ci gioca Peter Schmeichel, numero uno del Manchester United e numero uno al mondo nel ‘92 e nel ’93. Peter ha un figlio, si chiama Kasper ed ha sette anni. E la prima volta che vede il papà con i guantoni davanti alla tv è l’11 giugno, è il giorno di Inghilterra-Danimarca che finisce 0-0 perché Peter fa il fenomeno tra i pali e il figlio Kasper decide che un giorno – e sarà così, chiedere a Ranieri e al Leicester, altra favola del calcio moderno che nel 2016 si compie – farà anche lui il portiere. La Danimarca intanto si gode il punticino e si prepara alla sfida contro i cugini e padroni di casa. La Svezia – è il 14 giugno – vince 1-0 con gol di Thomas Brolin che poi avrebbe fatto le fortune del Parma di Nevio Scala. Un punto dopo due gare, l’ultima sfida è contro la Francia allenata da Platini in panchina e da Deschamps sul prato; è la Francia che in attacco ha Papin e Cantona e batterla sarebbe più di un’impresa, tanto più che i biancorossi in 180’ non hanno segnato ancora un gol. Spacciati, ormai. Kim Vilfort chiede al ct di poter andare a Copenaghen, ha fretta e voglia di andare, “non è che se ci sono io li battiamo i francesi”. Lime ora è in ospedale, la leucemia è una bestia cattiva, spietata, aggressiva. Saluta i compagni, ai quali dice la verità. “Ti dedichiamo la vittoria, coraggio Kim che ti aspettiamo”, si sente dire mentre piangono. E anche Kim piange, chiude la borsa, se ne torna a casa.
È il 17 giugno del 1992, Francia-Danimarca si gioca a Malmö. Per passare i danesi devono superare i galletti e i già qualificati cugini svedesi devono superare l’Inghilterra. È una combinazione quasi impossibile pensano tutti, e per primi lo pensano e se lo ripetono i danesi. Tutti tranne gli undici che vanno in campo, orfani di Vilfort. Tutti, tranne Henrich Larsen, meteora del Pisa di Romeo Anconetani, mediano senza molta arte né parte. È lui a segnare dopo sette minuti, lui che in Italia ne realizzerà uno in 39 partite. Jean Pierre Papin – che invece i gol li sa fare – continua a farne. È uno ad uno, è palla al centro. Sembra finita, le vacanze dei giocatori danesi potranno così riprendere tranquillamente mentre i francesi si prepareranno alla sfida stellare contro l’Olanda. Lo pensano tutti, non così Lars Elstrup, attaccante che gioca nella serie B inglese, al Luton Town, e che in tutto l’Europeo non s’è mai tolto la tuta. Moeller Nilsen lo manda in campo al 66’ ed Elstrup dopo 10’ fa secco Bruno Martini con una botta tremenda all’incrocio. Urlano e piangono tutti in campo e negli spogliatoi, e piange di gioia e incredulità pure Kim che sta accanto alla figlia, dall’altra parte del canale di Øresund, a Copenaghen. I compagni gli telefonano dall’albergo, “dai Kim, se ce la fai torna, ora abbiamo l’Olanda, vieni a darci una mano, il tempo di una partita e vai via”. Perché la Svezia ha appena battuto l’Inghilterra e sfiderà la Germania (arbitro Lanese) e a sorpresa la Danimarca ha appena centrato la semifinale. Si prepara al ballo finale. Arrivandoci da cenerentola. Proprio come nella favola.
È il 21 giugno, stadio di Goteborg, C’è anche Kim Vilfort nella lista degli undici consegnata all’arbitro, lo spagnolo Soriano Aladren. È piombato in albergo al mattino, come fosse uno dei tanti pendolari che fanno la spola da una parte all’altra del canale. Ha deciso di andare dopo averne parlato alla moglie, e poi proprio Lime glielo ha chiesto dal letto dell’ospedale. “Devi andare papà, voglio vederti vincere. Fallo per me”, ricorderà Kim un giorno, quando tutto era ormai finito, in una toccante confessione all’olandese De Telegraaf. Eppure l’undici oranje, solo a scorrerlo, mette i brividi. Sono i campioni uscenti e sul prato sono ancora grandi campioni: Van Basten, Gullit, Rijkaard, de Boer, Koeman, Bergkamp e in avanti Rinus Michels schiera Roy, un baby appena acquistato dal Foggia di Zeman. Solo che è un altro “italiano” a prendersi la scena. Perché Henrik Larsen mette da parte i panni dell’onesto gregario al Pisa e indossa quelli del supereroe. Fa due gol a Van Breukelen però non basta perché per due volte l’Olanda si riprende, ed è Rijkaard a cinque dalla fine a prolungare la sfida ai supplementari che poi diventano rigori. Marco Van Basten è il Pallone d’Oro e quanti ne avrebbe vinti se quella maledetta, malandata e malmenata caviglia non l’avesse costretto al ritiro anticipato. È il secondo giocatore dell’Olanda ad andare sul dischetto. Fa la finta e mira all’angolino, Schmeichel s’è però trasformato in una farfalla e lui non se n’è accorto: il biondino vola e devìa. Poi afferra il pallone e lo mette nelle mani di Kim, perché tocca proprio a Kim Vilfort andare dal dischetto dopo i centri di Bergkamp, Elstrup e Rijkaard. Il tiro è una preghiera che si esaudisce, poi tocca a Witschge e Christofte affrontare il destino senza però cambiarlo. Ormai è scritto, la Danimarca è in finale mentre Kim va ad abbracciare la sua piccola Lime attraversando un’altra volta il canale di Øresund.
Germania-Danimarca, è la notte della finale ma è ancora tramonto il 26 di giugno che cade di venerdì. Al canale radio della Rai la voce che gracchia e rapisce è di Sandro Ciotti, a bordocampo c’è Bruno Gentili, la voce che rimbalza dalla tv è invece quella inconfondibile di Bruno Pizzul che snocciola le formazioni. La Germania è campione del Mondo in carica, e sembra di sentirla ancora quella voce: in avanti Klinsmann e Riedle, sulle fasce Hassler e Reuter, Effenberg e Sammer al centro, in difesa Kohler e il capitano Brehme, tra i pali c’è Illgner. «Il calcio è quel gioco nel quale ventidue giocatori rincorrono un pallone e poi vince la Germania», aveva sentenziato due anni prima ai Mondiali in Italia l’inglese Lineker. È questa la Germania che la Danimarca affronta con il solito undici e l’abituale tattica ma in campo da subito c’è un altro Laudrup. Brian sembra Michael, prende per mano la squadra, la trascina. Fa l’assist che Jensen trasforma e sembra un tiraccio della sorte destinato però presto all’oblio perché i panzer attaccano a testa basta e il fortino biancorosso pare destinato a crollare. E invece il fortino tiene, resiste, s’attrezza e contrattacca.
Sono le 21.33 ora italiana, lo stadio è quello di Goteborg e si chiama Ullevi. È pieno come solo l’8 giugno del 1985 quando sul prato ci cantò Bruce Springsteen e Kim Vilfort, sì proprio lui, il papà di Lime – adesso che le lancette del cronometro sono al minuto 78’ – è “I’m on fire”. Raccatta il pallone servitogli da Laudrup come fosse una spada da piantare nel petto dell’avversario. Lui è il cavaliere solitario che corre, che corre verso la porta tedesca. Lo tocca di sinistro quel pallone, come fosse una lancia. E poi lo scaglia. Mira al palo. Il pallone lo centra, ci sbatte e poi riempie la rete. Kim nemmeno vede; se ne sta piantato lì sul prato, lì sommerso e soffocato com’è dai compagni che lo abbracciano. E fanno festa. La Danimarca è campione d’Europa, l’ultima ad arrivare in Svezia, l’unica a salire sul podio. È la più bella del ballo, è la prima della classe.
A mezzanotte in Svezia è già tutto finito, a Copenaghen invece è festa nazionale tra fiumi di birra e bagni per le strade. Kim Vilfort anche lui è già a Copenaghen ma nessuno lo sa e nessuno l’ha visto. Ha già riattraversato il canale di Øresund, è già dalla sua Lime e quella stanza d’ospedale si riempie di un abbraccio, si colma di gioia e di lacrime. Quelle del padre e quelle della figlia. Le lacrime di un padre che sei settimane dopo dovrà dire addio a sua figlia. Sì, tutto dolce e struggente. Come in una favola, come una favola di Hans Christian Andersen. Una favola danese. La favola numero 157.