La gloria. Il fango. Il processo. Il complotto. La prima verità che finalmente affiora, scrostando una macchia nera. Che solleva quel macigno che ne ha ostruito il cammino. Ne restano chilometri da fare. La lunga marcia di Alex Schwazer continua. Riparte però da una sentenza di archiviazione. E da una torta al cioccolato, sopra cinque cerchi di zucchero. La torta gliel’ha preparata la moglie per festeggiare il primo raggio di luce. La sentenza l’ha invece emessa il Gip del tribunale di Bolzano. Datata 18 febbraio 2021, cinque anni dopo l’inizio di una marcia nel fango. «Sono stato trattato come un mostro. Che porcherie contro di me». Poche parole, bastano a racchiudere sentimenti che ballano ancora troppo. Ha marciato e continua a marciare. Contro il marcio, contro vento, contro un nemico nascosto. Tanti, troppi anni. E tante sono le pagine depositate dal giudice. Sono 87, ma anche qui bastano poche parole. «Non fu doping quello del 2016, è stato incastrato. Per questo non va processato». Non è colpevole. Anzi, è una vittima. Ora si può dire. Fu complotto. Organizzato per screditare il marciatore altoatesino e Sandro Donati, il suo allenatore, l’uomo che da sempre ha combattuto il doping. L’atto demolisce in maniera impietosa i tentativi di difesa della Wada e dell’allora Iaaf (oggi World Athletics) e critica persino l’operato del pm. Il Gip, nelle conclusioni, «ritiene accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni di urina prelevati ad Alex Schwazer l’1-1-2016 siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati».
Un reato. Solo il primo. Perché poi nel tentativo di impedire l’accertamento del reato ai danni dell’atleta accusato penalmente di doping, ne sono stati ravvisati altri. A leggerli, vien la pelle d’oca. Falso ideologico. Frode processuale. Falso ideologico finalizzato a coprire il precedente falso. Falso ideologico, frode processuale e diffamazione. Dopo cinque anni di battaglie giudiziarie però, la lunga marcia di Alex non è finita. La decisione della giustizia ordinaria non ha rilievo per quella sportiva. La squalifica di otto anni resta, non c’è la possibilità di rifare il processo e di annullare lo stop. Per tornare a marciare, per inseguire la gloria sulle strade di Tokyo, Schwazer dovrà chiedere la grazia al Cio. E sperare che sia accolta. La notizia dell’archiviazione l’ha appresa, “come un altro figlio che nasce”, mentre Sandro Donati, l’allenatore che per Alex è come “un secondo padre”, ha rivelato. “Alex era emozionato. Si sta allenando, è molto costante. L’ho tenuto a un livello non molto elevato ma in una condizione tale che, se dovesse arrivare giustizia pure in ambito sportivo, potrebbe essere pronto per i Giochi di Tokyo. Otto mesi fa andava come un treno”.
Resta però da dipanare l’ultimo filo di una matassa degna di una spy-storia d’oltre cortina. Restano da scoprire i complici, i mandanti, gli esecutori del complotto, di questa macchinazione. Che i complotti siano sempre esistiti – l’assassinio di Giulio Cesare può valere per tutti – è acclarato da secoli, che la storia dell’umanità ne sia piena anche. Solo che i complotti, quelli veri, poi si scoprono subito o quasi. Finanziari, politici, sentimentali. Per questo sono passati anni. Certo poi, ci sono i complotti ma c’è anche la sindrome dei complotti e anche la sindrome al complotto. Anni fa tenne una lecto magistralis Umberto Eco (tra l’altro autore di un romanzo, “Numero zero”, dove tutto quello che sembra non è) all’Università di Torino. E sulla sindrome del complotto e su come e perché si propaghi, pagine ineguagliate le scrisse Karl Popper. In “La società aperta e i suoi nemici” il filosofo spiegava: “La teoria cospirativa della società risiede nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo”. Complotti veri o presunti, manipolazioni e insabbiamenti: nello sport ce ne sarebbero di esempi, alcuni ancora e da tempo in attesa dell’ultimo atto. Della piena e completa verità.
L’ha aspettata e la aspetta da anni la fine Alex Schwazer, ex campione olimpico nella 50 km di marcia a Pechino 2008, due volte squalificato per doping, la seconda volta per recidiva e dunque bloccato sino al 2024. Avrebbe saltato dunque anche Tokyo 2020 – dopo Londra 2012 (alla vigilia gli fu comminata la prima squalifica) e Rio 2016 (qualificazione ottenuta ad aprile al rientro, stop dopo gli esiti di un controllo anti-doping a sorpresa effettuato l’1 gennaio mentre lui era già a Rio ad agosto, pronto a marciare verso l’oro) – però le Olimpiadi sono state rinviate di un anno e all’appuntamento in Giappone potrebbe, chissà, anche esserci. Dipenderà dal suo fisico, 37 anni il 24 dicembre del 2021. Dipenderà dall’intensità dei suoi allenamenti, adesso che fa il coach di maratoneti amatoriali. Dipenderà dalla sua resistenza, mentale oltre che fisica. Dipenderà dalla sua famiglia, ora che alla figlia Ida s’è aggiunto da poco un maschietto regalatogli dalla moglie Kathi, una vita ricostruita a Calice, frazione di Racines, provincia di Bolzano; il legame anni fa andato distrutto con Carolina Kostner mentre l’amicizia con Dominik Paris si rinsalda nelle sciate sulle montagne altoatesine. Dipenderà dalla giustizia sportiva. L’esito del processo giudiziario al tribunale di Bolzano ha riacceso una luce, è uno spiraglio ma ancora non basta. L’archiviazione, il senso di giustizia dopo cinque anni. Certo. Come accertate sono le manipolazioni, come è confermato il sabotaggio delle provine d’urina: adesso però bisogna spostare il procedimento di riabilitazione e riammissione davanti ad un altro Moloch, – Coni, Iaaf, Tas e Wada – e cioè il sistema sportivo, quello italiano e quello internazionale. Schwazer, vittima o carnefice? Il primo punto è stato messo. Ma la domanda più grande è ancora senza una risposta finale, definitiva. Ne restano altre, altre domande che aspettano la risposta. Chi e perché ha manipolato? Chi ha scientemente voluto macchiarlo? Chi l’ha buttato fuori dalla strada, dalla sua marcia? Il suo è il più complicato caso giudiziario-politico di doping dello sport italiano. Meglio avvolgere e riavvolgere il nastro, partendo dall’inizio e arrivando all’ultimo punto. Il primo, di una nuova marcia: l’archiviazione del procedimento penale, dopo cinque anni di battaglie.
La vita da atleta
Alex compare, come una secchiata d’acqua fresca sul malandato sport italiano – il volto degli avversari trasfigurato e lui che marcia quasi senza una smorfia di fatica – una mattina di agosto del 2007. A Tokyo, e sembra uno scherzo del destino perché dove tutto comincia forse tutto potrebbe finire, in 3 ore e 44 minuti si prende la medaglia di bronzo. Ha 23 anni, la voce tremula di un altoatesino che fatica solo con l’italiano, lo allena l’olimpionico Sandro Damilano che anni dopo sarebbe andato ad allenare i cinesi ed è nel gruppo sportivo dei Carabinieri. L’anno successivo trionfa sulla stessa distanza alle Olimpiadi di Pechino, infliggendo un distacco record agli avversari: è il quarto oro italiano nella storia nella distanza più lunga del programma olimpico. Da lì fino al 2011 sono solo trionfi, sport pubblicitari e passerelle di prestigio: il fidanzamento glamour con la star del pattinaggio Carolina Kostner, il ruolo di testimonial della Ferrero, l’oro mondiale agli Europei di Daegu nella 20 chilometri. Alex è il ragazzo che ogni mamma vorrebbe come fidanzato della figlia, è il simbolo d’oro dello sport italiano. Però anche le copertine più belle nascondono segreti.
L’inizio della discesa
Schwazer convive col terrore costante di non essere all’altezza degli avversari. Vorrebbe sempre vincere, non ammette la sconfitta e nemmeno sotterfugi. Però. Però “i russi vanno forte perchè si dopano, qualcosa devo fare”, si ripete in testa e nell’animo. Rompe con Sandro Damilano e si rivolge – in gran segreto, lo si scoprirà poi – al dottor Michele Ferrari, il guru del ciclismo squalificato a vita dalla Wada. Qualche mese prima dei Giochi di Londra va in Turchia tornandosene con una borsa piena di eritropoietina e steroidi. Sta lontano dall’Italia ma quando rientra lo beccano: positivo ad un controllo il 30 luglio del 2012, quando ormai è pronto a partire per Londra. Squalificato per quattro anni, deve dire addio ai Giochi e pure a Carolina che cerca di coinvolgere nello sprofondo. Patteggia a 9 mesi la condanna penale, e con le sue confessioni inguaia due medici della Fidal (Fischetto e Fiorella, condannati e in attesa del giudizio in Appello) che vanno pure loro sotto processo penale.
Il legame
Sandro Donati – un autentico e trasparente maestro dello sport, l’uomo più in vista dell’antidoping italiano – è il consulente della Procura di Bolzano nel processo contro Schwazer. È proprio a lui che si rivolge Alex nel 2015, quando la sua squalifica sta per terminare. Donati accetta il ruolo di redentore. Allenamenti e controlli a Roma, le Olimpiadi di Rio sembrano vicine eppure il terremoto violento non si placa. C’è chi vede in quel matrimonio, nel legame tra chi ha ferocemente combattuto il doping (Donati ha scritto due libri, uno si chiama “Lo sport del doping”, nel quale con nomi e cognomi sottolinea chi lo subisce e chi lo combatte) e chi invece il doping l’ha praticato, un sodalizio da sopprimere. Con tutti i mezzi. Leciti, e non.
Gli esami
Una sequenza incredibile. Comincia il 15 dicembre 2015 quando a Roma Alex testimonia al processo contro i medici della federazione internazionale. Lo stesso giorno la Iaaf con un preavviso senza precedenti ordina un controllo antidoping a sorpresa presso la sua casa di Racines per l’1 gennaio 2016. I due ispettori si presentano a casa di Alex alle 7 del mattino. Quello che succederà alle due provette di urina è un viaggio ricostruito poi. A ritroso nel tempo. Grazie anche a un docufilm firmato da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello, regia di Alberto Mascia per il quotidiano “la Repubblica”. Un’inchiesta che contiene inedite intercettazioni telefoniche, che svela i tentativi di pilotaggio di gare internazionali di atletica, che smaschera i segreti del doping russo. Una parentesi: i russi avrebbero voluto Schwazer nella propria nazionale, Donati è stato il primo a minare il sistema russo, presentando prove sul continuo uso di sostanze dopanti da parte di atleti russi, un vero e proprio doping di Stato. Una successione di fatti inspiegabili, di omissioni, di alterazioni e di reticenze fanno sì che la notizia della positività – il campione d’urine è stato prelevato l’1 gennaio – sia comunicata soltanto il 21 giugno 2016, all’immediata vigilia dei Giochi, quando Alex ha già vinto la prova di Coppa del Mondo al rientro ed è il più serio candidato alla vittoria sia nella 20 che nella 50 chilometri delle Olimpiadi: ormai il biglietto è in tasca, Alex è già in Brasile pronto a marciare. E invece a Rio riunitisi in fretta e furia a poche ore dalla gara, i componenti del Tribunale di Arbitrato Sportivo di Losanna lo squalificano per otto anni – è recidivo al doping – mettendo la parola fine alla sua carriera sportiva. Si scoprirà poi – grazie a un gruppo di hacker russi – che i vertici medici della Iaaf temevano e tremavano per quello che poteva emergere dall’inchiesta e che proprio in quei giorni si scambiavano freneticamente mail per trovare una soluzione.
Il processo
A Bolzano si aprì cinque anni fa un altro processo penale. Fare uso di sostanze dopanti in Italia è reato: Alex viene indagato per frode sportiva mentre l’atleta presenta un esposto nel quale si dichiara vittima di un complotto. E’ da allora che si punta a capire se Alex si sia volontariamente dopato o se qualcuno invece l’abbia incastrato. Il Gip ha ordinato numerose perizie per capire se l’urina di Alex del prelievo sia davvero la sua o se qualcuno l’abbia manipolata per farlo risultare positivo. Domanda che attenderà risposte, per tanto tempo. Troppo. L’ipotesi della contaminazione pre-prelievo (qualcuno che abbia fatto assumere testosterone ad Alex prima che arrivasse il controllo) scartata. Resiste la possibilità che le urine siano state inquinate dal momento in cui l’ispettore le prese in consegna al controllo nel giorno di Capodanno del 2016. “Le urine del 1 gennaio che gli ispettori prelevarono a casa mia non erano quelle esaminate a Colonia il 2 gennaio”, ha sempre detto Alex. Di stranezze, anomalie, comportamenti irrituali in quel controllo che è stato ricostruito nei minimi dettagli ce ne sono tante. Ad esempio, per Schwazer in un’intervista confessione alla Gazzetta dello Sport nell’aprile del 2019: “Dall’ottobre 2015 al giugno 2016 mi hanno testato sangue e urine per 20 volte: guarda caso sono risultato positivo di poco solo nella provetta di Capodanno. Le provette sono state analizzate una prima volta a Colonia il 2 gennaio 2016: negative. A fine marzo, un paio di giorni prima che venissero distrutte, l’avvocato Thomas Capdeville, capo antidoping Iaaf, ordina da lontano un secondo esame: mirato alla ricerca di steroidi. E risulto di un pelo positivo: si vede che un laureato in legge ne sa più di un medico”. E poi sui motivi della manipolazione, del complotto ordito alle spalle e su quella squalifica arrivata otto mesi dopo il controllo, con la gara dei 20 km che avrebbe dovuto disputare il giorno dopo a Rio. “Perché dovevano farmi fuori? Per almeno due ragioni. Mi ero dopato, avevo confessato. Volevo rientrare, ma proprio perché era un ritorno pulito al 100% avevo raccontato tutta la verità, facendo nomi e cognomi di chi sapeva e mi aveva coperto. E poi avevo scelto un allenatore da sempre in lotta contro il sistema: avevo scelto Sandro Donati, che nel tempo è diventato un secondo padre per me”.
I prelievi
A 26 mesi dal prelievo, le contro analisi evidenziarono quantità anomale di DNA tra la provetta A e la provetta B. Secondo il Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri, il valore della provetta B sarebbe anomalo, quindi non fisiologico, poiché la quantità media di DNA nelle urine stimata sulla popolazione non va oltre i 100 picogrammi per microlitro. Inoltre, secondo un recente studio statistico condotto nell’arco di un anno, la quantità di DNA nell’urina conservata diminuisce di circa il 70% dopo sei mesi e di quasi il 90% dopo un anno. Esiste insomma il fondato sospetto che l’urina di Schwazer sia stata manipolata. Ad alimentare i dubbi dei RIS e della difesa sulla validità dei campioni di Schwazer si aggiungono poi le difficoltà avute nell’ottenerli dal laboratorio di Colonia che consegnò con un anno di ritardo prelievi di quantità minori rispetto a quanto inizialmente concordato con la Wada. Secondo il legale di Schwazer, il laboratorio di Colonia tentò anche di presentare una provetta falsa al rappresentante dell’autorità giudiziaria italiana, che la rifiutò. Risultano anomalie anche nel trasporto e nella conservazione delle provette: rimasero quasi un giorno intero a Stoccarda – nella sede della società privata che effettuò il prelievo – identificate dal nome dell’atleta e non dal codice alfanumerico previsto dalla prassi antidoping. Questo accadde perché i laboratori di Colonia erano chiusi in quei giorni di gennaio. Nel corso dell’incidente probatorio al tribunale di Bolzano, Wada e Iaaf hanno però presentato un documento inedito e parziale relativo a un test antidoping di Schwazer datato 27 giugno 2016 nel quale viene indicata la presenza di 14.000 picogrammi per microlitro di Dna nelle urine, un valore esageratamente alto. In questo modo la Wada ha voluto dimostrare come Schwazer abbia sempre avuto quantità elevatissime e non comuni di Dna nelle urine, cosa che spiegherebbe i valori anomali nei prelievi. Il documento però era incompleto e sconosciuto alla difesa, che per questi motivi ne ha contestato la validità. Finora nessuno, nè l’accusa nè la difesa, è ancora riuscito a rispondere alla domanda chiave, portando delle prove: come si è potuti intervenire su un campione sigillato per doparlo senza alternarne il Dna? Per risolvere gli ultimi dubbi (una differenza di densità tra i vari flaconi) il magistrato ha così chiesto un’ulteriore serie di prelievi a 56 atleti volontari diventati poi cavie, punti di riferimento nella comprensione dei valori ematici. Indagini e analisi mentre Alex Schwazer a 37 anni non smette di pensare a Tokyo, lì dove la sua stella s’accese nel 2007 e lì dove a luglio del 2021 vorrebbe che si spegnesse, dopo aver ottenuto piena riabilitazione e completa giustizia. Sportiva, non solo civile e penale.
L’auspicio
Il suo legale, Gerhard Brandstaetter: “Il giudice ha approfondito la questione in maniera straordinaria. La soddisfazione è grande, perché abbiamo lottato anni per questo. Motivazioni di questa portata di un giudice penale di certo vanno prese in considerazione”. E Sandro Donati, il suo tecnico, l’uomo che ha marciato insieme a lui, che si è preso il fango, adesso dice. “E’ una grande vittoria grazie a un giudice coraggioso ma anche a chi in questi anni è rimasto dietro le quinte. Questa era la grande battaglia per la verità, l’abbiamo vinta, e adesso ci sarebbe la battaglia sportiva per sanare il misfatto. Anch’io in qualche modo sono stato incastrato: passato per fesso o complice, e non sono né l’uno né l’altro. Ora tutto lo sport italiano deve fare le sue valutazioni, ma anche a livello internazionale devono rendersi conto, capire come quello che è successo possa essere evitato in futuro”.
Già, il futuro. Alex continua a correre, mentre le ombre e le orme continuano ad accompagnarlo. E mentre marcia, Alex aspetta. Aspetta che venga messo un altro punto. Il più importante, scottante. Un punto che dica a lui e al mondo: chi e perché ha ordito il complotto? Più di una eventuale marcia a Tokyo, più di una medaglia che avrebbe del miracoloso: è la verità la medaglia che va messa sul podio. Sempre. Ogni giorno. E in questa storia la verità manca da troppi anni.