Sette mitragliate fendono il silenzio. Sette uomini cadono, trucidati. Sono per terra. Giacciono nel cortile del magnifico castello di Buda, è il Castello Reale di Budapest. La città è assediata, bombardata, è allo stremo. La Casa del Parlamento è rovine, tutti e cinque i ponti sono stati fatti saltare. E’ ridotta in macerie. Come tutta l’Ungheria, come tutta l’Europa. E’ il 6 febbraio del 1945, anche sul fronte orientale la Seconda Guerra sta rovinosamente spegnendosi. L’Armata Rossa è ormai in città, ha occupato la parte al di là del Danubio, le truppe piantano cannoni e obici sulle terre che danno verso Est. Da lì sparano sull’altro versante, su quel che resta di Buda. Quattro mesi di battaglia cruenta, la battaglia passerà alla storia come la più cruenta sul fronte orientale, più drammatica solo quella di Stalingrado. Quel che resta delle truppe tedesche è asserragliata sulla collina mentre il feroce controllo delle Frecce Uncinate rantola. La fine è vicina, ineluttabile, inevitabile. E’ un regime ormai sconfitto, eppure ancora non si arrende, ancora non rinuncia a macchiare la neve con il sangue. Il sangue d’innocenti. Un giorno, un altro ancora.
Sette mitragliate a freddo. Sette i corpi che cadono, come foglie nel cortile del castello di Buda. E’ il 6 febbraio del 1945. Ce n’è uno che indossa una divisa militare, consunta, consumata, corrosa: è di un ufficiale della Wehrmacht, gli occhi spalancati, il frutto delle torture subite in due mesi di prigionia descritti da quei lividi. Neri, sul volto bianco. I proiettili l’hanno raggiunto in pieno petto. Appena sette giorni prima che l’intera città venga liberata. Sette giorni, solo sette giorni prima che finisca l’occupazione nazista. Sette giorni prima che l’orrore spalanchi gli occhi sulle atrocità commesse. Migliaia e migliaia di corpi gettati in fosse comuni, tra questi hanno gettato pure quel corpo, quello con la divisa tedesca. Se ne accorgerà la figlia Caterina mesi dopo, lo riconoscerà da quegli stivali che proprio lei gli aveva cucito. Si chiamava Gèza Kertèsz e no, non era un soldato. No, non era nemmeno un tedesco.
E’ un ungherese, un magiaro nazionalista ma non è un radicale. E’ innamorato della propria terra e della vita, è un partigiano ma non un comunista. E’ uno che semplicemente ha deciso di non voltarsi dall’altra parte, che ha deciso di giocare una partita in cui in palio non c’è solo una vittoria ma molto di più. C’è tutto. La dignità, l’umanità, l’amore. La vita. Ha sfidato l’avversario più forte in una competizione impari. L’affronta senza paura. Non può. Non ne mai ha avuta. Deve farlo, Gèza. Ha 51 anni, è stato soldato e ragioniere, ama la musica e suona il pianoforte, ha moglie e due figli, la mamma gestisce una trattoria nella zona orientale di Pest, abita vicino al teatro dell’Opera, a due passi dal quartiere ebraico e dalla Sinagoga, la più grande d’Europa.
Budapest, autunno del 1944. Buda e Pest, la città dell’Impero asburgico divisa dalle rive del Danubio è da sei mesi teatro di uno scontro cruento, sanguinario, violento. Un eccidio. E’ assediata dalle truppe sovietiche con l’appoggio dell’esercito rumeno, le SS e la Gestapo fanno terra bruciata dei rivoltosi e dei civili mentre le Panzer-division sono costrette all’ultima, strenua, difesa. Vorrebbero arrendersi ma Hitler ha ordinato di resistere. Sono fiancheggiate dagli uomini delle Frecce Uncinate, il partito ungherese filo-nazista e antisemita che ha preso il potere dopo l’armistizio con i russi del precedente governo. Una rivoluzione dentro una guerra. La guerra civile, politica, militare, razziale. Cento guerre in una.
Solo un mare di sangue, in un oceano di morte. Il regime di Eichmann è brutale, continua a far strage degli ebrei, l’odio lo rinfocolano i famigerati squadroni dei Nylas: fucilano senza pietà, gettano i corpi nel Danubio. Szàlasi ha ordinato il coprifuoco dopo il tramonto, più di tre persone non possono riunirsi. La legge marziale estesa a molti reati tra cui “inquinamento razziale”, corruzione e profitto; la diffusione di voci disfattiste punita con la fucilazione. Tutte le proprietà ebraiche passano allo Stato. Gli ebrei vengono radunati, confinati nelle case del ghetto. Sterminati e strappati alle case, agli affetti, alla vita. I tedeschi hanno bisogno di manodopera per costruire fortificazioni, in 50.000 – uomini, donne, ragazzi – vi lavorano diciotto ore al giorno. Seicentomila in pochi mesi vengono ammassati sui treni e quando il trasporto non è disponibile gli ebrei devono marciare a piedi. Con abiti logori e spesso scalzi, con i piedi nel freddo gelido, nella neve. Stramazzano. Muoiono così, nelle famigerate marce della morte. Altre centinaia di migliaia saranno cremate nei lager oppure ridotte allo stremo. Consumate, ridotte alla consunzione. Di ottocentomila ebrei ungheresi dopo la Guerra ne resteranno pochi. Centomila, i sopravvissuti. Sopravvissuti allo sterminio grazie al coraggio e all’astuzia di uomini come l’italiano Giorgio Perlasca, come lo svedese Raoul Wallenburg, come il portoghese Alberto Carlos Branquinho, come lo svizzero Carl Lutz. Sono i consoli di Stati neutrali che firmano i visti, forniscono documenti, protezione diplomatica. Salvi e sopravvissuti, lontani dall’orrore e dallo sterminio, anche grazie al coraggio e all’altruismo di uomini come lui, come Gèza Kertèsz.
E’ un partigiano, fa parte di una delle cellule della resistenza che si uniranno al Comitato di liberazione per la rivolta nazionale ungherese: il gruppo si chiama Dellam che tradotto dall’ungherese vuol dire melodia. Il gruppo osserva i movimenti delle truppe tedesche, segnala le concentrazioni delle forze aeree. Prepara messaggi crittografati in una bottega, li inoltra con i corrieri in Slovacchia, lì c’è una radio a onde corte che diffonde le notizie alle forze Alleate. Ha acquistato anche uniformi tedesche e pure armi leggere. Gèza nel gruppo è entrato grazie al contatto con Pàl Kovacs, un ex operaio ungherese, un esiliato conosciuto anni prima a Roma che fa parte della rete di spionaggio statunitense. Sono una ventina in tutto, si muovono per le strade di Budapest, nascondono le famiglie ebree, forniscono documenti falsi, preziosi visti per farli espatriare. Ma Gèza fa di più. Molto di più. E’ stato un tenente colonnello durante la Prima Guerra, parla bene il tedesco, è alto un metro e novanta, è elegante e istruito, ha proprio i tratti di un ufficiale. Così indossa la divisa di un SS e così si presenta nelle case del ghetto: finge di arrestare gli ebrei e invece li fa scappare, li accompagna in auto verso la campagna, verso la fuga. Li ospita e li nasconde a casa in attesa della notte, entra perfino nello scalo merci di Rakosrendezo, lì dove partono i treni per i campi di sterminio, lì raduna le famiglie in attesa di essere deportate, lì le carica sulla sua automobile o su camion di fortuna. Si muove ogni sera rischiando la vita, con lui c’è un amico che è molto più di un fratello, si chiama István Tóth detto pòtya che in italiano si legge carpa. Gèza invece lo chiamano bradipo. La carpa e il bradipo, è una storia nata trent’anni prima. E’ una storia di calcio.
Nasce sopra un campo nel verde dell’Ungheria, battistrada di quel calcio danubiano che negli anni ’50 ammalierà e stregherà l’Europa: Puskas, Hideguti e tanti altri. Assi e nazionale incomparabili, inarrivabili, indimenticati. Il seme di quel calcio comincia a germogliare prima che detoni la Prima Guerra. E’ il 1914, Gèza e Istvàn si conoscono in nazionale, hanno vent’anni. Uno gioca nel Budapesti Torna Club, l’altro nel Ferencvaros. Il primo è un mediano alto e troppo lento, ama tenere troppo il pallone, pare indolente e per questo lo chiamano tutti bradipo. Gioca lento ma ragiona, in campo è come se fosse lui l’allenatore. L’altro è basso, è un attaccante tarchiato ma velocissimo, tira saette anche dal calcio d’angolo, segna a raffica, è un perno della nazionale. Anche sul campo lo chiamano tutti pòtya. Carpa è il nomignolo che gli ha dato la madrina al battesimo e quel soprannome se lo porta in ogni dove. S’incontrano in nazionale, si sfidano in campionato, si vedono in città. Diventano amici, compagni di squadra nel 1920. Col Ferencvaros girano l’Europa, il calcio magiaro comincia a far presa, è una sintesi tra il metodo che sta passando di moda e il sistema che diventerà modello. Due difensori stretti e gli altri tre in linea, poi davanti è tecnica e velocità. Quel modo di interpretare il pallone inizia a diventare una culla, una scuola. L’Italia, ex nemico nella Prima Guerra, comincia a parlare ungherese nel calcio. Ad esempio la Juve di Edoardo Agnelli tessera Violak, Hirzer, il tecnico Karoly. Anche Kertèsz arriva in Italia. Il Ferencvaros gioca un’amichevole a La Spezia, poi a Livorno, poi Genova, Venezia, Vercelli, Firenze. E’ sposato, ha una figlia piccola, come la moglie sogna una città di mare. Sogna l’Italia. Fa amicizia con i dirigenti liguri, si lasciano con un arrivederci. Rientra a casa, racconta dell’Italia agli amici, nel Ferencvaros ormai gioca poco. Già lento prima, figurarsi alla soglia trent’anni. Violak gli scrive da Torino. “A La Spezia cercano un allenatore, perché non vieni?”. Una parola ce la mette pure Karoly: Kertèsz saluta Budapest, saluta Tòth e in treno, bagagli e famiglia, sbarca in Italia. Firma il primo contratto: giocatore e consulente tecnico.
Lo Spezia vince quasi a mani basse il girone di Seconda Divisione. E’ la sua prima promozione. L’anno dopo ne arriva un’altra: si è trasferito a Carrara, fa la spola col treno, soprattutto fa giocare bene le proprie squadre. Ha un metodo innovativo, fa praticare la ginnastica svedese ai calciatori, profitta del cambio di regola sul fuorigioco per dare un’impronta offensiva alla squadra. Vince ancora il campionato di Seconda Divisione nella città dei marmi pregiati e l’anno dopo centra una salvezza insperata. Comincia a farsi un nome, passa alla Vezio Parducci Viareggio proprio mentre Tòth lo raggiunge in Italia. Due anni, un’altra promozione in Prima Divisione – una sorta di serie C attuale – e poi via. Un altro viaggio. L’inizio di un’altra avventura. E’ l’anno 1929.
Scende al Sud. Sceglie ancora una città di mare, sceglie Salerno, diventa l’allenatore della Salernitana che sogna di conquistare la B dopo l’istituzione dei campionati a girone unico. S’è costruito la fama di vincente, strega i calciatori, ammalia i tifosi: ha modi eleganti e gentili, ha soprattutto un’idea di calcio innovativa. E’ tra i tecnici più apprezzati, uno degli esponenti del calcio ungherese, una nouvelle vague in Italia che sta seminando, conquistando, spopolando.
Il giovanissimo Arpad Weisz ha appena vinto lo scudetto con l’Inter, passa sulla panchina del Bologna: lo vuole il gerarca della città, ai felsinei regalerà due scudetti. Molta gloria ma nessuna salvezza: sarà colpito anche lui dalle leggi razziali di Mussolini, anche lui vittima dell’antisemitismo. Si rifugerà in Olanda, verrà catturato dalla Gestapo. La moglie e i due figli saranno subito condannati alle camere a gas, lui finirà ad Auschwitz mesi dopo. Intanto dopo un’esperienza alla Triestina sulla panca dell’Ambrosiana Inter c’è Toth, l’amico di Kertèsz. A Nocera Inferiore, a venti chilometri da Salerno, c’è invece Erno Erbstein, è agli inizi di una carriera che lo vedrà al suo apice come mentore e poi direttore tecnico del grande Torino. Vittima delle leggi razziali, costretto anche lui a nascondersi e fuggire, sarà salvato dal presidente granata Ferruccio Novo ma morirà nel maggio del ’49, nello schianto di Superga. Nell’anno 1929/30 sarà tra i primi avversari di Kertèsz. Avversari, ma solo su un campo di calcio.
La Salernitana l’ha scelto su consiglio dell’arbitro Bevilacqua di Viareggio. Il presidente è Luigi Conforti, mettono mano al portafoglio il “re del tabacco” Carmine De Martino, Peppino Scimoni e il cavaliere Primo Baratta da Battipaglia: le sue cinquemila lire diventeranno preziose e costanti negli anni. Il segretario è Cosimo Vestuti ma chi si occupa della parte tecnica e amministrativa è il tenente colonnello Enrico Chiari. E’ nato a Parma ma in città ha un’agenzia di vigilanza notturna e un’altra di cambio: asseconda le richieste tecniche mettendo a disposizione dell’ungherese una squadra giovane, da educare, plasmare. Da costruire su basi solide. La squadra abbandona il granata, torna al biancoceleste a strisce verticali, i colori della prima U. S. Salernitana. Gioca ancora al Piazza d’Armi, dieci lire il biglietto per i non soci, 5 per i soci e 3 lire pagano le signore. L’avvio di campionato è terrificante, stordente. Da Messina si torna con sette gol al passivo. La squadra pian piano però si assesta, si riprende. Chiude con una striscia di sei vittorie consecutive le gare casalinghe, per la prima volta segna più di 50 gol. Termina a metà classifica in campionato, in estate riparte da Kertèsz. Un anno di esperienza e una campagna acquisti di rilievo nonostante le traballanti vicissitudini economico-societarie confezionano una squadra da primato. Pronta a conquistare la serie B mentre si stanno ultimando i lavori al nuovo stadio in via Nizza, lì dove prima c’era il cimitero. Salerno è un cantiere, è un cantiere pure la squadra. Si sente come a casa, Gèza. Salerno gli resterà per sempre nel cuore anche perchè è qui che diventa per la seconda volta papà: nasce Gèza junior, Giovanni, Giovannino. Fino alla fine dei suoi giorni tutti lo chiameranno Nino. E’ il diminutivo dei salernitani quando incontrano Kertèsz e signora per strada, insieme ai due figli.
Sempre elegante e gentile, a passeggio lungo la Marina nei giorni di sole, tra i vicoli e in via dei Mercanti, davanti alle scuole Barra dove accompagna la primogenita. La signora Rosa ammira le vetrine di Bignardi e Vignes, lui fa sosta obbligata da Punzi o Pantaleone per il babà. In estate tutti e quattro ai bagni, agli stabilimenti sulla spiaggia del Fico. Ha preso casa vicino al mare, nei pressi della chiesa di Santa Lucia, di fronte agli affollati tavolini del Caffè Vittoria. In casa suona un pianoforte a coda, in campo striglia forte i giocatori. La sua idea di calcio è semplice: «Faccio praticare il gioco inglese che si adatta meglio alle nostre competizioni. Fuori casa applico lo schieramento a W, perché penso che si debba puntare prima di tutto al pari per poi dare la stoccata quando si presenta l’occasione propizia. In casa, stessa tattica nei primi dieci minuti, per dare la possibilità ai giocatori di studiare gli avversari, ma poi i reparti devono esercitare una costante pressione». Una tattica che ha bisogno di tempo, e di lavoro. Per questo chiede e ottiene che i giocatori si allenino senza distrazioni. Innovativo, sarà il primo in Italia a introdurre il ritiro. Il motivo spiegato così, sulle cronache del Littoriale. «E’ inammissibile che un giocatore che gode di uno stipendio non indifferente e che si è assunto una così grande responsabilità poi faccia i propri comodi. Ho sempre ritenuto fondamentale la disciplina. Insieme con la coesione morale, è un elemento determinante per il raggiungimento della vittoria. Preferisco un giocatore di buona volontà che non abbia la pretesa di essere un asso a un asso che metta se stesso davanti alle esigenze del gruppo». Il gioco offensivo, il ritiro, la personalità: la Salernitana si lancia così all’attacco della serie B.
Dodici squadre al via, la vincente in doppia finale contro la vincente di un altro girone. In campionato sarà un testa a testa col Vomero. Dopo il primo inciampo la Salernitana ne vince sette di fila, in casa poi è proprio insuperabile. Otto successi. Sommati agli ultimi sei della stagione precedente fanno 14 vittorie casalinghe consecutive: è ancora primato nella centenaria e gloriosa storia della Salernitana, sempre fiaccata in cento anni però da debolezze, instabilità, intromissioni politiche, crisi societarie. A febbraio, nonostante sia in testa e seguita con passione crescente nel nuovo stadio – il Littorio anni dopo sarà intitolato a Vestuti – è lacerata da dissidi interni. Kertèsz abbandona, lusingato dalla Catanzarese. Vuole a tutti i costi conquistare la B, al suo posto Silvio Stritzel, triestino nato sotto l’impero austro-ungarico che sulla panca granata ci resterà meno di un mese. Perché la Salernitana risolve la crisi, fa ricorso al Direttorio federale che, accogliendone le istanze, intima a Kertèsz di rientrare. Il tecnico torna e completa l’opera. La Salernitana stacca il Vomero, stravince il girone di Prima Divisione. Con 13 gol subiti è la difesa meno battuta tra tutte quelle dei gironi italiani di Prima Divisione. Col 73% di vittorie e un gioco spettacolare stacca il biglietto per la finale. La doppia sfida è contro il Cagliari, solo per una però si spalancheranno le porte della B. La porta granata la difende un ex juventino, Lipizer; all’andata in casa finisce in parità. Finisce male il ritorno in Sardegna contro gli isolani di Erbestein. La sconfitta, le polemiche, i veleni: accusato di due svarioni clamorosi, sospettato di aver “favorito” l’avversario dietro pressioni societarie, il portiere non rientrerà a Salerno. Anni dopo si darà alla pittura. Kertèsz no, continuerà a dipingere successi. Scende dalla nave ma non si ferma. Riprende il treno. Scende a Catanzaro. Con tutta la famiglia, c’è pure il cognato.
Vince subito in Calabria, al primo colpo. E’ l’eroe della città che festeggia un traguardo storico, i tifosi lo portano in trionfo, lo sommergono di doni. La promozione in serie B gli conferisce nuovo status e maggiore potere contrattuale, il facoltoso presidente Vespasiano Trigona di Misterbianco gli fa una corte spietata. A Catania gli mette a disposizione tutto, persino una villa dove portare in ritiro la squadra. Accetta, va e vince. Ancora. E’ la terza promozione consecutiva, è la serie B inedita anche per i siciliani. L’anno dopo sfiora la serie A, però finiti i soldi finisce pure l’idillio. L’anno dopo riparte da Taranto. Un’altra città di mare, un altro successo. Vince. Al primo colpo. Anche per Taranto è la prima storica volta in serie B. E’ tra gli allenatori più preparati, anche i grandi club del Nord gli fanno la corte, la Seconda Guerra non è ancora scoppiata. Lo chiama l’Atalanta, il sistema del tecnico magiaro anche a Bergamo si rivela una macchina perfetta che però s’inceppa proprio all’ultima giornata: in testa fino alla fine, cede in casa al Venezia promosso in serie A per il miglior quoziente reti. In serie A ci arriva comunque: a Roma, alla guida della Lazio che chiuderà poi sesta. Frequenta i circoli della capitale, conosce il principe Umberto che gli regala un porta-sigarette in argento, è amato e benvoluto. A Roma ci starebbe per sempre ma intanto il clima sta cambiando. E’ il 1940, la Guerra è cominciata, anche la sua panchina traballa.
Lascia Roma e ritorna a Salerno. La Salernitana punta al ritorno in serie B e ha cominciato con Hirzer, un altro ungherese, esonerato però dopo sei giornate da Scaramella nonostante il primato. Sono continue le critiche di tifosi e giornalisti: chiedono il bel gioco, invocano Kertèsz. L’ungherese firma, in squadra si ritrova un talento come Valese che segna e fa la spola con Foggia, costretto al servizio di leva. Si riparte col botto. Chiude in testa il girone d’andata, è l’unica squadra imbattuta in Italia. Poi però le cose si complicano, la squadra inizia a perdere colpi; salta pure Kertèsz, sollevato a quattro turni dalla fine. Un’altra fine però è vicina. Il clima nel quale si gioca è pesante, i tornei sono frazionati, la testa e il cuore di tutti sono presi dalla guerra. Gèza decide di lasciare l’Italia, la vita quotidiana è diventata uno slalom tra miserie, povertà, bombe, piombo. Altro che pallone. Torna in Ungheria, a casa pensa di ritrovare serenità e magari una squadra da allenare. L’Ungheria formalmente è ancora un Paese neutrale, fino al 1943 la vita scorre relativamente serena. Si sistema all’Ujpest, la rivale del Ferencavros alla cui guida è tornato Toth, l’amico. All’improvviso però tutto precipita. Anche l’Ungheria, anche Budapest cadono, avvolte dal piombo e dal terrore. L’occupazione nazista, le deportazioni, la caccia agli ebrei, la ferocia dei nylas. Il ghetto, le fucilazioni, i rastrellamenti. Gèza non si volta indietro. I suoi occhi non possono. Cinquemila deportati, sono soprattutto ebrei, raggiungono Auschwitz-Birkenau ogni giorno per tre mesi; l’Aktion Hoss è l’apice della capacità di sterminio tedesca. L’amico conosciuto a Roma lo contatta: entra così nel gruppo di Kovàcs.
Fa parte della cellula Melodia. Sono una ventina, c’è anche Istvàn: sono un gruppo di amici, si conoscono bene tutti. Calciatori, ex giocatori, allenatori. Sono uomini di sport, campioni di vita perché ora c’è una partita più importante da giocare. Abbandona la panchina e si rituffa in campo. Gèza si traveste da ufficiale, finge di arrestare intere famiglie di origine ebrea e invece le fa scappare. Il suo appartamento diventa un nascondiglio. Rischia la vita ogni giorno. Fino alla fine, fino al 6 dicembre del 1944 quando gli uomini della Gestapo entrano in casa. Il suo nome è sul taccuino sequestrato a Kovacs, l’hanno catturato dopo una delazione. In casa c’è la moglie, ci sono i due figli, s’è nascosta una coppia di ebrei. Nino, il figlio tredicenne, corre a chiamarlo, è in trattoria. “Hanno preso la mamma, vogliono portarla via”. Gèza potrebbe scappare ma torna a casa. Viene arrestato, in manette intanto ci è finito pure Toth. Vengono incarcerati nel Castello Reale diventato sede della Gestapo, l’ultima roccaforte della resistenza tedesca ormai alla fine. Pest è ormai persa, le truppe dell’Armata Rossa sono in città. Bombardano Buda, l’occupazione sulle dolci rive del Danubio sta finendo. L’orrore no, non ancora. I tedeschi si preparano alla fuga lasciandosi dietro però ancora sangue.
E’ il 6 febbraio del 1945. Sette mitragliate sparano a freddo. Sette corpi cadono, come foglie nel cortile del castello di Buda. Ce n’è uno che indossa una divisa militare, consunta, consumata, corrosa: è di un ufficiale della Wehrmacht, gli occhi sono spalancati, i due mesi di brutale prigionia sono in quei lividi neri, sul volto bianco. I proiettili l’hanno trafitto al cuore. Non è un soldato. Non è un ebreo. Non è un tedesco. E’ Gèza Kertèsz. E’ un ex giocatore, un allenatore, un ungherese. Semplicemente è uomo, un uomo che ha avuto coraggio. Accanto a lui, anche lui colpito a morte, c’è il corpo di Istvàn Tòth. Il bradipo e la carpa. La loro storia finisce così. Finisce in una fossa comune, sette giorni prima che l’intera città sia liberata. Sette giorni, solo sette giorni prima che finisca l’occupazione nazista.
Il 13 febbraio del 1945 gli occhi si spalancano sull’orrore. Su una città di morte che lentamente prova a lenire le ferite mentre i superstiti vanno in cerca dei morti. Caterina riconosce il corpo del padre dagli stivali, è passato quasi un anno. Il governo provvisorio gli riserva una tomba a Kerpesi, nella parte del “Cimitero degli Eroi”; accanto alla tomba ce n’è un’altra, lì riposa Tòth. Il bradipo e la carpa. Vicini, come sempre. Sepolti con tutti gli onori. Il tributo e la memoria però affonderanno presto, coperti e poi oscurati nella polvere prima dal regime stalinista, dal revisionismo che negli anni definirà come eroici solo i partigiani rossi e poi nell’ultimo decennio dalla deriva ultranazionalista, quella dell’estrema destra del primo ministro Orban. La storia di Gèza Kertèsz e del suo eroico esempio dimenticati, sconosciuti per cinquant’anni anche in Italia e poi per fortuna scoperti, difesi, applauditi, ricordati.
E’ una lettera di una familiare che rianima i cuori. Scrive da Budapest, scrive alla cugina che abita a Savona. La cugina si chiama Sandra, Sandra Kertèsz: è la nipote di Gèza, è la figlia di Nino. Il bambino nato a Salerno nel 1931. Alla fine della guerra, dopo la morte del padre, s’era trasferito in Italia, a casa dello zio in Calabria. Dieci anni dopo a Savona dove morirà nel 2012, a 81 anni. Professore di educazione tecnica, appassionato e bravo fotografo. Sessanta anni senza mai rivendicare nulla, il mondo del calcio italiano nemmeno saprà della sua esistenza, né del padre. La figlia Sandra riceve una lettera dalla cugina, da Budapest. “Vogliono sfrattare Gèza dal cimitero degli Eroi”, scrive. Sandra scrive una lettera, la pubblica un sito ligure. Nella lettera s’imbatte un tifoso catanese. E’ dalla Sicilia che comincia la battaglia, il passaparola arriva sino al Nord, a Bergamo. “Serve un aiuto dall’Italia, dite agli ungheresi chi era mio nonno”, scrive Sandra. A Catania si costituisce un comitato, si affronta l’oltraggio, le autorità cittadine scrivono in Ungheria, grazie ai tifosi una strada viene intitolata a Gèza Kertèsz. Catania non lo ha dimenticato. Nemmeno Bergamo, da tre anni c’è un centro sportivo che porta il suo nome. Lettere e gesti che sono serviti. Perché Gèza è ancora lì, dorme il sonno dei giusti nel cimitero di Kerpesi. Il cimitero degli Eroi. La sua tomba è tra fili d’erba. E’ dove merita: sopra un campo, lì su un prato.