Panetta e quel cuore d’oro nel vento

Dalla Calabria al tetto del Mondo. Il mezzofondista resterà nella storia per il gesto d'altruismo verso Lambruschini agli Europei di Helsinki
Francesco Panetta
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La corsa è uno sparo. E’ fuggire. Via, lontano. Magari sopra gli ostacoli, dentro le pozzanghere, superando barriere. Corri per emanciparti, per esserci, per estraniarti, per esplorare te stesso. Corri per vincere.

Corri perché ti piace, corri perché è questo che stai facendo anche adesso, in un pomeriggio scandinavo gonfio di pioggia. Le riviere si riempiono d’acqua, gli ostacoli sono diventati viscidi. Pare quasi una trappola.

Francesco Panetta, tu ora stai correndo per liberarti. Per liberare il tuo vento. Lo cerchi, quell’alito che ti spinga sopra, oltre l’ennesimo podio di una carriera feconda ma ormai finale, oltre quello sfavillìo di medaglie europee e mondiali che hanno trasformato quel ragazzo di Siderno timido, miope e capellone nel “Ragazzo di Calabria”. L’atleta che insieme a Cova, Mei e Antibo, ha reso l’Italia locomotiva del mezzofondo mondiale in un decennio d’oro, quello a cavallo tra la metà degli anni ’80 e ‘90. Anni di campioni, idoli, esempi.

Luigi Comencini ci ha girato pure un film: “Il Ragazzo di Calabria”, la storia di Mimì, un bambino di un piccolo centro in provincia di Reggio Calabria che nel ‘60 resta affascinato dall’impresa di Bikila nella maratona olimpica di Roma terminata sotto l’arco di Traiano illuminato dalle fiaccole. Mimì corre scalzo perché non ha soldi per comprare le scarpette, ma sogna comunque di arrivarci, a Roma. Inizia a correre di nascosto dal papà che vorrebbe studiasse per evitare un futuro di miseria e povertà, mentre la mamma gli cuce delle scarpe che lui non calza per non rovinarle e l’autista di una corriera diventa il suo allenatore, fino a portarlo alla vittoria dei Giochi della Gioventù. Proprio a Roma.

Una storia, liberamente ispirata a quella di Francesco Panetta, che esce nelle sale proprio nel 1987, l’anno dell’oro mondiale a Roma sui tremila siepi. E’ un lungo viaggio quello che l’ha portato per davvero a Roma. Un viaggio cominciato a Siderno, con un paio di Adidas modello “sl76” regalate dal padre, un marittimo che sta spesso lontano da casa. Semplici scarpe da tennis che, insieme a dei pantaloncini di raso rosso cuciti dalla mamma, si infilò per la prima volta alla Marcialonga di Capodanno del 1977 organizzata in paese. Marcialonga vinta a quattordici anni, battendo tal Benito Belligerante, avversario ancora più temibile dei keniani che avrebbe incontrato successivamente.

Da allora una rincorsa frenetica, smaniosa, inarrestabile. I Giochi della Gioventù, poi le prime convocazioni in nazionale, le corse campestri, le amate gare di cross dove ci si sporca di fango e di terra ma sono quelle dove si impara a soffrire e a inseguire quell’alito di vento, le vittorie. Sempre di corsa, tutto sempre un po’ fuori dal coro. A Siderno ormai lo chiamano tutti Frank,  e sono tutti pronti a salutarlo quando sale sul treno. Anche lui un emigrante. Anche lui va a Milano. Passa alla Pro Patria, entra nella corte di Giorgio Rondelli, il tecnico che lo forgia, che lo fa crescere mentre lui sfida pure i tram nella Milano avvolta dalla nebbia. Di notte, al volante di una A112, ne studia di percorsi. Corre, ma impara anche ad andar piano, a contenersi. “Ogni volta che stabilivo un personale, Rondelli mi faceva competere con i meno bravi. Mi diceva: solo quando riuscirai a tener a bada i più lenti, allora potrai confrontarti con i migliori. Allenarsi significa imparare a fare le cose che non sai fare”, ha scritto nel libro “Io corro da solo”, pubblicato nel 2017, a carriera più che finita.

Corse da solo anche quel giorno, nella notte in cui l’Italia spalancò gli occhi e si prese la cotta per questo calabrese trapiantato a Milano, asciutto, tignoso, tenace. Era ad agosto, era il 1986, era a Stoccarda. Pioveva, anche allora. Un ventitreenne calabrese sconosciuto all’Italia figurarsi al Mondo, partì come un razzo, correndo da solo nel guscio del Neckarstadion: lì decise di alzare le vele e andare in solitario, accumulò margine crescente. E a ogni passaggio lo stadio fremeva, e la gente si chiedeva: “E’ matto, ce la farà? No dai, lo prenderanno”. Due tedeschi, uno dell’Est e uno dell’Ovest lo raggiunsero e superarono, proprio sull’ultimo rettilineo: il suo destino pareva quello del gregario che aveva osato troppo in un’avventura senza senso. Eppure proprio in quel momento la reazione e la caparbietà si fusero e quelle ginocchia piegate ripresero a spingere. Solo il tedesco dell’Est Hagen Melzer mise il naso davanti. Per venti centesimi. Argento, in una gara che non avrebbe dovuto nemmeno correre. Doveva fare i diecimila, ma l’Italia ripiegò su Mei, Cova e Antibo che in quest’ordine finirono poi sul podio, in un’altra serata indimenticabile dell’atletica italiana. Magie frutto di sacrifici, sudore, speranze. Che arrivano sempre lì, alla partenza. Pronte a correre.

Appena arriva quello sparo. E’ come un botto. Si scatta, si va. Anche stavolta. Anche se l’orizzonte è cambiato. Adesso pare una fessura, ma è lì che guardi. Le emozioni che hanno trascinato e fatto palpitare l’Italia, a Stoccarda, poi a Roma e poi Spalato le hai regalate più agli spettatori, perché tu eri preso solo da quella corsa frenetica. Tu a decidere il ritmo, tu come sopra un ring a dettare la tua legge.

E’ il 12 agosto del 1994 e adesso stai cercando un’emozione che sia solo tua. Magari la più bella, magari perché forse sai che può essere l’ultima. Ma deve essere soltanto tua, questo ti ripeti prima dello sparo, dello start, del via. Cerchi un alito di vento, una traccia invisibile, qualcosa cui aggrapparti per correre ancora. Ancora. A modo tuo.

“Io corro da solo. Perché correre è uno stato d’animo, è un modo di essere. Correre è uno stato di grazia”: in fondo sono le tue parole, sono quelle con le quali hai raccontato chi eri e da dove venivi nel giorno in cui il Mondo cadde ai tuoi piedi, sfinito lui da quella forza assoluta, ammaliato da quella caparbia corsa in solitario, stupito da quella fuga senza calcoli, senza risparmio. Senza rituali nè messinscena.

Come quella volta. Era l’anno 1987. Era il 5 settembre quando ventiquattrenne ti prendesti l’oro mondiale sui tremila siepi, la terra dominio dei keniani, gazzelle e antilopi. Imprendibili, inarrivabili, ineguagliabili. Eppure alla fine alle tue spalle, così come i tedeschi dell’Est e gli scandinavi, gli specialisti del mezzofondo e delle siepi europee. Derubandoli a viso aperto ma senza che loro nemmeno se ne accorgessero. Sfidandoli sul loro terreno. Te ne eri andato da solo, al terzo giro. Solo saresti arrivato al traguardo, con gli occhi spalancati e col pugno alzato, come solo un ciclista che ha appena vinto sulla cima Coppi, come solo un canottiere quando ha tagliato il traguardo sulle acque svizzere del Rotsee. Una fatica tremenda. Dopo sette giri di pista, dopo ostacoli e riviere, dopo salti e allunghi, dopo l’argento sui diecimila metri piani, conquistato appena sei giorni prima. Non un cedimento. Non un rallentamento. Il volto che penzola e gli occhi fissi. Lì, al traguardo.

“Me la volevo godere a fondo, me la volevo godere da solo”: è così che la descrivesti, un attimo dopo aver varcato quell’agognata linea bianca, quella tua folle corsa dentro uno stadio pieno. Ottantamila persone che trepidavano, che ti accompagnavano, che ti spronavano. E poi otto minuti e otto secondi dopo, ottantamila esauste, ebbre. Sfinite, su quei gradoni. In attesa dell’inno, del tricolore, dell’orgoglio. E insieme a loro milioni d’italiani davanti alla tv, sbalzati dal divano al primo allungo, come se anche loro stessero correndo insieme a te, paralizzati e poi impazziti ascoltando quell’inimitabile voce di Paolo Rosi che ancora risuona. “Ha vinto, ha vinto, non lo riprendono, non lo riprendono. Ha vinto”. Lo stadio era l’Olimpico di Roma e sembrava di stare a un Roma-Lazio: bandiere e cori, esultanze e abbracci come fosse stato il gol vittoria di Pruzzo o Giordano nel derby, ma di certo non la finale mondiale dei tremila siepi. La tua gara.

C’è sempre un traguardo nella corsa di ognuno, e il tuo adesso ha sette anni in più. Però il rumore del via non è cambiato, fa sempre lo stesso effetto. Lo stesso frastuono.

Eccolo, lo sparo. Anche stavolta lo stadio si chiama Olimpico ma è quello di Helsinki. Sei in Finlandia, è il 12 agosto del 1994, sono i campionati Europei. Parti da campione in carica perchè a Spalato nel 1990 vincesti dopo un’altra gara, condotta in solitario per duemila e ottocento metri. Quel succhiaruote di Rowland però s’era attaccato come una sanguisuga superandoti a duecento metri dal traguardo, ma tu, testardo, tenace, tosto, te lo saresti divorato negli ultimi venti metri. In una successione folgorante, con Marco Franzelli che ai microfoni Rai alla fine si scusa con te perché pensava non ce l’avresti fatta, “ci scuserà Panetta se abbiamo dubitato di lei”: e invece quei centesimi che si succedono rapidi in un vortice che rapisce, che inghiotte, che stupisce. Sì, quei centesimi in un fazzoletto di metri diventano rimonta, affiancamento, sorpasso.

Adesso invece sei in Finlandia che è un po’ la tua terra, lì dove ti sei allenato per anni, i collegiali con Alberto Cova e il tecnico Giorgio Rondelli, e a fine giornata una spaghettata olio e parmigiano, tanto per sentirsi un po’ meno lontani da casa. Sono passati sette anni da quel giorno iridato di Roma, adesso hai il pizzetto e sei quasi calvo, hai la bandana sulla fronte e sembri un pirata, e non si capisce se tu somigli a quel pirata che vola in salita mulinando pedali che si chiama Marco Pantani, oppure è il contrario.

Comunque lo sparo è partito. E’ un botto. Tu corri. Cerchi una traccia invisibile, qualcosa cui aggrapparti per dimostrare a te stesso che gli anni ti hanno fatto crescere, ti hanno regalato i successi e la fama, ma non ti hanno mica cambiato, non ti hanno estorto quel desiderio di corsa senza calcoli, di voler superare il limite di se stessi. Magari ti hanno tolto la forza, certo non la fierezza e nemmeno il coraggio. Non sei il favorito, semmai il favorito è un altro italiano. Si chiama Alessandro Lambruschini, toscano di Fucecchio come Indro Montanelli: dicono sia il tuo successore, ai Mondiali l’anno prima a Stoccarda ha conquistato il bronzo quando tu non c’eri. Provasti sui diecimila, chiusi nelle retrovie come i diecimila che hai corso a Helsinki tre giorni prima di questo tremila siepi nei quali c’è anche un altro azzurro che insegue una medaglia, perchè Angelo Carosi dopo una vita da mediano sogna anche lui un gol da centravanti.

Tu in prima linea ci sei da dieci anni, hai portato l’Italia sul tetto del Mondo e adesso vorresti goderti un’ultima affacciata. Hai detto no alla tattica di squadra, “ho diritto a fare la mia gara”, questo hai ripetuto al ct persino cinque minuti prima della chiamata in pista. Sanguigno ma giusto. Secco e severo, come solo uno sparo.

Lo sparo intanto è partito, e tu corri. Corri come quando eri bambino, a Siderno. Quando acceleravi per fuggire dagli scherzi dei più grandi, quando scappavi a prendere il treno per non perdere le gare di corsa campestre, quando allungavi nei campi e, dopo averli seminati, gli avversari ti trovavano lì ad aspettarli, con una corda in mano ad acchiappare lucertole tanto per ingannare l’attesa. Ma adesso non c’è da andar per campi a cercar rospi e lucertole, adesso c’è da pensare all’ultima gara. Cerchi un alito di vento, una traccia invisibile, qualcosa cui aggrapparti per correre ancora.

Inizi senza assaltare, quasi senza partire. Ti tieni, ti trattieni, quasi ti defili. Poi però al secondo giro, alla barriera prima del rettilineo, Lambruschini inciampa. Casca. Cade. Tu l’hai sorpassato, e quando te ne accorgi che fai? Ti fermi, torni indietro. Gli dai un colpetto sulla spalla, passando stretto in curva: “Alzati, non è niente” gli dici mentre gli tendi una mano, poi gli dai pure l’altra. Lo rialzi, lo rimetti in piedi, lo riporti in corsa. Lo affianchi nei metri dopo la caduta. “Stai tranquillo, non farti prendere dal panico, tanto vinci lo stesso”, gli sussurri. E quando la gara sta morendo, come ipnotizzata dalla mancanza d’iniziative, quando si rischia la beffa, che qualche succhiaruote ne approfitti e mandi a gambe all’aria l’Italia, ti metti a correre tu. Sai che è una tattica suicida, sai che ti prosciugherà le forze. Non era quello che avevi immaginato, non era così che volevi chiuderla, la tua carriera. Però è dentro che senti di doverlo fare. E lo fai. Allora allunghi, ti metti in testa al gruppo. Uno sbuffo, una sgasata, una sterzata al destino. E’ quell’alito di vento che aspettavi. Sgrani la fila degli avversari di Lambruschini e Carosi, rimetti a posto la corsa per loro due che si mettono in scia e poi partono. Se ne vanno. Tu sei sfinito, ti tiri indietro, lasci la scena e le medaglie a loro due, mentre tu inciampi nel piede di un altro corridore. Quasi cadi, ti tieni in piedi. Ma non lasci, non molli. Resisti. Tagli il traguardo quando la gara è già finita. Lambruschini sta nuotando beato nell’oro e Carosi stupito nell’argento, eppure sono proprio loro a venire da te. La telecamera vi sorprende nell’abbraccio.

E’ un groviglio eppure l’immagine è nitida, l’obiettivo della telecamera è bagnato dalle gocce di pioggia e si bagnano di lacrime gli occhi ancora adesso, a riguardarla. Si scorgono due atleti che hanno appena vinto una medaglia, e poi se ne vede un altro. E’ arrivato ottavo eppure è lui che è diventato campione, è lui che è appena entrato nella storia. Per restarci. Per sempre. Perché nel palmares i numeri scoloriscono e si confondono, mentre certi gesti, testimoni del tempo, resistono a tutto, specie alla memoria.

“I campioni sono quelli che vogliono lasciare il loro sport in condizioni migliori rispetto a quando hanno iniziato a praticarlo”. L’ha scritto un numero uno dello sport mondiale, un coraggioso e insuperato alfiere delle lotte sociali e razziali, Arthur Ashe. Vale pure per te, Francesco Panetta. Che quel giorno di agosto del 1994 hai trasformato l’impossibile in normale. Hai rinunciato a vincere, superando i limiti imposti dalla mente. Lasciando che a decidere fosse il cuore. E quello sparo ancora si sente.

 

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