Scendono. Sembrano palle di neve che rotolano. Scendono, uno dopo l’altro. Vengono giù dalla montagna, accelerano lungo un canalino buio e ripido. Rotolano. Travolgono tutto. Scendono dalla cresta di una montagna che si chiama Jenner, di fronte si staglia la Kehlstein. Lì in cima c’è il “Nido delle aquile” che s’affaccia su uno strapiombo, è stata la residenza estiva di Adolf Hitler: sono le vette della Baviera meridionale, venti chilometri dall’austriaca Salisburgo, l’Italia geograficamente non è poi così lontana. E’ uno scenario da favola che sta per diventare il teatro di un’impresa leggendaria. Quella di una valanga. La valanga azzurra.
E’ il 7 gennaio del 1974, è di lunedì, è lo slalom gigante di Berchtesgaden. Il cielo è coperto, il pendio non è ghiacciato però è ripido. La pista è corta, la tracciatura è angolata, dopo il salto dal cancelletto “hop, hop”: sono tutte curve, tutte curve da tagliare dritte per non inforcare, per non rallentare. Bisogna sfiorarla appena, quella neve quasi fresca. Bisogna carezzarli, quei paletti rigidi. Vengono giù da lì, dall’alto, scendono uno dopo l’altro. Rotolano come palle di neve, non sono bianche ma tinte di azzurro. Hanno i maglioni di lana e i capelli lunghi, hanno facce abbronzate e le scocche rosse, hanno i volti di una gioventù fresca, fiera, festosa. Hanno nomi e cognomi che sono uno scioglilingua, hanno accenti inascoltati e poche sono le parole che hanno da offrire. Sembrano stranieri e invece arrivano da cime, valli e pendii lombardi, piemontesi, aostani, altoatesini, trentini. Venti giorni prima l’allenatore degli slalomisti Oreste Peccedi ha urlato contro di loro, senza nemmeno guardarli negli occhi sul traguardo del gigante di Saalbach, quattro austriaci tra i primi cinque all’arrivo di quello slalom: “Sono qui per insegnarvi a vincere, non a sciare”. Quella sferzata li ha come liberati dalle paure, ha tolto il freno all’impeto.
Così adesso si sono buttati dal cancelletto, così adesso sfidano a viso scoperto gli austriaci, i francesi, gli svizzeri. Da sempre i padroni mondiali dello sci alpino. Vengono giù, uno dopo l’altro fendono il traguardo. L’ordine di arrivo ogni volta s’aggiorna perché c’è da aggiungerne un altro, un altro ancora alla classifica finale. Non ci sono le telecamere perché la tv tedesca ha scelto di non coprire la trasmissione in eurovisione: troppo complicato e troppo costoso far arrivare attrezzature e i ponti lì in cima, la funivia è vecchia e non reggerebbe il peso. Non ci sono nemmeno più i fotografi sul piazzale, tutti sono già fuggiti a trasmettere le foto del podio perché non esiste la tecnologia digitale, le fotografie vanno sviluppate e poi teletrasmesse: sono andati via troppo in fretta, anche loro non hanno fatto bene i conti con quella valanga. Ne è rimasto solo uno, si chiama Massimo Sperotti: coglie il frutto unico di quella paziente attesa con uno scatto che resterà per sempre nella storia. Nella storia dello sci, nella storia dello sport mondiale. Un flash sul traguardo mentre lo striscione è sferzato dalle urla austriache di Toni Sailer, urla che scuotono i suoi campioni, sconfitti e sculacciati. Tutti hanno la testa bassa, tutti sono arrivati dietro quelli là: “Da oggi vi allenerete giorno e notte. Questi qui fanno proprio paura, quelli là adesso si prenderanno tutto”.

Questi qui e quelli là sono scesi come palle di neve. Uno dopo l’altro. Primo Piero Gros, secondo Gustav Thöni, terzo Erwin Stricker, quarto Helmut Schmalzl, quinto Tino Pietrogiovanna. Cinque italiani occupano i primi cinque posti, il sesto è di un norvegese: si chiama Haker e accusa un distacco di oltre 4 secondi. E’ il 7 gennaio del 1974, è l’ordine d’arrivo definitivo dello slalom gigante di Berchtesgaden valido come terza prova di specialità dell’ottava edizione della Coppa del Mondo di sci. E’ appena nata la Valanga azzurra. E’ un trionfo epocale. L’inizio di un’era. La travolgente storia di un dominio, un dominio sulle nevi proprio mentre l’Italia sta andando definitivamente a rotoli nella vita di tutti i giorni. Travolta dalla crisi economica, colpita a tradimento dalla lotta eversiva, macchiata dai proiettili e dalle bombe fasciste e terroriste. E’ divisa dai contrasti di classe. Strozzata dalla sofferenza energetica che invece si rivelerà poi essere soltanto una colossale truffa ordita da faccendieri, finanzieri, petrolieri, politici. E’ attraversata da scandali: le mazzette e le tangenti cominciano a rotolare pure loro lungo lo Stivale, una dopo l’altra. Scandalo petroli parte uno, scandalo Enel, scandalo petroli parte due. Mazzette e scandali, presto anche quelle si trasformeranno in un’altra valanga.
E’ il 1974, è l’anno in cui in Italia si voterà per il divorzio, 73mila operai della Fiat saranno messi in cassa integrazione, le bombe faranno stragi a Piazza della Loggia e sul treno Italicus, morirà Vittorio De Sica e l’anarchica Lazio di Maestrelli e Chinaglia vincerà lo scudetto mentre la nazionale di calcio ai Mondiali in Germania uscirà al primo turno, accolta dai pomodori al rientro in patria.

E’ il 1974 che arriva come una stella senza più luce: la nazione è al buio, al lumicino. E’ allo stremo. Viene coniato un nuovo termine, uno dei primi in inglese che purtroppo poi diventeranno d’uso comune: austerity. A novembre del 1973 il terzo governo Rumor ha varato il codice dell’austerità. Sono sedici punti, tra i quali: il rincaro del prezzo dei carburanti da trasporto e del gasolio da riscaldamento, il taglio dell’illuminazione pubblica, la riduzione degli orari di negozi e uffici pubblici, la chiusura anticipata per cinema, bar e ristoranti, la sospensione alle ore 22.45 dei programmi televisivi, il divieto di circolazione automobilistica nei giorni festivi salve comprovate esigenze ed emergenze. Si vive nel coprifuoco, si vive male, si vive chiusi in casa. No, non è il 2020. E’ il 1974. E’ l’anno in cui bisogna fare i conti con la crisi energetica: il prezzo di un barile di petrolio è quadruplicato in pochi giorni, fino a schizzare. Tre dollari all’inizio di ottobre del 1973 e dodici dollari appena venti giorni dopo, giusto il tempo che la guerra dello Yom Kippur avesse un inizio e una fine. L’aumento dei prezzi è nella risposta dell’Opec, l’organizzazione mondiale dei paesi produttori petroliferi che ha varato il taglio della produzione e poi l’embargo nei confronti degli Stati Uniti e di tutti i Paesi che hanno appoggiato direttamente e indirettamente Israele nell’azione di risposta militare contro l’offensiva di Siria e l’Egitto nel nome della Palestina e della Penisola araba. Il 2 dicembre del 1973 data epocale, la prima “Domenica a piedi” italiana. Stop alle auto private e agli altri veicoli a motore non autorizzati: si va in bici e persino a piedi, in autostrada. Scatti costruiti, forzati. Sorrisi spenti, di facciata. La crisi energetica blocca l’Italia, ne arresta la produzione, mette definitivamente fine alla parabola del miracolo economico che negli anni ’60 le ha dato una spinta clamorosa.
Aumenta tutto, i prezzi dei beni di consumo e dei beni primari arrivano alle stelle, il blocco delle importazioni farà il resto: la carne ormai diventata d’uso comune, torna a riempire i piatti solo di domenica. E non in tutte le case. Su “Il Corriere della Sera” – intanto ha subito rincari anche il prezzo dei quotidiani che costano 100 lire – il 4 di gennaio campeggia un’inchiesta di Giampaolo Pansa. Il titolo è eloquente: “Vivere con ventimila lire”. E’ un viaggio tra la crisi energetica e la borsa della spesa degli italiani. Dalla tavola dei pensionati l’aumento dei prezzi ogni settimana porta via una fetta di carne, un chilo di verdura, tre di frutta: così scrive il giornalista che qualche anno dopo passerà a “la Repubblica”. Cattivo tempo per la Repubblica italiana. I conti sono in rosso, il Governo cerca rimedi e soluzioni ma sono soltanto tamponi che nel tempo si riveleranno nefasti. Diventeranno macigni per le future generazioni: aumenta di tre punti il costo del denaro, l’emissione di buoni e obbligazioni inizia a ingrossare il debito pubblico, massa abnorme di cui adesso s’è perso persino il conto. La lira viene svalutata del 10%, il ministro dell’Industria Ciriaco De Mita vara provvedimenti contestati dai lavoratori che scendono nelle piazze: quei provvedimenti, gridano, sono soltanto un favore a Confindustria presieduta da Gianni Agnelli che sferza e ammonisce, che quasi redarguisce: “La crisi è grave, saranno tempi lunghi e grami”. Sì, comincia tutto proprio nel 1974. Come una valanga. Come la valanga azzurra, quella sì frutto di un lavoro meticoloso, professionale, esaltante. Frutto di un lavoro durato anni, quella nazionale. Frutto di una visione straordinaria.

Sono gli straordinari ragazzi di Mario Cotelli. Li ha presi nel 1968, scelto dall’allora dt Vuarnet colpito dai modi di quel venticinquenne coi baffi laureando in Economia e Commercio alla Bocconi, colpito da quel suo modo di allenare i ragazzi di una scuola di sci di Caspoggio, piccolo centro della Valtellina, lì dove al Trofeo Topolino quei ragazzi mettono in riga tutti, ma proprio tutti. “Ho bisogno di uno fuori dagli standard”, gli chiede il direttore tecnico di un movimento che non ha uno sciatore tra i primi trenta al Mondo. Cotelli dice sì, ma a modo suo. “Va bene però parto dalla squadra B, parto dai miei ragazzi, parto dai mei metodi”. E’ così che inizia un’avventura che sconvolgerà lo sci mondiale, che porterà come nessuna nazione, mai prima e mai dopo, a dominare lo sci alpino per un intero decennio. Sceglie metodologie rivoluzionarie negli allenamenti, impone training più assidui e impegnativi, punta su una tattica di gara più aggressiva, incendia e infiamma la competizione interna, divide le sedute per specialità, apre all’innovazione. Ha una visione, ha l’ambizione, ha carta bianca, ha un intero gruppo di ragazzi che lo segue: Rolando Thoeni, Pegorari, Besson, i cugini Schmalzl, Varallo, Demetz, Zandegiacomo, Anzi. Cominciano ad affacciarsi con padronanza sulle piste di Coppa Europa e Coppa del Mondo. Da quelle piste sta però spuntando l’asso, il fuoriclasse, quello che trascinerà il movimento. Si chiama Gustavo Thöni, a 18 anni – è marzo del 1969 – in Val d’Isere vince la sua prima gara di Coppa del Mondo. Ha uno stile inimitabile. E’ controllato e tecnico, è capace d’improvvisi cambi di ritmo: in pochi centimetri riduce il raggio della curva e innesta una marcia che nessun altro ha. Soprattutto, ha poca voglia di parlare e molta di vincere. Non si accontenta lui, non si accontenta Cotelli. I primi successi accendono l’interesse di aziende che intuiscono la possibilità di aumentare la loro visibilità, soprattutto di fatturare. Mario Cotelli ha una visione completa, ha un orizzonte, ha la scintilla. Così coglie al volo l’opportunità di rilanciare in grande stile tutto il movimento.
Nasce il pool dei fornitori dello sci azzurro che fa da supporto finanziario e tecnico: gli scarponi di cuoio lasciano il passo a quelli di plastica, nascono le prime tute elasticizzate che aumentano l’aerodinamica. La Colmar, la Ellesse, la Nordica: i laboratori artigianali si trasformano in industrie. Il made in Italy inizia a far tendenza pure nell’abbigliamento da sci. La Spalding-Persenico fornisce gran parte degli gli sci agli azzurri: iconici diventano i “Formula Uno”, vanno via più dei Fischer e Rossignol. Si studiano i preparati per le scioline che fanno scorrere le lame degli sci. La Samas confeziona le giacche a vento imbottite, la Ellesse introduce i pantaloni sormontati da ginocchiere, la Lefont il gilet a vento senza maniche, La Tecnica lancia i doposci impermeabili: i Moon Boot. Intanto sulla scia di Thöni, si preparano e si affacciano altri giovani talenti: Plank, Pegorari, Stricker, Amplatz, Bieler, Radici e Gros rafforzano una squadra che presto diventerà imbattibile mentre tra le donne cresce Claudia Giordani, la figlia del giornalista di basket Aldo Giordani.

Dal ‘68 al ’74 è un crescendo rossiniano. Cotelli convince importanti gruppi industriali a investire, il marketing applicato allo sport coinvolge la Lancia, la divisione statunitense dell’Alitalia, la Cariplo e la Parmalat: tutte abbinano i loro marchi all’immagine della nazionale. Una cosa mai vista, nello sport azzurro. Cotelli ha intanto convinto la Federazione e l’Italia che con i suoi metodi, si vince. Allenatore della squadra B maschile a 25 anni e della prima squadra a 26, responsabile del settore maschile e vicedirettore tecnico a 27. Direttore tecnico dello sci italiano a 29 anni: così comincia il 1974.
L’Italia dello sci ha già compiuto passi da gigante, ha colto vittorie impensate, emozionanti, ha fatto diventare quello sport considerato elitario uno sport seguito, praticato, ammirato: Gustavo Thöni ha vinto tre volte (‘71, ‘72, ‘73) la Coppa del Mondo e alle Olimpiadi di Sapporo del ‘72 ha conquistato l’oro nel gigante e l’argento nello slalom chiudendo davanti al cugino Rolando. Il 18enne Pierino Gros al suo esordio in Coppa, pettorale numero 43, ha sbaragliato la concorrenza solo qualche mese prima in uno slalom speciale. Sono successi importanti. Sono però soprattutto gli acuti di un fuoriclasse, quelli di Thöni. Non un dominio. Non il primato della scuola. Quello è dei francesi, degli svizzeri, degli austriaci. Sono loro i campioni della neve. Gli italiani invece un mese prima sono miseramente affondati nella neve fresca. Il gigante di Saalbach, quattro austriaci nei primi quattro posti. «Ci hanno fatto scendere con mezzo metro di neve fresca e in quella siamo affondati, ci hanno umiliati», dice il dt. Lui gli azzurri li ha portati fino in cima. Ora tocca a loro scendere, spetta a loro dimostrare di essere i più forti. A Berchtesgaden. Il 7 gennaio del 1974.
“Scommettiamo che arrivo tra i primi tre, scommettiamo che vi metto in fila tutti”: comincia con uno scherzo ma poi gli animi si surriscaldano nel gabbiotto delle partenze lì in cima. Erwin Stricker, detto anche “Cavallo pazzo” si rivolge agli austriaci. Lui è dodicesimo dopo la prima manche, ripresa per i capelli dopo aver saltato una porta: non s’è perso d’animo, è risalito, ha girato intorno alla porta e ha tagliato il traguardo. Piero Gros è primo nella classifica parziale, a quasi un secondo c’è Thöni, poi l’austriaco Hauser, quarto a più di un secondo e mezzo invece un altro italiano, Helmut Schmalzl. Poi, in fila, svizzeri, austriaci, tedeschi e norvegesi. Stricker ha un ritardo di 2 secondi e 43 centesimi, ancor più pesante il distacco del quinto italiano. E’ quindicesimo, è Tino Pierogiovanna detto anche “il colonnello” per quei suoi baffoni, detto pure “l’elicottero” per quel suo modo di impugnare i bastoncini, roteando. “Scommettiamo che vado sul podio”, continua Stricker che prova a innervosire gli austriaci. Gli animi si surriscaldano, intervengono i tecnici a separare tutti. Parte la seconda manche, l’ha disegnata un tedesco. E’ un po’ più angolata della prima, è un po’ più lunga. Bisogna girarci di più nelle curve, serve maggiore attenzione intorno alle porte. Il pendio è ripido, il canaletto è buio, però la temperatura si è alzata, la neve si sta “spaccando”. C’è bisogna di maggior tecnica: sì, questa gara stabilirà chi sono i più bravi. Si parte dal primo della classifica parziale. Gros scende senza tremiti, riduce solo di un po’ l’irruenza, cerca lo scavetto giusto, stampa il miglior tempo un’altra volta. Thöni ci prova ma non rischia troppo, quasi si accontenta. Secondo. Tocca all’austriaco Hauser che rischia: salta dopo appena quattro porte. Rischia di saltare pure Schmalzl che però riesce a tenersi in equilibrio. Taglia il traguardo. Terzo, nella classifica ancora parziale. Tocca agli altri, adesso. Niente: austriaci, svizzeri e norvegesi restano tutti dietro. La vittoria è azzurra, il podio è tutto azzurro: è la prima volta per l’Italia. Primo Gros, secondo Thoeni, terzo Schmalzl. Non ci sono telecamere a riprendere le immagini. I fotografi scattano le foto e corrono via, di fretta a sviluppare per poi teletrasmettere. Tra il primo e il secondo gruppo c’è un intervallo lungo. E quelli dalla decima posizione in poi accusano distacchi abissali. No, impossibile che accada. Quello è il podio.
Il gigantista deve essere freddo e calcolatore, deve mantenere la calma, deve ragionare anche quando pensa di non avere tempo. Non è come lo slalomista che deve mordere i pali, scuoterli, abbatterli. Non è come il discesista che dal cancelletto al traguardo deve solo far correre gli sci, che deve solo accelerare. No, il gigantista deve correre ma deve pure ragionare, deve girare intorno a quelle porte senza però frenare. Stricker freme, invece. In palio ci sarebbe la scommessa con gli austriaci, e poi anche un posto nel quartetto azzurro che parteciperà ai Mondiali di Sankt Moritz. Incendiato da una rabbia agonistica furibonda, fa una prova da kamikaze appena sbuca dal cancelletto: il secondo miglior tempo di manche gli vale il terzo posto, Schmalzl retrocede al quarto della classifica finale. Gli austriaci punti e puniti nell’orgoglio: umiliati, sorpassati, surclassati. Sailer impreca, Cotelli invece sotto i baffi gongola. Ma non è mica finita. No, non ancora. E’ partito con il numero 43, un pettorale altissimo. Eppure nella prima manche Tino Pietrogiovanna ha già fatto un miracolo, ha segnato il quindicesimo tempo. Nella seconda manche, galvanizzato dal piazzamento dei compagni, compie un capolavoro: scende sopra una neve spaccata, vola sopra i buchi, taglia il traguardo col terzo tempo parziale. E’ quinto nella classifica finale di quello storico e strepitoso slalom gigante. E’ il trionfo. E’ la cinquina che resterà per sempre nella storia dello sport mondiale. Un’autentica impresa. A Berchtsgaden. Il 7 gennaio del 1974.
Il nido delle aquile adesso è diventato il nido degli azzurri. Per fortuna che sul traguardo sia rimasto un fotografo: è un solo scatto, ma quello dell’italiano Massimo Sperotti sì, farà davvero il giro del Mondo. Sei giorni dopo si disputa un altro gigante. Stavolta a Morzine, in Francia. La Gazzetta dello Sport ha inviato Massimo Di Marco: assente in Germania, la sera prima della gara in albergo si fa raccontare da Cotelli l’impresa di Berchtsgaden. Sembra di riviverla. «I cinque sono stati come palle di neve che, rotolando, diventano valanga». Il giorno dopo, un’altra alba. Primo Gros, terzo Thöni, quarto Stricker, quinto Schmalzl. Il traguardo dello slalom gigante di Morzine appena travolto da un’altra valanga. “La valanga azzurra”: è così che titola il giorno dopo la Gazzetta dello Sport in prima.

L’Italia che è al buio, al lumicino, allo stremo, si sveglia finalmente con un sussulto d’orgoglio, di riscatto, di speranza. “L’unica notizia confortante, fra le tante fosche di questo periodo, ce l’hanno fornita in questi giorni gli sciatori italiani, suscitando con le loro vittorie ventate di entusiasmo in un Paese preoccupato e teso… E’ un momento in cui stiamo prendendo schiaffi da tutti. Dalle grandi potenze come dai Paesi più piccoli. Ci rendiamo conto di andare a rimorchio di chiunque possa aprire o chiudere il rubinetto di un barile di petrolio. Constatiamo con amarezza che non solo il Mondo, ma l’Europa e gli stessi Paesi del Mediterraneo operano e procedono senza tener in alcun conto non solo i nostri interessi, ma tutto ciò che noi possiamo dire o pensare. E’ in questo clima che dallo sci azzurro arrivano trionfali notizie: cinque italiani nei primi cinque in una gara di Coppa del Mondo, quattro nei primi cinque in quella successiva. Non è il miracolo di un fuoriclasse, è il trionfo di una scuola. Che conta, fra tante avversità? Eppure per qualche ora ci basta: sul piano psicologico è come una boccata d’ossigeno per chi non riesce neppure più a respirare. Ma in queste vittorie c’è qualcosa in più che un pretesto per inorgoglirci o distrarci. E’ la riprova che, quando lavoriamo seriamente in profondità, i risultati non mancano mai… Lo sci italiano, oltre a offrirci conforto psicologico, ci ha anche ricordato una realtà: quando lavoriamo seriamente, non siamo secondi a nessuno. Perché, allora, non proviamo a operare con altrettanta serietà, con altrettanto impegno, con altrettanto scrupolo, in tanti settori più importanti e più utili al futuro del Paese, al nostro futuro?”. Così scrive un maestro vero del giornalismo italiano. Sono le parole di Gino Palumbo in un fondo di prima pagina su “Il Corriere della Sera”. Il messaggio che recapita all’Italia è chiaro: siamo al buio, siamo al lumicino, siamo travolti da scandali e divisioni, siamo impantanati in una politica senza visioni, siamo derisi e deboli, ma perché non ci rimettiamo in piedi, perché non ci mettiamo anche noi gli sci ai piedi e ricominciamo a correre, a costruire, a vincere? Le parole arrivano mentre sta per venire alla luce la più colossale truffa ordita alle casse dello Stato, una pugnalata alle spalle dei cittadini italiani. Tangenti, mazzette, evasione fiscale, scandali. Un gigantesco malaffare, il più grande e colossale della storia repubblicana. Faccendieri, finanzieri, politici: sono loro che hanno ridotto l’Italia al lumicino. E’ strozzata e asfissiata da una crisi energetica che si rivelerà invece essere soltanto una colossale balla. Una valanga di scandali sta per travolgere l’Italia. Duemila miliardi di lire dell’epoca sottratti al fisco e finiti nelle tasche dei petrolieri, tangenti e mazzette per cinquanta miliardi di lire dell’epoca in quelle di esponenti della maggioranza di governo, un quinto del consumo petrolifero annuale dell’intero Paese imboscato, insabbiato, nascosto. Il petrolio c’era, la benzina pure: però bisognava far aumentare il prezzo. No, l’Italia non era al lumicino: era stata ridotta al lumicino. Una valanga di denaro, una valanga sporca, una gigantesca truffa. Scoperta, capita spesso così, quasi per caso.

«La mia abitazione si trova in viale Des Geneys a Quarto (…) In lontananza, ogni giorno scorgo delle navi ormeggiate al largo (…) Qualche giornale scrive che si tratta di petroliere che non possono scaricare perché i depositi della raffineria di Riccardo Garrone sono strapieni (…) Per saperne di più decido di sottoporre a intercettazione telefonica alcune utenze degli uffici della Garrone Spa12. (…) Grazie alle intercettazioni (…) Scopro che Garrone e gli altri petrolieri hanno i depositi “a tappo”e che la guerra del Kippur è il velenoso boccone propinato al popolo italiano – con la compiacenza dei mass media – per nascondere il vero obiettivo che è quello dell’aumento del prezzo della benzina e di tutti gli altri prodotti petroliferi. (…)». Sono le memorie contenute nel libro “Petrolio e Politica” scritto dal magistrato Mario Almerighi, il primo ad avviare l’inchiesta che poi si allargherà a macchia d’olio in Italia trovando però le resistenze della politica, dei mass media, dei faccendieri, di generali della Guardia di Finanza corrotti, dei petrolieri. E’ lo scandalo Petroli parte 1: si scopre che l’Unione Petrolifera italiana si auto tassa del 5% per finanziare i politici di Governo, cinque miliardi nel solo 1974. Tangenti in cambio di favori, leggi, decisioni, nomine. E altre tangenti e altre mazzette pagate e passate per scongiurare, sotterrare, il progetto di energia nucleare: è lo scandalo Enel, il secondo che scoppia nel giro di pochi giorni. Coinvolti tra gli altri i segretari amministrativi della Dc, del Psi, del Psdi, cinque ministri tra cui Andreotti e Tanassi, due generali della Finanza: Raffaele Giudice e Donato Lo Prete, generali si scoprirà anni dopo nell’elenco della loggia massonica P2 di Licio Gelli. No, la crisi energetica che ha ridotto l’Italia al buio, che ha provocato licenziamenti, che ha causato l’arresto dell’economia, che ha oscurato le domeniche degli italiani, non è colpa della guerra dello Yom Kippur e nemmeno della chiusura del Golfo di Suez. No, l’Italia è in ginocchio perché strangolata da una colossale truffa. Come sempre, le inchieste della magistratura vengono affrontate dal sistema politico prima addensando sospetti su chi indaga, poi facendo muro. Come? Con la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. La “madre” di tutte le leggi che legittimeranno e legalizzeranno il fiume di tangenti da lì a oggi. Sì, perché la legge sul finanziamento pubblico dei partiti viene introdotta proprio nel 1974: si chiama legge Piccoli e in sedici giorni il Parlamento l’approva con il voto contrario del solo Partito liberale. E mentre pian piano i ministri escono di scena, salvati e sempre in sella – prescrizioni, dinieghi parlamentari a indagini – scoppia lo scandalo dei Petroli parte due. Un giro incredibile di malaffare, duemila miliardi di lire nascosti, inevasi, contrabbandati nel traffico di petrolio. Altri soldi tolti dalle tasche degli italiani, altri soldi che arricchiscono i petrolieri, i politici, i faccendieri. Un’inchiesta valanga che approderà nelle aule di giustizia a metà degli anni ’80: anche questa finirà senza colpevoli, senza ristori, senza risarcimenti pur provando l’esistenza di quella valanga sporca.
Partita invece da Bercthsgaden il 7 gennaio del 1974, la valanga azzurra continua a rotolare sulle piste di tutto il Mondo. Dopo Morzine, una settimana dopo un’altra quaterna, nel gigante di Adelboden. Thöni primo, Gros secondo e tutti a guardare l’Italia dal basso, persino in discesa libera con Plank e poi con il duo Anzi e Besson entrambi secondi sulla Streif: l’anno dopo, per contrasti con la Federazione, loro due però andranno via fondando un’azienda sportiva. Ma la valanga continua. Inarrestabile, travolgente, entusiasmante: ai Mondiali di Sankt Moritz il mese dopo Gustav Thöni centra una doppietta d’oro. Suo lo slalom speciale e suo lo slalom gigante. Gros si prende il bronzo scendendo tra i paletti stretti. Il mese dopo però si rifarà alzando la coppa di cristallo, la Coppa del Mondo. Per il quarto anno consecutivo resta in Italia e ci resterà anche l’anno dopo quando Thöni si aggiudica il parallelo in Val Gardena davanti a Stenmark, una sorta di spareggio seguito da cinquantamila persone sull’arrivo e da tutta Italia e dal Mondo, in diretta tv. Lo sci azzurro è ammirato e copiato, i tecnici cominciano ad andare via però, le offerte straniere superano quelle di una federazione che intanto con Gattai comincia a prendere le distanze dalla linea Cotelli. Arriveranno altre vittorie – l’oro olimpico di Gros a Insbruck nel ’76 nello slalom con Thöni secondo e vincitore della combinata mondiale, il bronzo olimpico di Plank in discesa, l’argento e il bronzo di Gros a Garmisch, triplette assolute in prove di Coppa del Mondo con il trio Radici-Thöni-Gros – però l’inerzia della valanga comincia a perdere forza e velocità, fino a impantanarsi, a sciogliersi, a liquefarsi tra i veleni, nel 1979. Quando Cotelli se ne va, rumorosamente: la Federazione lo ostacola nell’opera di rinnovamento, ne boccia lo spirito di competizione interna, la ricerca sui materiali si ferma, gli stranieri hanno via libera. L’Italia non è più la scuola, non è più la capofila del movimento. Però la valanga si scioglie anche perché sulle piste c’è un principe scandinavo che mette sempre tutti in fila: si chiama Stenmark e arriva sempre primo, qualche volta i fratelli Mahre, qualche volta il lussemburghese d’elezione Marc Girardelli.
Però i numeri di quella valanga restano imperituri, e nel decennio che va dal ‘69 al ’78 dicono: 5 Coppa del Mondo consecutive, 13 medaglie olimpiche e mondiali, 6 Coppa di specialità, 52 vittorie e in tutto 162 podi in Coppa del Mondo, 5 Coppa Europa. E mentre la valanga azzurra si spegne, mentre Cotelli esce di scena, ne parte un’altra di valanga. Un po’ meno travolgente, ma anche quella rosa – altro seme piantato dalla gestione Cotelli – si prende le piste grazie a Quario, Giordani, Gatta, Bieler, Zini e poi si bagna con l’oro olimpico di Paoletta Magoni.
Ricordi rosa e azzurri, ricordi illuminati da una giovanissima stella, una stella volata in cielo troppo presto. Quella stella si chiama Leonardo David. Il 7 febbraio del 1979 il diciannovenne vince lo slalom a Oslo mettendo in fila Stenmark e Mahre, dieci giorni dopo batte la testa sul ghiaccio a Cortina. Ha giramenti di testa ma arriva fino a Lake Placid, il mese dopo. Un’altra caduta nelle prove di discesa e poi un’agonia, straziante: saranno sei anni in coma vegetativo prima della morte. «Solo Leonardo potrebbe mettere fine al dominio di Stenmark», aveva profetizzato Mario Cotelli. Il papà della valanga. Di quelle palle di neve che, rotolando, divennero valanga. L’indimenticabile valanga azzurra.