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Il salto di Fosbury e l’alba della Terra

Il più rivoluzionario gesto dell'atletica e una foto scattata dalla navicella Apollo 8 datate 1968: quando un momento diventa speranza e futuro
copertina di Time

Il progresso è un destino. Un’intuizione. Un momento. Un’esclamazione. “Oh, mio Dio”. Il progresso è il futuro, di chi si aspetta l’inaspettato. Come un’alba che spunta mentre un attimo prima è il buio del silenzio, dell’assenza, dell’ignoto. Oppure un salto. Come un salto mai provato prima. Nessuno ci ha mai pensato, nessuno ne ha mai avuto il coraggio: il salto forse è strambo, sarà pure all’incontrario eppure porta avanti, più lontano, più in alto. Più in alto di tutti. Le due gambe sono rivolte al cielo mentre i due occhi guardano ancora più su. Lì, al futuro. Lì, al progresso. Lì, nella storia.

“Oh, mio Dio”. E’ il 20 ottobre del 1968. Alto e magro, bianco e pallido, determinato e dinoccolato: un ventunenne biondino e lentigginoso è appena planato sopra un materasso di spugna. Come fosse di un altro mondo, come un marziano. Invece arriva dalla pancia degli Stati Uniti che in quegli anni sfornano un bambino ogni otto secondi. E’ uno come tanti. Studia ingegneria, sette anni prima il fratellino gli è morto davanti agli occhi, travolto da un’auto guidata da un ubriaco mentre insieme pedalavano in bicicletta. E’ da quel giorno che ha cominciato a cercare una fessura nella quale infilarsi. Per scappare. Per dimenticare. Per trovare la luce. A modo suo, però. In patria fino al giorno prima l’hanno paragonato “a un pesce appena pescato che si dimena sul fondo della barca” mentre il resto del globo non sa nemmeno chi sia e che cosa ci faccia, proprio lì.

Eppure è lì a Città del Messico, in una dolce notte di quel travolgente e rivoluzionario 1968 ormai all’imbrunire, che spazzando convinzioni ha appena spezzato convenzioni. E’ appena entrato nel futuro, portandosi appresso il mondo. In piedi solo lui, solo lui in cima a una montagna che nessuno ha mai scalato. Cinquant’anni di salti che volano via così, con un balzo. Che riscrive le sacre tavole dello sport, che supera diffidenze diffuse. Le sentenze affrettate le ha messe alle spalle, come i sorrisi sarcastici che l’hanno accompagnato a ogni suo passo, ad ogni suo salto all’incontrario. Mentre, centimetro dopo centimetro, cercava la sua fessura. E’ nato per stare davanti. Ha appena sfidato le leggi della biomeccanica e le ha vinte. Anzi, le ha riscritte. Da quel giorno nulla sarà più come prima perché dopo quel salto tutti salteranno così. Così, come ha appena fatto Richard che per tutti è Dick, detto pure il sognatore. Come un big-bang esploso in un sorriso d’incanto e meraviglia sopra una pista d’atletica messicana, in un giorno d’autunno che non è più un giorno qualunque. “Oh, mio Dio”. No, non può essere. Eppure succede.

E’ il 20 ottobre del 1968. L’asticella orizzontale è come un confine che ancora si muove eppure resta ferma sui ritti, come se pure lei volesse starsene lì a guardare, incredula e ammirata. Smunto e dinoccolato, quel metro e novanta se ne sta dritto pure lui, come stranito sopra quel materasso di spugna mentre settantamila nell’Estadio Olimpico Universitario applaudono sempre più forte. Si alzano, si danno di gomito. Spettatori casuali di un evento unico. Imprevisto, imprevedibile, impensato. “Oh, mio Dio”. Irretiti, imbambolati. Sono impazziti. Hanno appena assistito al volo di un ragazzo che pare un alieno. Calza scarpe di colore diverso, persino. Una è bianca, l’altra è blu. «Quella al piede destro mi assicurava una spinta maggiore al momento del balzo», dirà davanti a microfoni e taccuini poi, mentre firma autografi e stringe mani. L’attimo prima settantamila allo stadio e milioni di spettatori dalla tv hanno osservato il suo corpo dondolare, mentre sulla pista sfilavano i maratoneti. Prima in avanti, poi indietro. Come un’anguilla che si contrae, come un serpente che si ritrae e che poi si allunga. Le mani a tappare la bocca, come per trattenere il respiro, per nascondere le emozioni, per accumulare adrenalina. Subito dopo l’hanno visto aprire e stringere i pugni. Concitatamente, compulsivamente. Come uno studente seduto al banco d’esame, come un donatore di sangue prima del prelievo. Infine l’hanno seguito disegnare la rincorsa. Un’inusuale traiettoria semi-circolare. Una cosa mai vista.

La sua parabola affonda le radici nella terra dell’Oregon, lo Stato il cui motto è “alis volat propriis”. Sì, proprio così: vola con proprie ali. Più indipendente di così, nulla. No, non è mica una coincidenza. No, è il segno del destino. E quello è il salto della vittoria. Dando di schiena l’asticella, sfidandola senza nemmeno guardarla: 272 è il numero della pettorina che indossa, 2 metri e 24 centimetri c’è invece scritto un attimo dopo sul tabellone che sta di fianco al materassino di spugna e schiuma su cui è atterrato. Non è il record del mondo ma è la misura che serve, che spiazza i russi fino ad allora dominatori della disciplina, è il balzo che al terzo e ultimo tentativo consegna la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mexico ’68, con tanto di record statunitense e primato olimpico. Dietro tutti gli altri, dietro pure il connazionale Caruthers e il sovietico Gavrilov che salgono sul podio di una disciplina appena stravolta. Saltano con il ventrale, a pancia in giù. Guardano la terra. Dick no, lui quando stacca guarda il cielo. Suo il gesto che diventerà icona, senza didascalia e senza tempo. Perché da quel giorno lo stile del salto in alto prenderà il nome del vincitore, il primo uomo che saltando all’indietro e al contrario si è messo tutto e tutti alle spalle. La sua fessura è diventata alba. Luce. Nuova era.

Dick Fosbury
Dick Fosbury ha appena superato l’asticella a 2 metri e 24 centimetri: è il salto che gli regala la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Messico ’68.

Si chiama Dick Fosbury e quel tipo di salto strambo l’ha studiato nel corso degli anni. Anni in direzione ostinata e contraria. Anni consumati a prendere appunti, a studiare, a disegnare, a immaginare. A saltare durante le manifestazioni dei college senza vincere mai. A infischiarsene delle solite parole, “sei bravo però dovresti andare in un circo, oppure dovresti cambiare sport perché il salto in alto è un’altra cosa”. Lui niente, disegna i passi e annota progressi che in un anno lo portano a migliorarsi di ben trentacinque centimetri. Più lontano e in alto, fino a strappare una maglia per le Olimpiadi messicane. Nessuno gli dà credito, però in America i Trials sono il passaporto. Tocca anche a lui rappresentare gli States. Nessuno lo conosce, soltanto i tecnici e gli atleti statunitensi che l’hanno incrociato agli studenteschi, nei meeting, alle selezioni. Tutti hanno provato ancora a convincerlo, e con gli allenatori ogni giorno una questione: devi cambiare stile, così non andrai lontano, cos’è questo flop? Niente, lui sempre in direzione ostinata e contraria. Nessuno gli concede speranze, però. E invece Dick osa, anche quel giorno. Vola, proprio quel giorno. Vola, più in alto di tutti. Quel salto l’ha tenuto nascosto al Mondo per svelarlo nel giorno più importante, quello di massima audience. Come a indicare una strada, una fessura, un varco. Il futuro. Una luce nello spazio. Come l’invenzione dell’energia elettrica che soppiantò le candele, come le ali di un areoplano che materializzarono il sogno di Icaro. Prima di quel salto di schiena – le anche che si sollevano, le spalle che arretrano, la schiena che si appiattisce sull’asticella – c’era il ventrale che aveva già sostituito la primordiale sforbiciata. Dal 20 ottobre del 1968 in poi ci sarà il “Fosbury Flop”, uno stile che proietterà gli atleti a raggiungere misure impensabili, nei decenni seguenti. Record in verità un po’ impolverati: è del 1993 il 2,45 del cubano Sotomayor, ancor più datato quello della bulgara Kostadinova, fermo al 2,09 dal 1987. Ma niente è più stato così, da quel 20 ottobre 1968.

«Quel giorno Fosbury ci ha dato la sveglia, ci ha insegnato a volare», dirà poi Sara Simeoni, la prima donna a valicare i due metri con quel tipo di salto, con il “Flop Fosbury”. In piena rivolta sociale, con gli studenti di tutto il mondo in piazza, la contestazione, le lotte per i diritti civili, il movimento operaio, uno spilungone di Portland quel giorno del 1968 mette in scena il suo personale atto di rivoluzione e tutti si fermano a guardarlo. Sembra una tecnica, fu una liberazione: «Il ventrale era una dittatura, solo se avevi certe precise doti fisiche potevi spingerti in alto. Dovevi avere la forza. Invece il Fosbury è democratico, punta sulla velocità, sulla tecnica, sulla creatività. Se ci vuoi provare davvero e faticare per i risultati, col salto di Dick hai la tua possibilità», dirà dall’Italia Erminio Azzaro, anche lui saltatore in alto, poi marito e tecnico della Sara nazionale. Anche lui incollato davanti alla tv quando le lancette della storia indicano le ventidue, l’ora italiana di quel giorno. Quello del salto rivoluzionario ribattezzato “The wizard of Foz”, la magia di Fosbury. “Per chiunque avesse visto allora i salti delle Olimpiadi fino a Messico ‘68, lo stile di Fosbury sarebbe parso totalmente bizzarro. Per chiunque lo guardi adesso, sono tutti gli altri saltatori a risultare bizzarri”, scriverà Simon Burnton sul Guardian celebrando i cinquanta anni da quel giorno.

Il podio del salto
Dick Fosbury sul podio del salto in alto a Città del Messico

Che per Fosbury non resterà nemmeno il più memorabile di quell’edizione dei Giochi, un’edizione preceduta dal tragico e barbaro bagno di sangue nella piazza delle “Tre Culture”: duecento studenti ammazzati dai colpi di fucile e bazooka esplosi dalla polizia messicana contro la pacifica occupazione del Politecnico e per terra c’è pure il sangue della giornalista italiana Oriana Fallaci, ferita eppure creduta morta. L’edizione del pugno guantato di nero sul podio di Tommie Smith, la “pantera nera” vincitrice dei duecento metri. L’edizione dello stratosferico triplo di Bob Beamon che stampa un 8.90 che supera di mezzo metro il primato mondiale e che per decenni sarà limite invalicabile, misura inavvicinabile. Più di tutte, è l’edizione del salto all’incontrario di Fosbury. Eppure una notte, più ancora di quel suo giorno. E’ una notte quella che resterà per sempre nel cuore e negli occhi del ventunenne Dick. La notte prima della cerimonia di apertura.

Dick è lontano dall’Estadio Universitario, non è nemmeno al Villaggio Olimpico su cui vigilano migliaia di militari. E’ scappato via e non si sa proprio come ci sia riuscito. E’ a quaranta chilometri da Città del Messico. Ma lui è così, lui va sempre in direzione ostinata e contraria. Insieme al compagno d’Università Gary Stenlund ha noleggiato un minibus Volkswagen – simile a quello che guida papà Tom nel celebre telefilm anni ’70, “La Famiglia Bradford” – su cui viaggiano anche due nuotatrici della nazionale statunitense, Cynthia Goyette e Donna De Varona. Vanno a godersi il passaggio della fiamma olimpica nel cuore e nella storia della civiltà pre-azteca, davanti alla Piramide della Luna di Teotiuachan. Uno scenario fascinoso, formidabile, fantastico. Danze e colori, una memorabile cerimonia che per i testimoni oculari sarà la più spettacolare e significativa di quei Giochi della XIX Olimpiade. Una notte dolce e magica consumata sotto le stelle, sfrenata e persino un po’ alticcia, tra birra, sesso, lemon y tequila accanto alla Piramide della Luna. Già, la Luna.

«Chi ama la Luna davvero, non si accontenta di contemplarla. Vuole entrare in un rapporto più stretto con lei». Così scrive Italo Calvino sul finire del 1968, quando sulla Luna l’uomo non ci ha ancora messo piede. La Luna è il sogno, è l’obiettivo, è la sfida che Stati Uniti e Unione Sovietica si sono dati da anni, senza badare a spese. Milioni di dollari e di rubli. Spionaggio, pedinamenti, esecuzioni, rapimenti. Una guerra nella guerra. Per marcare la propria supremazia, per mostrare il volto della superpotenza, per affascinare il Pianeta trascinandoselo dalla propria parte. E’ tempo di Guerra Fredda. E di viaggi spaziali. I primi.

E’ il 1968. Anno irripetibile, l’anno che sarà spartiacque del ventesimo secolo. E’ l’anno in cui i giovani scendono in piazza, occupano strade e scuole, le Università e le fabbriche. E’ l’anno del Maggio francese e di quello italiano, è un vento nato due anni prima negli Stati Uniti. Partito dall’Università di Berkeley, si propaga a macchia d’olio, punta l’indice contro le guerre e le diseguaglianze, soffia sempre più impetuoso per la libertà e per i diritti di tutti i popoli in ogni parte del Mondo, senza distinzione di razze, ideologia e colore. Combatte le guerre e le ingiustizie. E’ anche l’anno della “Primavera di Praga” ma poi anche dei carri armati sovietici che reprimono quell’alito di libertà nelle terre dell’Est Europa, così come è l’anno dei cinquecentomila soldati americani che fanno la guerra in Vietnam ed è pure l’anno dei colpi di pistola che uccidono il pastore battista Martin Luter King ma certo non la sua pacifica battaglia per l’integrazione dei neri nella società americana.

E’ l’anno in cui persino la musica inizia a suonare in un modo diverso, e mentre spopola “Hey Jude” dei Beatles è proprio il leader dei quattro ragazzi di Liverpool, John Lennon, a modificare una strofa della leggendaria “Revolution”. Senza staccarsi dalle istanze massimaliste della frangia rivoluzionaria di cui appoggia le tematiche, ne critica però la deriva violenta, senza paura di cantarlo: «Dici di volere una rivoluzione, bene, tutti vogliamo cambiare il mondo. Ma quando parli di distruzione, sappi che non puoi contare su di me». Strofa che poi modificherà, come a dire: ok, non tiratemi per la giacca, vediamo i programmi e poi, solo allora, “you can count me out, in”.

I programmi cambiano. I tempi stanno cambiando. Lasciano tracce, ovunque. Come nell’arte di Andy Warhol, come nella musica di Simon and Garfunkel: “Mrs. Robinson” e “The sound of silence” fanno da colonna sonora alle immagini del film “Il Laureato”. Al cinema sbarca, sfonda e spopola “2001 Odissea nello Spazio”, il capolavoro di Stanley Kubrik. Le intelligenze artificiali. Lo spazio. L’ignoto. La Luna. “Oh, mio Dio”. Sì, magari un giorno l’uomo ci arriverà lassù. A toccare le stelle. Ad accarezzare la Luna. A mettere piede su Marte. No, nessuna distanza pare impossibile da raggiungere. “Ain’t no mountain high enough”, non c’è nessuna montagna alta che non si possa scalare, canta Marvin Gaye quell’anno.

E’ l’anno in cui una spedizione spaziale parte con il compito di fotografare la Luna, la sua superficie, il suo lato oscuro. Nessuno l’ha ancora visto, nessun uomo l’ha mai immortalata così, da così vicino. A portata di mano, alla portata di un clic. E’ il 24 dicembre e tre uomini sono nello spazio da tre giorni. E’ buio, eppure tutto è celeste. Bill Anders, Frank Borman e James Lovell sono partiti il 21 dicembre dalla base spaziale di Cape Canaveral, in Florida. E’ il viaggio d’andata e il ritorno non è mica assicurato. L’enorme Saturn V, il razzo di centodieci metri di altezza – alto quanto un grattacielo di trentasei piani –  che li ha portati fra le stelle, è già stato usato due volte sì, mai però con un equipaggio umano a bordo. Nella tabella di marcia della Nasa l’Apollo 8 avrebbe dovuto essere soltanto una missione di prova: avrebbe dovuto portare degli astronauti in orbita attorno alla Terra per poi farli rientrare. Ma i piani cambiano. In fretta. Perché a settembre i sovietici hanno lanciato la sonda Zond 5 che ha orbitato attorno alla Luna e sembrano ormai pronti a inviare astronauti. Sono pronti a prendersi il primato dello Spazio. Bisogna accelerare, pensa il presidente Lyndon Johnson.

Astronauti
Jim Lovell, Bill Anders e Frank Borman, i tre astronauti della navicella spaziale Apollo 8

Dalla Casa Bianca parte l’ordine, l’Agenzia spaziale comunica a Borman, Lovell e Anders di cancellare programmi e feste per il Natale del 1968, naturalmente in gran segreto: preparatevi, presto partirete per la Luna. Partono da lì a due mesi, il 21 di dicembre. Saturno V fa quel che deve, si stacca e lascia l’Apollo 8 orbitare nello spazio. Dopo tre giorni e circa 326.000 chilometri Frank, Jim e William da astronauti si trasformano in pionieri. Hanno appena attraversato il confine invisibile, lì dove l’abbraccio della Terra lascia il posto all’azione gravitazionale della Luna. Diventano i primi uomini a entrare in orbita attorno a un altro corpo celeste, sono quelli a essersi allontanati di più: si trovano a 377.349 chilometri da casa. Sono i primi a vedere con i propri occhi il lato nascosto della Luna. «E’ grigia, senza colore, sembra cosparsa di una sabbia del colore dell’intonaco senza colore», dice il capitano Lowell mentre comunica con la base di comando, in Florida. Sta andando tutto bene. Tutto sta procedendo secondo i programmi.

E’ il 24 dicembre, è la vigilia di Natale del 1968. Mancano tre giorni al rientro, sette al nuovo anno. Quel giorno i tre astronauti dalla navicella Apollo 8 hanno anche il compito di fare una diretta tv leggendo un brano della Genesi, quello il cui incipit è: “E Dio creò il cielo e la terra”. Lo leggeranno sì, ma dopo. Dopo, perché sta arrivando l’imprevisto. L’impensato. L’imprevedibile. Sì, anche la Bibbia può attendere. E’ un brivido che sta per diventare scossa, è così tanto forte che sta per diventare Storia.

Bill, Frank e James sono nella cabina dell’Apollo 8. E’ stretta, ognuno sta al proprio posto. Stanno osservando la Luna. Sono a cento chilometri da lei, nessuno c’era arrivato mai. Mai così vicino. Mai. Quasi la toccano. L’immortalano, mentre la navicella ruota velocemente. Mentre fa piroette su se stessa. Come facesse capriole. E capriole devono farne pure loro, per fotografare. Uno, due, cento scatti. Una volta sulla Terra quegli scatti passeranno agli scienziati. Saranno analizzati, studiati, sezionati. Serviranno a scoprire se sulla Luna ci si potrà mai mettere piede, se sulla Luna esiste una qualsiasi forma di vita. Quello non è compito loro, loro ora sono nello Spazio. Loro sono astronauti, sono andati per fotografare la Luna e invece stanno per sorprendersi, come mai avrebbero immaginato. Non per la Luna, sarà anche un paradiso ma anche la Luna ora deve attendere.

Hanno già completato due orbite lunari. Sono le 10 del mattino ora di Huston, sono le 17 ora italiana. Qualcosa d’inaspettato accade. Proprio davanti ai loro occhi. Increduli. Nel buio assoluto dello spazio, dietro la superficie bianchissima, fredda e deserta della Luna che sta davanti ai loro nasi e ai loro occhi, sta apparendo qualcosa che non avevano previsto, che non avevano immaginato, che non avevano nemmeno sognato. “Oh, mio Dio! Guardate che spettacolo, guardate laggiù”, urla Bill Anders ai due compagni, la voce impressa nel nastro registrato e poi pubblicato dalla Nasa. “Wow, è davvero bello ma non prenderla, non è previsto dal programma”, risponde ironico Frank Borman, il comandante della missione. Anders ride ma non perde tempo, un astronauta mica pettina bambole. Si rivolge al terzo membro dell’equipaggio, in un nano secondo: “Jim sbrigati, hai una pellicola a colori? Svelto, passami quel rotolino a colori, per favore fai presto”. Jim Lovell gli passa il rullino a colori. Come un automa. Però con la bocca aperta, con il cuore inebriato. “Wow ragazzi, ma è fantastica”, dice. Sì, è fantastica. E nessun uomo l’aveva mai vista prima. E’ lei. E’ la Terra. E’ proprio la Terra che sta spuntando dietro la Luna. Sale all’orizzonte come stesse sorgendo. E’ come l’alba, come fosse il big-bang. E’ proprio la Terra, non si può confonderla con nessun altro pianeta: è azzurra, è bianca, è verde. E’ tutta colorata. E’ viva. Ed è bellissima.

I colori cambiano. Continuamente, velocemente. Ecco lì vedi, è il Polo Nord. Ecco là guarda, è l’Antartide. “Oh, mio Dio, ma è bellissima”, esclama Jim mentre scatta. Deve fare in fretta, la navicella sta ruotando, fra poco scomparirà dall’orbita. Sì quella è la Terra, ed è bellissima. E’ a trecentomila chilometri: da lì non si vede il sangue delle armi e della guerra, non sale il fetore dell’inquinamento che la sta distruggendo, così come non v’è traccia di sterminatori potenti come l’odio, la povertà, l’ignoranza, l’egoismo, la stupidità. E’ bella, candida. E’ pura, vergine. E’ nostra, è la nostra Terra. Così abbagliante nella sua semplicità, da lasciare senza fiato. L’infinita bellezza della casa dell’uomo pari soltanto alla sua incommensurabile fragilità. Anders preme e scatta. Una foto. La foto. Una tra le più importanti della storia dell’Umanità La prima foto a colori della Terrra. Sì perchè, così tanto preso dalla smania di guardare e pensare sempre altrove, alla Luna, ai pianeti, al Sole e alle stelle, l’uomo per anni e per secoli non aveva mai visto e non aveva mai pensato di guardare prima dentro se stesso, dentro casa sua. Più di ogni riflessione, bastano le parole che pronuncerà Bill Anders una volta tornato sulla Terra, tre giorni dopo. Il 27 dicembre del 1968.  «Siamo andati fino alla Luna per scoprire la Terra». Un’illuminazione nata grazie ad una combinazione. Sì, perché il futuro è un destino. Un’intuizione. Un momento. Un’esclamazione. “Oh, mio Dio”. Il progresso è il futuro, di chi si aspetta l’inaspettato. Come un’alba che spunta mentre un attimo prima è il buio del silenzio, dell’assenza, dell’ignoto. Come una foto, come quella foto. Che il 24 dicembre del 1968 appare davanti agli occhi di Jim, Bill e Frank come un nuovo orizzonte, una linea sopra la quale sbirciare le stelle che nessun essere umano aveva mai visto. E da quelle lande desolate, ammaccate da crateri, da quella terra del colore dell’intonaco senza colore che è la Luna, sorge invece un’alba strepitosa. “Earthrise”, l’alba terrestre. E’ così che si chiamerà da quel giorno, quella foto.

Una settimana dopo “Earthrise” è sulla copertina di Time con un titolo di sole quattro lettere. Bastano, a renderlo epico: “Dawn”. Alba. Quella foto da cinquantadue anni è simbolo di bellezza e fragilità. Intima, e globale. Da cinquantadue anni diventa ciclicamente e ormai con sempre minor forza, il simbolo di battaglie ecologistiche e politiche, civili e sociali. Da cinquantadue anni l’uomo continua a ignorarla, così preso dalla smania di distruggerla, la Terra. Tanto che verrebbe voglia di mettergli sotto il naso un passaggio contenuto nella lunga e accorata lettera che Ernst Stuhlingerin, nel 1968 direttore scientifico della Nasa, scrisse a una suora che contestava l’utilizzo di milioni di dollari in missioni spaziali di cui non vedeva la necessità. “Di tutti i meravigliosi risultati raggiunti fino a ora dal programma spaziale, questa foto forse è la cosa più importante. Ci ha aperto gli occhi sul fatto che la nostra Terra è una bellissima e preziosa isola sospesa nel vuoto, e che non c’è altro posto per noi in cui vivere se non il sottile strato di superficie del nostro Pianeta, circondato dal nulla scuro dello spazio”.

Titolo
Il titolo d’apertura del “Corriere della Sera”: è il 28 dicembre del 1968

E se nemmeno bastasse, ecco l’ultimo passaggio di un articolo scritto per “Il Corriere della Sera” dallo scrittore Dino Buzzati nel giorno del ritorno sulla Terra dell’Apollo 8. “Da domani grazie a questa foto tutti impareremo a vedere il nostro Pianeta qual è, a vedere noi stessi come siamo, perché ci vedremo dall’alto, da fuori, dall’estero. Da domani fatalmente molte cose dovranno cambiare e tante avidità fatalmente si rattrappiranno e molte terribili questioni risulteranno inutili quisquilie e molti odi cadranno e molti orgogli diventeranno polvere. Non è un bellissimo augurio quello che il 1968 prima di morire ci abbia dato questo messaggio, che ci abbia consegnato questa speranza a cui nessuno prima aveva pensato? Altro che conquista tecnica. Basterà un minimo di saggezza. E il grande duello si trasformerà in un abbraccio sulla Terra”.

Il salto di Fosbury e l'alba della Terra Storiesport

Chissà, magari per chiudere questo 2020 con una speranza di futuro, basterebbe tirarla fuori dal cassetto, quella foto. E guardarla davvero. Come fosse una fessura. Un varco. Il progresso. Come quelli che videro gli occhi di Dick Fosbury nel giorno del salto all’incontrario. Come fosse l’alba di quella meraviglia che galleggiava nello spazio e che a Bill, Frank e James fece esclamare, come tre bambini davanti al regalo più bello e inaspettato del Natale: “Oh mio Dio, che meraviglia”. Che meraviglia la Terra, se solo sapessimo abitarla. Ogni giorno. Perché ogni giorno comincia sì, da un’alba. Da quell’alba.

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