«Abbiamo deciso di non tenere più contatti con voi. Le ragioni sono strettamente legate a quanto scritto finora sul nostro conto». Quaranta anni fa, oggi. Venticinque giugno 1982.
Sminuzzate col suo solito tono, le parole sono di Dino Zoff, il capitano della Nazionale: annunciano il primo silenzio stampa nella storia del calcio italiano. Arrivano in giorni d’afa e veleni. L’Italia ha strappato per i capelli la qualificazione al secondo turno del Mundial, ha lasciato l’algida Vigo, si sta trasferendo nella calda Barcellona per sfidare Argentina e Brasile. Ci arriva con tre pareggi, e quello col Camerun aprirà poi una lunga pagina di fango e sospetti. Ci arriva con un cumulo di polemiche. Ogni giorno c’è un caso. Il caso Dossena, il caso Conti, il caso Antognoni, il caso Rossi. Il caso Bearzot. Il caso della puntata al casinò, quello di un party della Cinzano. È un gioco al massacro che diventa sfacciato, insensato, brutale e bugiardo: da una battuta scherzosa nasce sulla stampa il presunto idillio tra Paolo Rossi e Cabrini, amici di club e compagni di camera d’albergo. In Parlamento invece arriva un’interrogazione di onorevoli e senatori, chiedono al presidente del Consiglio Spadolini se risponda al vero la notizia che in caso di passaggio del primo turno ogni azzurro intascherà 60 milioni di lire, 95 se arrivassero in semifinale, 180 in caso di trionfo. La tv spagnola ci costruisce un pezzo: «In Italia ci sono fabbriche che chiudono e giocatori che stanno per guadagnare sei milioni di pesetas». È l’ultima goccia. Quella che farà traboccare il vaso della pazienza.
«Non è vero che prenderemo questi premi, come non sono vere tante altre cose. Sappiamo che non ci guadagneremo nulla da questa azione, il nostro non è un attacco ma una semplice difesa, dobbiamo difendere la tranquillità di cui abbiamo bisogno»: a fatica proprio lui, il calciatore meno loquace della storia del calcio italiano, è costretto a parlare ai giornalisti, delegato dai compagni a tenere i rapporti con la stampa che si indigna. «Democrazia è anche il diritto di star zitti»: così chiude Dino Zoff. Perchè poche parole valgono sempre più di un discorso.
Quello storico silenzio stampa diventerà una delle pietre su cui l’Italia edificherà il trionfo Mundial nella notte del Bernabeu. Quel silenzio farà da precursore di tanti altri silenzi, nella storia del calcio italiano. Società e calciatori, allenatori e presidenti. Qualche volta foriero di successi, altre volte di sventure. Da anni tanto, tutto è cambiato. I club decidono quando giocatori e allenatori possono parlare, con chi parlare, sempre più spesso pretendono le domande in anticipo e persino di scriversi le risposte (per chi s’affaccia alla professione sarebbe esemplare leggere un passaggio di Giampaolo Ormezzano che racconta di come un tempo i rapporti tra cronisti e uomini di calcio fossero aperti, semplici, non confezionati), soprattutto in funzione di sponsor e iniziative: tanti, mica tutti, s’accontentano, fanno pure più presto senza nemmeno stancarsi di pensare, domandare, scrivere.
Sono passati quaranta anni. Oggi, 25 giugno 2022. Il silenzio stampa in tutti questi anni pare come trasformato. Beghe federali e di Lega, scandali e intrecci, conflitti d’interesse e giustizia sportiva, fallimenti e corruzione, nomine e stipendi, disastri della nazionale, settori giovanili scomparsi. Non sempre e non ovunque, eppure quel silenzio stampa pare essersi trasformato. Nel silenzio della stampa.