«Non esiste una partita che non possa essere vinta». L’ha detto a tutti ammonendolo ai dodici di Azzurra Renzo Bariviera stamani sull’edizione de “la Repubblica”. Non esiste una partita che – prima della palla a due e per 40’ di contesa sul parquet – non possa essere vinta, pure se l’avversario pare una montagna invalicabile, pur se quella cima sembra inespugnabile.
Quel ricordo di una frase ascoltata da Dan Peterson, Renzo Bariviera l’ha utilizzato per presentare Italia-Stati Uniti di oggi, quando subito dopo pranzo (ore 14.40) la rinvigorita Azzurra, 25 anni dopo il suo ultimo quarto iridato, darà l’assalto alla semifinale Mondiale contro team Usa sculacciato ieri l’altro dalla Lituania, consapevole che un altro ceffone lo consegnerebbe al pubblico ludibrio: dodici stelle (quel che più luccica è il team di allenatori guidati da Kerr) che sommano 200 milioni di euro di stipendio annuo sbattuti fuori da un roster che in tutto somma 15 milioni di ingaggio nei club (solo Edwards guadagna il doppio di tutta la rosa azzurra messa assieme). Ma i soldi non sempre fanno canestro, non fanno sempre gol, non fanno sempre punto.
C’era Renzo Bariviera nel 1970 quando non c’era ancora il tiro da tre e quando la pallacanestro era ancora dilettantismo. C’era Renzo Bariviera nel Mondiale a Belgrado, quando davanti al maresciallo Tito padrone della Jugloslavia un suo gancio arpionò il cesto e il pallone sbucando dalla retina consegnò la prima storica vittoria dell’Italia dei cesti contro gli Stati Uniti: non erano le stelle Nba pur se in quella squadra iniziava la sua strepitosa carriera da stella del firmamento, Bill Walton. E Renzo Bariviera c’era pure otto anni dopo, nel Mondiale che – allora come oggi – si giocava a Manila, alla fine vinto dalla Jugoslavia dell’incantevole Cosic, del play Delibasic e dei killer Kicanovic e Dalipagic. Era l’autunno del 1978, in estate il Mondiale di calcio l’aveva vinto l’Argentina di Kempes e Ardiles, sofferta vincitrice di un’edizione confezionatale su misura per regalare alla dittatura dei generali il visibilio del mondo ma in quell’edizione il calcio più bello e frizzante lo regalò però l’Italia di Bearzot e del nascente Pablito. Tre mesi dopo a Manila l’Italia del basket si prese per appena un punto (81-80) un’altra volta lo scalpo degli yankee: decisivi i 20 punti di Della Fiori e decisivo (in negativo) nel prosieguo della rassegna un tiro a fil di sirena che permise al Brasile di strappare il bronzo all’Italia.
C’erano (e nella foto del ritiro a Cortina si vedono tutti), con lui e Bariviera, Marzorati e Meneghin, c’erano Vecchiato, Caglieris, Villalta, Bonamico, Iellini, Carraro, Ferracini, Bertolotti e c’era in panchina Giancarlo Primo, da lui viene la magnifica progenie di coach italiani spesso costretti a fare pentole e coperchi senza avere la stazza dei giganti che dominano il canestro. Il mantra di Giancarlo Primo è stato sempre: difesa, difesa, difesa. In fondo non esiste una partita di basket – nemmeno una – che non si vinca con la difesa. E l’Italia del 2023, quella della prima punta Fontecchio e dei gregari che a turno diventano prim’attori, è l’Italia di Melli che squaderna pallacanestro in ogni zona del campo, partendo proprio dalla difesa. «Quest’Italia si butta su tutti i palloni, è guidata da un gigantesco Melli. Mi piace la mentalità, è un’Italia che non si dà mai per vinta», ha detto oggi Dino Meneghin.
Non esiste una partita che non possa essere vinta. La frase risuonerà subito prima dell’inno. Quello che qualche minuto prima delle 14.40 risuonerà nel cuore e nelle menti di chi sta sul parquet e di chi starà incollato al video, aggrappato a una speranza, a una possibilità, a quella frase: non esiste una partita che non possa essere vinta.
È quasi ora di palla a due. È tempo di stringersi a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò.