Gravina, presidente nel pallone da Seneca a…Crepet. Il calcio italiano ai suoi piedi: altri 4 anni Figc a vele spiegate…

«Niente difende meglio la democrazia e la sovranità del calcio quanto il senso del limite». Piena (e calda) estate 2024, solo pochi mesi fa: dopo essersi aggrappato alle solite scuse («il 67% dei giocatori in serie A non è italiano, il calendario è troppo fitto, non c’è la disponibilità di mettersi al servizio delle esigenze delle Nazionali», insomma il solito refrain già ascoltato all’indomani dell’eliminazione alla fase finale del Mondiale in Qatar subita dalla Macedonia quando però ci fu anche questa preziosa aggiunta, «è tutta colpa dei gufi che se ne stanno appollaiati là in attesa delle mie dimissioni e in aggiunta io non ascolto le critiche strumentali, il mio senso di responsabilità non è legato alla poltrona») – mentre invece e intanto il fresco ct Spalletti chiedeva scusa – per la veloce dipartita azzurra all’Europeo in Germania, assorbite le parole del ministro Abodimi ha detto che intende fare un passo indietro ma vuole capire prima in che mani lascia la Federcalcio») al quale avrebbe però bruscamente risposto con tanto di nota Ansa («non ho alcuna intenzione di fare un passo indietro. L’ho già detto pubblicamente e l’ho ribadito privatamente anche al ministro Abodi: scioglierò la riserva più avanti, dopo essermi confrontato con le componenti federali»), sotto il fuoco di fila di parte della maggioranza di Governo che ne chiede(va) le dimissioni, davanti alla “invasione” a piedi uniti del vice-presidente della Camera Giorgio Mulè titolare dell’emendamento (convertito poi in legge) con il quale si prescrive(va) maggior potere e autonomia alla serie A e con la Lega A (seguita da quella di B) pronta a impugnare la convocazione dell’assemblea elettiva federale repentinamente calendarizzata dall’uscente presidente federale al 4 di novembre, il presidente federale Gabriele Gravina prendeva carta e calamaio (celebre frase di Emilio Fede in un programma anni ’80 della Rai) scrivendo una lettera al direttore del quotidiano “la Repubblica” (al tempo era ancora Maurizio Molinari) che, per inciso, è di proprietà dell’azionista di maggioranza anche della Juventus.

Una lettera pubblicata nella copertina della sezione sport, quattro colonne austere nella quale assumeva l’impegno a rinviare le elezioni, a indirle soltanto dopo aver convocato un’assemblea straordinaria nella quale però sarebbe stato messo ai voti (con la percentuale dei voti del precedente statuto) il nuovo Statuto che avrebbe modificato i pesi elettorali riconoscendo maggior peso al settore professionistico e in specie alla Lega A e dunque “osservando” la legge ma difendendo però l’autonomia della sua federazione facendo leva «su spirito di solidarietà e sulla capacità di conseguire un compromesso virtuoso». E, per questo, si diceva costretto ad assumere le vesti di “federatore” («da qui alla conclusione di questo processo il mio impegno di federatore sarà volto a scongiurare il rischio di perdita di autonomia») chiudendo la lunga lettera con questa solenne frase: «Niente difende meglio la democrazia e la sovranità del calcio quanto il senso del limite».

Una frase da assoluto statista (attenzione, non si è scritto statista assoluto…) davanti alla quale, adesso, sette mesi dopo, va messo un bel punto che fa da ponte a una breve riflessione, una considerazione che parte dal limite e conduce al senso del limite, un senso davanti al quale bisogna fermarsi e fare anche il mea culpa, perché in questi anni Storiesport, basandosi però rigorosamente sempre e solo sui fatti, le manovre, le azioni e i risultati del presidente federale Gravina, ne ha anticipato le mosse e smascherato gli intenti, non lesinando critiche (intese come valutazione dei fatti) e rilievi all’operato (o non operato) del presidente Figc (e presidente del Club Italia) Gravina.

Però in quel senso del limite, evocato in estate appunto dal presidente della Federcalcio, si scorge un freno obbligato che stoppa la cronaca, il resoconto, i fatti. Che capovolge il senso e il sentire comune, che spinge lontano e oltre, come se si fosse nel metaverso, così tanto oltre sino a chiedersi: ma perché in questo mondo alle parole devono sempre seguire i fatti? E perché i fatti (e le azioni, le operazioni, i risultati) di qualcuno devono essere i parametri con cui giudicare (e votare) quel qualcuno, perché le nostre azioni (e i nostri giudizi, e i nostri resoconti) devono essere sempre “condizionate” dal lavoro prodotto? Qui magari si sconfina nella logica e nel sillogismo, materie del filosofo Aristotele che affondano nella notte dei tempi.

Ma qui però siamo nel ventunesimo secolo, e qui siamo nell’astronave del calcio italico, dove non v’è traccia di gravità e nemmeno di realtà, e nemmeno di Aristotele che non è l’Aristoteles celebre figurante “calcistico” nel film (con Lino Banfi) “Un allenatore nel pallone”.

Qui si parla, si scrive e si racconta di “un presidente nel pallone”, cioè di Gabriele Gravina, presidente del pallone italiano dall’autunno del 2018 quando la sua elezione, avvenuta in un hotel di Fiumicino davanti a ospiti illustri trionfanti e gaudenti come ad esempio Ceferin e Infantino, pose fine al commissariamento Coni del mai amato Giovanni Malagò; un tripudio di osanna e speranze celebrato con il 97,2% dei voti per l’allora presidente di Lega Pro, praticamente a dire sì furono tutte le componenti calcistiche unite da un patto, con la supervisione dell’immarcescibile Giancarlo Abete e con il passo indietro di Tommasi e Sibilia (tra lui, favorito, e Gravina, pare ci fosse stata anche una scrittura privata, pare conservata dall’avvocato Giancarlo Viglione divenuto poi dominus in via Allegri, nella quale si stabiliva poi l’alternanza per il quadriennio successivo, patto poi venuto meno…) dopo il rovesciamento di Carlo Tavecchio invitato e costretto, lui sì, alle dimissioni, dopo la mancata qualificazione al Mondiale («Tavecchio si dimetta, serve rivoluzione», così Gravina il 19 novembre 2017).

Quasi tre anni dopo (febbraio 2021), in piena pandemia, Gabriele Gravina veniva rieletto al soglio federale, stavolta però con il 73% dei voti, perché l’unica componente contraria era la Lega Dilettanti dello sfidante Sibilia (intanto il terreno era stato già sgombrato da possibili avversari, ad esempio il fronte calciatori con il candidato Marco Tardelli che avrebbe rinunciato alla corsa Aic perché designato, dopo il cachet come opinionista Rai, a diventare il direttore dell’Accademia della Figc al “Salaria Village”, a proposito, ma che fine ha fatto il progetto, che ne è del contratto a Tardelli, quando ci sarà il taglio del nastro?; e ancora: «l’accademia che nascerà al “Salaria Village” porterà il nome di Paolo Rossi», così in un’intervista al Corriere della Sera il 4 febbario 2021) che da lì a pochi mesi sarebbe stato defenestrato pure dalla poltrona dei Dilettanti, commissariati e poi impacchettati fino ad essere consegnati a Giancarlo Abete (sì, proprio lui, l’immarcescibile Abete) tornato a fare il presidente di una componente federale, e lungo la strada del quadriennio ad altri sarebbe toccata la stessa sorte: bye bye al nemico Ghirelli, bye bye a Trentalange e agli arbitri che hanno perso pure il 2% di rappresentanza (in nome però di una maggiore autonomia…), bye bye a Ludovica Mantovani alla Divisione femminile, bye bye pure – sono gli addii più recenti – a Balata (al primo atto di dissenso, gli ha sfilato l’under 21 togliendogli il ruolo di capo delegazione poi ad Antognoni, in precedenza buttato fuori) e Casini: (più volte, nei consigli federali, apostrofato come “attentatore della democrazia” solo perchè voce fuori dal coro) : una rotta alla quale sarebbero stati chiamati (più e più volte il presidente federale è entrato a piedi uniti nelle diverse campagne elettorali delle varie componenti) Marani, Pacifici (e ora Zappi), la vedova di Paolo Rossi (Federica Cappelletti) e in ultimo Paolo Bedin, ex dg della Lega serie B ai tempi di Abodi, adesso ministro ma nel 2018 potenziale candidato (poi bruciato) al soglio federale.

Una rotta traballante che eppure si è sempre tenuta in linea retta verso un unico traguardo, merito evidente (!) del pilota che, tra mille tempeste e turbolenze, ha tenuto la cloche strenuamente e saldamente in mano (a questo punto sarebbe da rivalutare la frase pronunciata nel settembre 2021 dall’allora presidente della Juventus Andrea Agnelli a Percassi dopo l’incontro tra alcuni presidenti di serie A, l’allora presidente di Lega A Dal Pino e Gravina nella villa della mamma di Andrea Agnelli, «speriamo che la sua presenza porti qualcosa di utile altrimenti ci schiantiamo…»), fino a condurre quella mano a mettere anche l’altra sul pallone italiano. E a tenerselo stretto tra le braccia per altri quattro anni. Semplicemente, però, per la difesa del sistema calcistico nazionale: «Non ho intenzione di lasciare il calcio italiano a soggetti che non hanno visione e amore per il calcio», così ha detto appena due mesi fa, furiosamente impegnato in una guerra come fosse Goffredo di Buglione alle Sante Crociate, una guerra definitivamente vinta portandosi dalla propria parte anche la serie A (guidata da Inter e Juventus, alle quali solo i malpensanti sono convinti abbia “concesso” o “chiuso gli occhi” in più di un’occasione nell’ultimo quadriennio) e sbarazzandosi (al momento) dei suoi più strenui (e unici) avversari, e cioè Lotito e De Laurentiis mentre intanto il dissidente-editore Urbano Cairo resta a mezz’aria.

E così, tra due giorni (il 3 febbraio), nello stesso hotel dove fu (ri)eletto quattro anni fa, sarà investito del terzo mandato di fila dai rappresentanti del pallone tricolore. Si è candidato, dice lui, per spirito di servizio, lo ha fatto solo perché gli è stato chiesto: ha così cambiato idea, almeno rispetto a quanto promise, solenne, il 4 febbraio 2021 nel corso di un’intervista pre-elettorale al Corsera. «Se sarò rieletto, il mio percorso finirà qui». Il percorso invece continua. Tutti voteranno a suo favore, nessun candidato rivale, nessuna proposta alternativa, nemmeno il tentativo di riscaldare l’atmosfera, niente: tutti d’accordo, le quattro Leghe, gli allenatori e i calciatori (non un parola dal presidente dell’Aic Calcagno sulla ventilata ipotesi di candidatura di Del Piero…), onorando un patto stretto in questi lunghi mesi e validato da una assemblea straordinaria elettiva tenutasi a novembre del 2024, esattamente tre anni e mezzo dopo quella annunciata (ma mai convocata) da Gravina nel discorso dopo la sua elezione a febbraio del 2021 («terrò a maggio una assemblea straordinaria per modificare lo statuto e per varare la riforma dei campionati»), una (farsesca) modifica dei pesi elettorali che nulla ha modificato (leggi qui) perseguendo il filo conduttore di questi otto lunghi anni, un filo machiavellico e gattopardesco, sancito dall’intramontabile “tutto cambia affinchè nulla cambi”.

L’intero mondo calcistico ai suoi piedi, ma guai a parlare di tirannia: scomodando un altro illustre filosofo dopo Aristotele, bisognerebbe allora convenire con l’ammonimento di Thomas Hobbes per il quale “il tiranno è il sovrano come è visto dai suoi nemici”. E qui, adesso, Gravina, non ha più nemici, è il sovrano assoluto (non chiamatelo monarca e men che meno tiranno): sono tutti dalla sua parte, almeno tutti i “signori” e i “potenti” del calcio italiano, e pazienza se ormai oltre il 50% dei club di serie A è in mano straniera (spesso fondi e proprietà ballerine, a proposito, ma poi si è capito il Milan di chi è?), pazienza se si ritrova ad esempio con un club di Lega Pro che terminerà (se lo terminerà) il campionato con il segno meno in classifica (ma poi perché sorprendersi, nel 2022 il Catania è stato estromesso a poche giornate dalla fine), pazienza se la Nazionale per la terza volta consecutiva dovesse mancare la qualificazione alla fase finale del Mondiale. Pazienza e benevolenza verso il regnante, e tutti in religioso e rigoroso silenzio: se va bene ai signori del calcio, se va bene ai proprietari (che continuano ad affossarlo riempiendolo di debiti) e se va bene persino a chi governa il Paese (guai a toccare l’autonomia di una federazione che è un ente privato, sebbene cerchi e invochi e ottenga aiuti di Stato, e già che ci siamo meglio sottolineare una delle nuove richieste contenute nel nuovo programma elettorale di Gravina che chiede «il riconoscimento al calcio di impresa sociale»…) perché fare i bastian contrari, perché provare a seguire un filo logico quando questo filo è una trave negli occhi di pochi disgraziati?

E poi, visto che siamo nel momento dei buoni propositi, basta con questi attacchi strumentali davanti a un uomo costretto ad azioni inimmaginabili, «mi sono dovuto far indagare per potermi difendere contro il secondo dossieraggio, che sono le falsità di qualcuno che si diverte con veline anonime», e pazienza se i giudici del Riesame del tribunale di Roma abbiano ravvisato nelle condotte di Gravina la “sussistenza del fumus del contestato reato di autoriciclaggio”, e pazienza pure se poi l’inchiesta è stata chiusa con la richiesta di rinvio a giudizio, tanto più che adesso i legali del presidente federale hanno chiesto che il procedimento venga spostato a Sulmona (per competenza territoriale), e cioè in Abruzzo, la regione adottiva del presidente federale e quindi bisogna aspettare. E poi, ripetere sempre: si è colpevoli solo se riconosciuti tali al termine dell’ultimo grado di giudizio, e dunque ne passerà del tempo, e magari nel 2028, quando Gravina terminerà il suo terzo mandato (magari deciderà di andare ancora avanti, alla stregua dei Petrucci, degli Aracu, dei Barelli etc etc e in barba a Malagò che dall’alto del suo metro e novanta e dall’alto del suo peso – di successi e personalità – pare l’unico contro il quale accanirsi) sarà tutto ancora in piedi o magari tutto sarà prescritto, pardon soffiato via, e poi i suoi legali lo hanno già detto, anche in presenza del rinvio a giudizio (anche in caso di condanna?) un presidente federale può continuare a regnare nella sua federazione. Perché dunque mettere i bastoni tra le ruote a un regnante (non tiranno) che sta lì sul trono solo per il bene del calcio italiano? Perché non consentirgli di adempiere a un invito corale e collettivo, a «un’esigenza che più volte mi è stata manifestata dalle varie componenti federali e che mi ha trovato motivato e disponibile nel mettermi in gioco: il percorso programmato nel 2018 va completato. Cosa siamo stati lo abbiamo dimostrato con i fatti, adesso bisogna completare il viaggio»? Così c’è scritto nell’introduzione al suo programma elettorale.

E già che ci siamo, bisogna fare i complimenti più sinceri al candidato Gravina perchè ha presentato un programma ridotto rispetto a quelli passati, senza troppo sperpero di carta e senza costringere a un’estenuante lettura: 25 paginette in formato slide, molte meno delle 60 pagine del 2018 con titolo “Una nuova federazione, il calcio italiano di nuovo in gioco”, e ancor meno delle 128 pagine del 2021 col titolo “La partita per il futuro” nelle quali era contenuta una celebre frase di Seneca, “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. Da 128 pagine adesso si è scesi a 25 paginette, e da Seneca si è passati a Crepet, perché nell’ultima pagina del programma elettorale 2025/28, annunciato dal titolo “A vele spiegate”, c’è stampata a caratteri cubitali una frase dello psichiatra Paolo Crepet: “I grandi marinai hanno sempre saputo utilizzare le tempeste. Perché le tempeste fanno gonfiare le vele”. Dal 2021 al 2025 cosa c’è realmente stato da meritare una menzione nel programma?, si chiederebbe qualche maligno, cosa ne è stato di quel tridente di riforme (patrimonio giovanile, sostenibilità, riforma campionati) inserito in attacco nello schema 4-3-3 disegnato su quel programma? È rimasto spuntato, ma cosa vuoi che conti? E, a proposito di conti poi magari sì, si potrebbe malignamente osservare come intanto si sia gonfiato il reddito di Gravina, elemento questo tratto dal giudizio del Riesame di Roma che, accogliendo le tesi della Procura ma bocciando la richiesta di sequestro cautelare delle somme, ha evidenziato come dal 2019 al 2024 i redditi del contribuente Gravina siano passati da centomila a oltre 800mila euro annui: tra le varie entrate, bisogna evidenziare i 240mila euro che Gravina percepisce come presidente del Club Italia (l’organismo che sovraintende tutte le operazioni delle varie Nazionali) carica e compensi approvati dal consiglio federale nella primavera del 2021 (due mesi dopo la rielezione) nella stessa riunione nella quale fu votata la normativa anti Superlega, e quelli che incassa come vice-presidente dell’Uefa (carica ottenuta sempre ad aprile del 2021). Ma discutere di soldi davanti a una presidente come Gravina, che nel corso di questi anni ha ammantato il calcio di espressioni come «c’è bisogno di un nuovo umanesimo nel calcio», oppure «il calcio italiano è in un nuovo rinascimento», sembra operazione troppo materialistica e Gravina non lo merita (del resto lui è il primo difensore del brand Italia), del resto cosa si può dire a un presidente di federazione che da anni porta avanti, con un’altra azienda, lo spettacolo “Divina Commedia Opera Musical” e che si preoccupa di invitare persino tutti i dipendenti federali (a prezzo scontato) ad assistere allo spettacolo e che è così magnanimo dal “regalare” alla Nazionale la mascotte (una sorta di cane maremmano-abruzzese), idea di un bozzetto regalatogli da Carlo Rambaldi, il produttore di ET?

E poi il lavoro va retribuito, per carità, e non è che sia previsto un contratto a obiettivo. Per questo non è il caso di ricordare come i sei principali punti del programma del 2018 e tutti i punti del programma del 2021 siano rimasti lettera morta: settori giovanili, modernizzazione patrimonio infrastrutturale, riforma mutualità, codice di controlli federali, fair play finanziario, riforma giustizia sportiva, casellario onorabilità, cartella clinica digitale, luxury tax, plusvalenze, sostenibilità, tetti salariali, riforma campionati, raffreddamento del sistema etc. etc. etc. Andate avanti voi, se volete, ma è un esercizio sterile. Chi ve lo fa fare?

Tutti punti rimasti in bianco e (in qualche sporadico caso) in sospeso, tra entusiastici annunci e sonori dietrofront, tra scontri istituzionali violenti (dopo la Vezzali, con Abodi ad esempio) e programmi di riforme (il Piano Fenice) più volte accartocciati.

L’esperienza però aiuta, e di questo bisogna dare atto a Gravina. Che nel suo nuovo programma elettorale ha sintetizzato in poche slide il tutto, lasciando prefigurare (immaginare sarebbe forse il verbo più adatto) a noi viaggiatori distratti dove sarà il calcio italiano al termine del suo nuovo mandato. Le ultime slide riportano infatti un titolo secco (“Il nostro percorso”) e un sottotitolo evocativo (“Dove saremo tra quattro anni”) che accompagna i vari punti cardinali della nuova rotta, dagli (auspicati) interventi legislativi al piano industriale, dai settori giovanili agli stadi.

E allora? Non resta che gonfiare le vele e prepararsi al viaggio. Il panfilo Italia, altro che zattera, è pronto a navigare verso nuove fantastiche rotte. Inutile stare a guardarsi indietro. Inutile e sterile ripensare ad esempio (ma l’elenco sarebbe infinito, per le principali questioni gli articoli si trovano su questo sito) al caso Suarez, al veloce doppio giudizio sulle plusvalenze finito in bollicine tra mille imbarazzi (le cifre di transfertmark) e le scudisciate tra procura e tribunale federale, al ruolo del procuratore capo Chinè, ai conti dell’Inter e ai bilanci (e alla milionaria manovra stipendi, questa sanzionata dopo patteggiamento, con un’ammenda di 700mila euro) della Juventus, alle inchieste partite sempre dopo quelle delle Procure (basterebbe, ma solo a mo’ di esempio, ricordare quella sulle plusvalenze dopo l’apertura a Torino dell’inchiesta Prisma su sollecitazione della Consob e dopo i rilievi preoccupati della Covisoc, e quella sui “ludopatici” calciatori della Nazionale Fagioli e Tonali “avvisati” nel pieno di un ritiro della Nazionale, sportivamente sanzionati – graziati – con pene accessorie sempre dopo patteggiamento, così difesi Gravina «questi ragazzi sono dei figli, non possono diventare carne da macello. La ludopatia è una piaga sociale, non un problema del calcio», una vicenda vissuta sotto lo scacco mosso da Fabrizio Corona e velocemente archiviata, e sempre per restare in tema di polizia dentro un ritiro azzurro come dimenticare l’arresto dell’accompagnatore dell’under 21 Marinelli, amico di vecchia data ai tempi di Pescara), la giustizia ad orologeria e quella dormiente, gli sconti e gli occhi chiusi in tante vicende dei comitati regionali, i 27 gradi di giudizio per addomesticare il caso Chievo chiuso con una pregiudiziale sportiva (per non parlare del trust Sampdoria o della vicenda Reggina), i campionati di serie B e Lega Pro per due anni congelati in avvio e sospesi causa ricorsi e sentenze con tanto di x e y nei calendari, gli sconfinamenti nella giustizia amministrativa, gli scontri e i corti circuiti tra tribunali di Stato, tribunali sportivi e tribunali amministrativi, gli intrecci e le incompatibilità tra giudici federali e amministrativi, la valanga di nomine e incarichi nella giustizia sportiva, i velocissimi bandi per ridefinire la composizione della Covisoc e le stilettate con il ministro Abodi (accusato di aver mentito) nella vicenda sull’istituzione dell’Autority sui conti, le assunzioni eccellenti in federazione (dallo stage della figlia del ministro Giorgetti all’incarico al figlio del ministro Tajani e non solo…), alla sospensione dei pagamenti di tasse e contributi concessi ai club rimodulata poi in “sospensione” dei controlli (dopo la lavata di capo del premier Draghi e del ministro Franco), all’app Mitiga che avrebbe dovuto consentire l’ingresso negli stadi nel primo post-pandemia, al professionismo e al calcio femminile (tra le perle, il Mondiale in Australia e Nuova Zelanda col ct sfiduciato e con la lettera delle calciatrici che si lamentavano del fatto che non ci fosse un dirigente federale al loro fianco), alla sbandierata candidatura per Euro 2028 quindici giorni dopo trasformata obtorto collo in candidatura – singola – per Euro 2032 con la forza di dodici città italiane candidate e dodici stadi (nuovi o rifatti) da presentare grazie anche (e soprattutto) al finanziamento dello Stato fino ad accontentarsi però di un’edizione dell’Europeo ottenuta (dopo i rilievi di Ceferin) grazie al lavoro diplomatico del ministro Tajani (premiato da Spaletti a Coverciano come ambasciatore del calcio italiano) in coabitazione con la Turchia di Erdogan, all’incredibile vicenda del procuratore capo degli arbitri Rosario D’Onofrio (un altro ludopatico) arrestato per traffico di droga, una vicenda così surreale e clamorosa appresa al telefono mentre al telefono Abodi, Malagò e mille altri gli chiedevano, “ma è uno scherzo, vero?” (ci fermiamo qui con le vicende degli ultimi quattro anni, ma l’elenco è assai più nutrito e chi vuole può andare alla rubrica Indiscreto su questo sito). No, non era uno scherzo, era tutto vero.

Così come non è uno scherzo, è tutto vero: tra due giorni (il 3 febbraio 2025) Gabriele Gravina otterrà il terzo mandato con un plebiscito del calcio italiano. Avanti tutta, a “Vele Spiegate”. Non resta che conservare accuratamente il nuovo programma e augurarsi che tra quattro anni lo scrittore Paolo Crepet compaia per un’altra spumeggiante citazione e non con un’approfondita relazione dello psichiatra Paolo Crepet. A quel punto, che dite, sarebbe superato il senso del limite?

 

 

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