Una notte. Sofferta, lunga. Interminabile. Indimenticabile. La notte di Dino Zoff. Dopo 120’ di battaglia finiti in parità contro l’Ajax di Krool e Tahamata e dopo i calci di rigore, riecheggia soltanto il suo di nome, dentro un Comunale da tutto esaurito. In 67mila sono in estasi per il 36enne friulano. Al solito freddo. Al solito restio a complimenti e luce dei riflettori, dirà solo questo negli spogliatoi al giornalista Oliviero Beha. «Cosa ho pensato quando lo stadio ha invocato il mio nome? Niente, che forse ero diventato un grande attaccante». Sul campo pochi minuti prima aveva accartocciato sulla pancia il pallone calciato da Geels come fosse un salvagente da sgonfiare, poi aveva disarmato il tiro di Van Dord come fosse una carezza di un neonato, infine avrebbe accompagnato fuori con la coda degli occhi il diagonale di La Ling. Poi con gli occhi da friulano freddo si sarebbe messo ad ammirare il barone Franco Causio che calciando da fermo aveva invece gonfiato l’angolino della porta: immobile e pietrificato, il celebre collega Schrijvers avrebbe abbracciato pure lui. Il mito. Dino.
E’ appena finita una notte indimenticabile nel gelo di Torino, la primavera sta bussando alle porte eppure i riverberi dell’inverno stanno piombando sulla porta dell’alba. Il giorno dopo. Congeleranno le speranze di una nazione intera, ne tratterranno il fiato. Ormai da anni le notti della Repubblica italiana sono diventate tutte uguali, tutte tragicamente eguali. Una discesa all’inferno. La lotta armata ed eversiva toglie il sonno, popola gli incubi della nazione, lascia sull’asfalto sangue e ancora sangue. Quello di innocenti servitori dello Stato, ogni volta l’attacco sembra il più ardito e ogni volta tocca invece aggiornare il conto, trovare nuovi aggettivi. Notte e giorno. Tutto tremendo, tragico, terrificante. Giorni oscuri si susseguono eppure no, l’ora più buia deve ancora arrivare. Come fosse una cometa, annunciata da un frammento di luce, spunta proprio da quella notte. Per milioni di italiani: operai, studenti, impiegati, donne e uomini per un attimo distratti e poi.
E’ la notte del 15 marzo 1978. L’impresa dal dischetto ha consegnato alla Juventus di Trapattoni il biglietto delle semifinali di Coppa Campioni: i bianconeri che in campionato devono guardarsi le spalle solo dal Vicenza dell’esile Paolo Rossi che segna caterve di gol intanto sognano il trionfo in Europa. E’ l’unica italiana ancora in corsa. Sogna l’ennesimo successo continentale pure la Mobilgirgi Varese che nel basket ha appena ipotecato la decima finale consecutiva di Coppa dei Campioni. Meneghin, Ossola, Zanatta, Bisson, Morse e Yelverton: la “vecchia” Ignis si avvia alla sfida infinita col Real Madrid che ha già battuto i varesini in Intercontinentale. L’appuntamento è per metà aprile, a Monaco di Baviera. Alla finale manca però ancora un mese. Ne mancano invece tre all’inizio dei Mondiali di calcio in Argentina: mentre Enzo Bearzot pensa alle convocazioni il Paese è ancora timidamente diviso sull’opportunità di correre appresso a un pallone in una nazione dove i diritti civili ormai sono rotolati via da tempo. La dittatura del generale Videla, i desaparecidos, la violazione dei diritti umani compiuti dai militari: temi che hanno vivacizzato le pagine solo di qualche giornale italiano ma poi niente. L’idea del boicottaggio, lanciata dal quotidiano sportivo francese l’Equipe e da un Comitato internazionale, è ormai stata superata. La politica internazionale e quella sportiva – al comando della Fifa c’è già il potentissimo brasiliano Joao Havelange che fa estrarre le palline del sorteggio dal nipote di tre anni – è riuscita nell’impresa di silenziare, agevolando una narrazione edulcorata della situazione argentina. E dire che in occasione del sorteggio un gruppo di amici – Gianpaolo Ormezzano direttore di Tuttosport, Elio Domeniconi e Guido Zucchi del Guerin Sportivo, il ct Enzo Bearzot e le vecchie glorie argentine Omar Sivori e Nestor Rossi – ha rischiato l’arresto perché dopo la cena s’è pericolosamente fermato con l’auto vicino alla villa del numero due della dittatura, il generale Galtieri. Una notizia che non sarà mai pubblicata, rivelata anni dopo dal pentito Ormezzano. Si scoprirà pure molto altro, anni dopo sul controllo dei mezzi di informazione. I media? C’è la Rai che è la televisione di Stato, c’è l’editore Berlusconi che da TeleMilano ha cominciato la scalata, ci sono le radio locali. E poi ci sono i quotidiani e i settimanali politici: sono ancora loro a possedere la fetta più grande del mercato informativo. Però.
Il “Corriere della Sera” è fresco di proprietà della famiglia Rizzoli che per acquistarlo dalla triade Agnelli–Crespi–Moratti s’è dovuto impegnare: gran parte dei venti miliardi di lire saranno finanziati anche attraverso le casse vaticane dello Ior dal presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi – a cui in pegno passa l’80% delle azioni della società editoriale – e dal finanziere Umberto Ortolani. E’ l’abbraccio mortale della loggia massonica P2 di Licio Gelli che intanto grazie ai contatti con l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera ha spianato lo sbarco dei Rizzoli anche in Argentina. In via Solferino invece hanno sloggiato il direttore Piero Ottone e insediato Franco Di Bella. I Mondiali in Argentina devono celebrarsi, e così dalle colonne del quotidiano milanese – mentre su Repubblica i servizi di Franco Recanatesi e Saverio Tutino descrivono gli atti e le conseguenze della dittatura, un articolo in prima pagina di Leonardo Vergani ha questo titolo: “L’industria del gol dà lavoro e speranza all’Argentina”.
Il gruppo di potere ha intanto convinto la famiglia Rizzoli ad acquistare anche le quote de “La Gazzetta dello Sport” che passerà di mano proprio alla vigilia dei Mondiali. Sulle colonne della rosea – diretta dal salernitano Gino Palumbo – comincia a trovare marginalmente spazio l’aspra battaglia avviata da Renzo Nostini che affonda i colpi sulla presidenza trentennale al Coni di Giulio Onesti: esposti alla Corte dei Conti, denunce alla Procura della Repubblica, sentenze al Tar e veleni che in estate porteranno il giovane Franco Carraro a diventare presidente del Comitato Olimpico italiano. Un’elezione frutto di un estenuante compromesso.
A tenere banco però in quei primi mesi del ’78 è ben altro compromesso. Il “compromesso storico”. Dopo una crisi di otto settimane è nato un nuovo Governo. A guidarlo c’è Giulio Andreotti che l’11 marzo in diretta tv ha letto la lista dei ministri controfirmata dal presidente Giovanni Leone che pochi mesi dopo sarà costretto a dimettersi. Il Governo deve ottenere la fiducia delle Camere, per la prima volta nella storia della Repubblica s’avvia a nascere con l’appoggio esterno del Partito Comunista Italiano. Gli artefici della svolta sono due: Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Il presidente della Democrazia Cristiana il 28 febbraio parlando ai 262 deputati e 136 senatori recalcitranti all’accordo malvisto (eufemismo) dagli Stati Uniti, aveva detto: “Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà… Camminiamo insieme perché l’avvenire appartiene in larga misura ancora a noi”. L’alba di un nuovo inizio è fissata al 16 di marzo. In mattinata alla Camera dei deputati è previsto il dibattito sulla fiducia al Governo.
Il 16 mattina, poco prima delle 9, l’onorevole Aldo Moro saluta i figli e la moglie Eleonora, scende le scale del palazzo dove abita, il civico 79 di via del Forte Trionfale, zona Nord Ovest di Roma. Ad attenderlo c’è una 130 Fiat e ci sono gli uomini della scorta. Il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci e tre agenti di polizia: Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Sono tutti giovanissimi, sono tutti servitori dello Stato. Le auto partono verso Montecitorio. Pochi metri, poi la colonna si ferma al semaforo di via Mario Fani. La strada è larga, è poco trafficata. E’ questo l’incrocio della Storia, segnata da uno stop che diventerà punto di non ritorno. Il colpo più feroce, ardito e violento al cuore dello Stato. Sgomento, sorpresa, incredulità. Il 16 marzo del 1978. L’anno dei tre papi, delle dimissioni di Leone e dell’elezione di Pertini, ma per sempre resterà soltanto l’anno della “Notte della Repubblica”. Perché l’ora più buia è arrivata, piombata con un tamponamento di auto e poi disseminata da una sventagliata assassina. In un giovedì di quasi primavera.
La prima telefonata arriva al “113”. Sono le 9.02, una voce anonima riferisce di una sparatoria. Alcune volanti giungono sul posto per allontanare la folla. Davanti agli occhi increduli, un massacro. Gli sportelli aperti della Fiat 130 e dell’Alfetta bianca, le due auto non blindate sono crivellate di proiettili. Sull’asfalto frammenti dei vetri, decine di bossoli di armi da fuoco, il corpo dell’agente Raffaele Iozzino riverso in un lago di sangue. All’interno dell’Alfetta e della 130 i corpi senza vita degli altri quattro agenti della scorta. Del presidente della Democrazia Cristiana nessuna traccia.
Sono le ore 9,25, la voce di Gustavo Selva al Gr2. “Gentili ascoltatori, siete collegati con la redazione del Gr2. Interrompiamo le trasmissioni per una drammatica notizia che ha dell’incredibile e che, anche se non ha trovato ancora una conferma ufficiale, purtroppo sembra vera: il presidente della Democrazia cristiana, l’onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi…”. Sei minuti dopo. Solo un rimbalzo di frequenze, la notizia è confermata. E’ il Gr1, anch’esso in edizione straordinaria. “Il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro è stato rapito, a Roma, stamane, all’uscita della sua abitazione. Gli uomini della scorta colpiti e uccisi, non si sa se ancora tutti, dal fuoco del commando”. La notizia fa il giro del mondo. L’Italia si ferma. Chi è a casa accende la tv e la radio. Aspetta, incredula. I giornalisti dell’Ansa sospendono l’agitazione. “In considerazione della situazione creatasi con il tragico episodio del rapimento dell’onorevole Moro, il comitato di redazione dell’Ansa, d’intesa con la rappresentanza sindacale e accogliendo l’invito della Federazione nazionale della stampa, decide di sospendere lo sciopero di 24 ore già proclamato e di riprendere le trasmissioni”. Alle 10.16 arriva in redazione una telefonata. “Sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga”. Due minuti prima c’era stata un’altra telefonata anonima, all’Ansa di Milano. “Portato l’attacco al cuore dello stato” e che “l’onorevole Moro è solo l’inizio”. E’ l’inizio di una lunga diretta. Durerà 55 interminabili giorni. L’Italia incollata alla tv, dalle ore 10 del 16 marzo fino a quel pomeriggio del 9 maggio quando il corpo di Moro sarà ritrovato in una Renault 4 rossa in via Caetani. Altre immagini indimenticabili che passerano alla storia, come quelle del primo giorno. Quelle di quella mattina. Il 16 marzo.
Sono passate da poco le ore 10 quando Bruno Vespa viene raggiunto in diretta nello studio del Tg1 da Paolo Frajese. E’ appena tornato da via Fani, ha la voce affannata e ha portato la cassetta del servizio. E’ il primo reportage quasi in presa diretta: è toccato a lui, ex conduttore per due anni della “Domenica Sportiva”, descrivere con la voce e sulle immagini l’incredibile accaduto. Il servizio è confezionato con un “piano sequenza”: è una tecnica che consiste nella modulazione di una sequenza attraverso una sola ripresa, senza soluzione di continuità. La voce di Frajese accompagna le immagini e l’operatore che le filma: l’Italia davanti allo schermo si ferma. Assiste da casa come a un film. Però è tutto vero. Tutto tragico e terribile. Sembra ancora quasi di vedere e sentire.
“Ecco la macchina con i corpi degli agenti che facevano parte della scorta, coperti da un telo… Vi sono due uomini sulla 130, un altro corpo è sulla macchina che seguiva. I carabinieri stanno facendo rilievi. Sono quattro morti più un ferito, mi dice un collega, e l’onorevole Moro è stato rapito. Sembra, mi dice ancora questo collega, che ringrazio… sembra che sia stato anche ferito… guardate i colpi… puoi andare sulla portiera per piacere?… guardate i colpi sparati evidentemente con mitra… il corpo di un altro di questi agenti… Ecco, per terra ancora… andiamo a destra per piacere… i bossoli… vedete, e poi ancora a destra… vediamo la borsa, evidentemente la borsa di Moro e il berretto di un… non si capisce che sia… sembra di un pilota… sembrerebbe no, un berretto da metronotte, sembra forse un berretto dell’Alitalia, ma no, l’Alitalia non ha quei gradi… e il caricatore di un mitra. Forse gli attentatori erano mascherati… può darsi… con una strana divisa. Questa è la scena. Ancora un altro corpo qui a destra, per piacere vieni di qua… stavo pestando inavvertitamente i bossoli, ecco il corpo di un altro, probabilmente di uno dei componenti la scorta o forse un passante, non sappiamo ancora, le notizie evidentemente potranno essere raccolte solo in un secondo momento. Il sangue… il sangue per terra, una pistola automatica, ecco… quattro corpi… qui, alle dieci del mattino a via Fani. Quattro… per terra. Non sappiamo se ci sono testimoni oculari… proviamo a cercare”.
La voce di Paolo Frajese è quella di un cronista di razza. Spesso rotta dall’emozione, freme, sospira e quasi esita, nel descrivere la scena: è un vero e proprio atto di guerra delle Br nei confronti delle istituzioni democratiche italiane. Il racconto ha il passo incalzante, di chi conosce bene la cronaca sportiva. Il Paese è paralizzato, incredulo. L’atmosfera surreale. I sindacati proclamano subito lo sciopero generale. I genitori vanno a prendere i figli a scuola. I politici si tappano la bocca, s’asserragliano a Montecitorio. Quel giorno scorrerà come un nastro. Cinquantacinque giorni in presa diretta: la classe politica incapace, divisa, le deviazioni degli apparati dello Stato, le ricerche del rifugio e persino le sedute spiritiche, gli appelli di Paolo VI, le trattative parallele, le lettere e le foto di Moro, le sue denunce, e un’Italia disorientata, quasi ammutolita. Privata della verità, a distanza di 43 anni: perché cinque processi e cinque Commissioni d’inchiesta non hanno mai levato ombre e mai sancito una verità storica, politica e giudiziaria.
Cinquantacinque giorni infiniti, come fossero uno soltanto: da quel 16 marzo del 1978 cambiò tutto, anche il modo di raccontare i fatti. In tv, e sui quotidiani. Persino quelli sportivi. Perché è da quel giorno che la cronaca politica e giudiziaria approderà anche sulle colonne di Tuttosport diretto da Gianpaolo Ormezzano, del Corriere dello sport diretto da Giorgio Tosatti e della Gazzetta dello Sport diretta da Gino Palumbo. I tre principali quotidiani sportivi nazionali ogni giorno dedicheranno articoli e approfondimenti sul caso. Fino al giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani. Era il 9 maggio del 1978: nelle stesse ore la Figc spediva i telegrammi agli azzurri convocati da Bearzot per i Mondiali d’Argentina.