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Plaitano, un proiettile e mille bugie

Il 28 aprile del 1963 al Vestuti moriva Giuseppe Plaitano, la prima pagina nera del calcio italiano
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Uno stadio vuoto è come lo scheletro di una folla. E’ la metafora di Mario Benedetti, scrittore e poeta uruguagio. E’ invece un giorno di storia, il 28 aprile del 1963 a Salerno. Lo stadio Vestuti è pieno e sopra un gradone della tribuna c’è una persona per terra. C’è sangue, accanto al suo corpo. L’uomo ha 48 anni, si chiama Giuseppe Plaitano. E’ un ex maresciallo della Marina Militare, è padre di quattro figli, fa il custode di Villa Laura, la clinica di Enrico Vigorito, un ex proprietario della Salernitana. Giuseppe con il figlio Umberto è andato al Vestuti per vedere Salernitana-Potenza. E’ uno degli ultimi atti del campionato di serie C 1962/1963, è la trentesima giornata. I granata hanno forse l’ultima possibilità di rientrare nella corsa promozione mentre il Potenza la serie B l’ha invece proprio nel mirino. E’ una domenica particolare: forse non si sarebbe dovuto nemmeno giocare perché le forze dell’ordine avrebbero altro cui badare. E’ una domenica di tornata elettorale, si vota per le Politiche perché un altro governo è caduto e non c’è più maggioranza: il Pci insidia la Dc, il presidente del Consiglio è il professore Amintore Fanfani, il ministro dell’Interno è invece Paolo Emilio Taviani. Nella Salernitana giocano Scarnicci, Santin, Gigante, Cordova, l’allenatore è Giunchi e il suo vice è Mario Saracino. Pasquale Gagliardi è il commissario straordinario. I granata vanno a caccia della vittoria contro c’è il Potenza dei miracoli allenato da Egizio Rubino. L’arbitro è il trentaseienne Giuseppe Gandiolo della sezione di Alessandria. In dodicimila sperano stipati nel Vestuti. Tutti e dodicimila imprecano quando il Potenza passa nel primo tempo: dodicimila imprecano accidenti no, quel gol però è in fuorigioco. Nella ripresa sul prato è assalto granata. La tensione cresce, lo stadio si scalda. I fischi dell’arbitro però sembrano andare in una sola direzione. Un tifoso a metà ripresa allora entra sul campo ma due carabinieri l’afferrano e lo bloccano, lo portano via senza violenze. Per fortuna tutto pare rientrare e si riprende a giocare. Dieci minuti dopo però il granata Visentin cade in area ospite, il Vestuti s’aspetta il rigore e invece Gandiolo dice no anche stavolta, accidenti a voi quello non è rigore. Un altro tifoso allora scavalca dai Distinti ed entra sul prato, inizia a correre verso l’arbitro. Due questurini lo rincorrono, lo randellano. A sangue. L’uomo chiede aiuto alla folla, le reti di recinzione cadono ovunque. E’ baraonda, in almeno duecento entrano sul campo e sul campo ci corrono le camionette delle forze dell’ordine. A Gandiolo rifilano un cazzotto mentre scappa e forse è stato “u’ cines”, i giocatori di Salernitana e Potenza incolumi sui primi gradini del sottopasso. E a Oliviero Visentin sembra di stare ancora sopra uno di quei gradini. «Una giornata di festa e di sole rovinata dall’arbitro, che in campo ci dice: “Voi non mi fate paura”. Sto volando verso la porta del Potenza quando mi prendono da dietro, mi stendono a terra. Un attimo dopo le recinzioni vengono giù. E’ baraonda. La polizia spara lacrimogeni, entra con le camionette sul campo, una mette sotto un ragazzino. Sul prato ci sono anche i bimbi dell’orfanotrofio. Vedo sangue, manganelli. Io scappo, chiudo gli occhi, non vedo più nulla. Quando li riapro ho i vestiti in mano e sono a casa di Bruno Carmando». Sul prato i disordini infuriano. Poi partono tre colpi, sparati dalla metà campo. Il grilletto lo preme il tenente di Polizia Gaetano Parasole, il proiettile di una calibro 7.65 fila però verso la tribuna e arresta la sua folle corsa nella tempia sinistra di Giuseppe Plaitano. Che muore all’istante. E’ la prima vittima d’incidenti in uno stadio italiano. Colpita in un pomeriggio di primavera del ’63 da un proiettile involontario ma sempre assassino. A tarda sera – alle ore 23, solo dopo l’intervento del sindaco Alfonso Menna e sedati i disordini a piazza Casalbore – Gandiolo e il Potenza riescono ad uscire dal Vestuti. In linea d’aria duecento metri al massimo, c’è l’ospedale Riuniti. Nella sala mortuaria c’è ricomposto il corpo di Giuseppe Plaitano. Morto per un colpo d’arma da fuoco. Tutta la città lo sa, è un passaparola diventato doloroso e rabbioso. Eppure il direttore dell’ospedale Achille Napoli in una dichiarazione resa alla stampa in serata dichiara che “il cadavere non presenta alcuna ferita provocata da arma da fuoco mentre invece è stata riscontrata una grossa ecchimosi nella parte alta del torace. Si ritiene pertanto che le cause del decesso siano da ricercarsi nello schiacciamento”. Viene disposta l’autopsia e – mentre il resoconto dei disordini diventa soltanto un elenco di numeri, 68 feriti tra forze dell’ordine e civili, 36 medicati tra il Riuniti, Villa Italia e Torre Angellara, 30 i fermati in camere di sicurezza, danni per 20 milioni di lire – nelle stanze del potere provano a spegnere la miccia già ardente. Il ministro Taviani invia da Roma l’ispettore Fiorita a indagare – giorni dopo saranno rimossi prefetto e questore – il Procuratore della Repubblica Vincenzo Botta dispone un’inchiesta che acquisirà poi il referto autoptico. I parlamentari del Pci Amendola e Granati il giorno dopo presentano un disegno di legge per il disarmo delle forze di polizia. Ai funerali parteciperanno in ventimila, il Vestuti sarà squalificato per quattro giornate. Domani, 28 aprile 2020, fanno 57 anni da quel giorno e un punto su quella tragedia non è mai stato messo. Giuseppe Plaitano morì colpito da un proiettile partito dalla pistola di un agente di polizia forse spaventato, colpi in aria che invece prendono un’altra traiettoria. Non si è mai svolto un processo, gli atti, le perizie e i referti sono svaniti. Umberto Plaitano ancora due anni fa ha scritto al ministro della Giustizia, si è rivolto anche alla trasmissione Rai “Chi l’ha visto”. Nulla, solo silenzi. Cinquantasette anni e nemmeno una lettera con due righe, due semplici parole: ci scusiamo. Di quel giorno resta solo una foto, Giuseppe a terra lì dove il figlio Umberto l’aveva salutato. Non si era mai mosso da lì, altro che calpestato e soffocato. Una foto arrivata al figlio tempo dopo, e il figlio Umberto non sa ancora come. La morte del papà è la prima pagina nera del calcio tricolore. Resta uno scheletro nella storia della giustizia italiana.

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«Prima di salutarci, gli chiesi qualche sigaretta. Mi guardò sorpreso, non arrabbiato. Aveva appena scoperto che fumavo. Me ne diede cinque, quelle cinque le avrei fumate durante la partita insieme agli amici. Al Vestuti ero entrato con lui. Lui col biglietto, io senza. Ma al varco della tribuna c’era un bidello del Ragioneria, l’istituto che frequentavo. Toccava proprio a lui fare i controlli. Avevo la scoppola ma mi riconobbe lo stesso. Si mise a ridere. “Ci vediamo domani a scuola, ciao Umberto mi raccomando”.  Entrai in tribuna, stadio già pieno, io quattro gradoni più sotto rispetto a mio padre. Aveva il suo posto preferito, quasi accanto alla tribuna stampa. “Giuseppe, mi metto sull’ultimo gradino”: sono queste le ultime parole di mio padre. Odiava essere pressato dalla folla, quel giorno il Vestuti era pieno. La Salernitana poteva ancora farcela, lottava per la promozione in B, proprio come il Potenza. Sicuri di vincere, ci salutammo con un occhiolino. E’ questa l’ultima immagine di mio padre, vivo.

La partita comincia, la Salernitana va sotto nel primo tempo, prova a recuperare, Visentin cade in area ma per l’arbitro non è rigore. Subito è caos. E’ un istante. E poi c’è un altro, di istante: come una premonizione volgo lo sguardo lì dove avrebbe dovuto esserci mio padre. Invece tutto intorno è caos, è paura, è gente che urla, tifosi che scappano. Mio padre non lo vedo, in tribuna c’è la calca. Si ondeggia. Sul campo, e non si capisce come e perché, ci sono due camionette della polizia che stanno correndo all’impazzata. Tifosi che scappano sul campo, rincorsi e presi. Scappa pure l’arbitro, scappano i giocatori. Scappano tutti. C’è chi perde sangue, chi piange per i colpi di manganello, chi per il fumo acre dei lacrimogeni sparati in aria. Mi giro, risento l’eco di un colpo. Forte, secco, lo sento come tutti gli altri su quei gradoni. Lo speaker Vincenzo Costantini dal microfono in tribuna stampa, urla: “Sono arrivati colpi qui in tribuna”. Poi il buio, poi di corsa. Tutti fuori, a ripararci verso piazza Casalbore. Mio padre non lo vedo.

Mio padre l’avrei visto dopo, sulla tavola mortuaria all’ospedale Riuniti in via Vernieri. Senza gambe e piedi, c’ero arrivato portato da braccia amiche e sconosciute, ancora inconsapevole di ciò che fosse realmente accaduto. Qualche amico aveva detto che papà s’era fatto male a una gamba, che dovevo andare in ospedale. E invece quando arrivai ai Riuniti il corpo era su una tavola. Al capezzale mia madre che di solito l’aspettava per strada. Abitavamo lì vicino, a due passi dal cinema Apollo. E la rivedo ancora, quella scena.

Un solo colpo, un solo foro, un rivolo di sangue. Il proiettile che ha colpito mio padre gli ha trapassato la tempia, all’altezza dell’encefalo. Lì dove non c’è alcuna protezione. Papà non ha avuto scampo. Papà è morto. Colpito da un proiettile – calibro 7.65 – sparato all’altezza del centrocampo, come fosse un pallone calciato al fischio d’inizio. Eppure c’è chi dice sia morto per asfissia, schiacciato dalla folla che scappava. E invece quel colpo di pistola l’ho sentito, l’ha sparato un tenente di polizia: Gaetano Parasole. L’ha fatto a scopo intimidatorio, per disperdere la folla. Forse aveva avuto paura, non so. L’ho vista la perizia balistica, l’ho visto il rapporto dell’autopsia: la parabola discendente del proiettile che aveva ucciso sul colpo mio padre. Poi però come d’incanto tutte quelle carte sarebbero scomparse.

Mio padre era un ex maresciallo maggiore della Marina, all’esequie ci fu persino il picchetto d’onore della Marina Militare e quello dell’Esercito. Una bandiera italiana avvolgeva la bara. In piazza San Francesco ventimila persone, la chiesa piena. Dopo le esequie il corteo funebre arrivò sin davanti la Questura. Una lunga processione. Gli agenti chiusi dentro e i carabinieri fuori, a protezione davanti al palazzo. C’era chi voleva approfittarne per creare incidenti, chi cercava vendetta e tanti che urlavano solo “Vogliamo giustizia”. Per fortuna non successe nulla. Però non doveva finire così.

Io sono Umberto Plaitano. Certo, sono il figlio di Giuseppe. Ma sono pure un teste. Io c’ero quel giorno, lo sentii quel colpo, lo vidi quel foro sulla tempia. Mai avuto rancore nei confronti delle forze dell’ordine. Mi sentivo come un tutore della legge, alla fine di quell’anno scolastico sarei dovuto andare all’Accademia navale di Livorno.

Durante la gara l’atteggiamento dell’arbitro Gandiolo fu quantomeno discutibile. Dopo l’ennesima decisione sfavorevole alla Salernitana, un tifoso si lanciò in campo dai Distinti. Voleva colpire Gandiolo ma fu bloccato da due carabinieri: lo presero, lo portarono fuori. La partita riprese e dopo qualche minuto non concesse un rigore alla Salernitana. Un altro tifoso allora si catapultò sul campo ma fu raggiunto da due questurini e preso a manganellate. L’invasore aveva una camicia bianca che diventò subito rossa, sporca e piena di sangue. Il tifoso scappò verso la tribuna. “Guardate che mi hanno fatto, aiutatemi”. In quel momento caddero le recinzioni di tutti i settori. Invasione generale. Galdiolo e i giocatori di corsa negli spogliatoi, in salvo. Eppure il tenente Parasole da metà campo sparò dei colpi in aria per disperdere la folla, già inferocita e in lacrime per il fumo e l’odore acre dei lacrimogeni. Perché? Come? Me lo chiedo ancora, senza una risposta. L’arbitro era già negli spogliatoi, così come i giocatori di Salernitana e Potenza. La tensione e il caos stavano rientrando. Cosa si può dire davanti alla violenza? Nulla, solo da condannare. Ma la morte di mio padre meritava verità. E invece.

E invece Parasole dopo quel giorno fu trasferito in Sardegna, di lui non si seppe più nulla, nessun processo, nessun interrogatorio. Nulla. Da lui mai una parola di scuse, una richiesta di perdono, così come dallo Stato. Anche prefetto e questore furono trasferiti. Ma la morte di mio padre non è mai stata riconosciuta per quello che fu realmente: un omicidio. Colposo, ma sempre omicidio.

Se fosse successo oggi non sarebbe andata così. Per fortuna ora ci sono i media a tenere alta l’attenzione. Odio? Mai provato. Il processo? Una farsa, non ci fu mai un processo. Ci rivolgemmo al penalista Pasquale Pastore, gli portammo tutte le carte ma non voleva mettersi contro lo Stato. Io e la mia famiglia andammo allora a Napoli dall’avvocato Pasqale Ruggiero. Dopo qualche mese senza notizie gli chiesi conto del lavoro ma disse addirittura di non conoscerci, persino di non aver mai ricevuto carteggi. Lasciammo stare. La situazione all’epoca era così, in Italia. Il giorno dopo i funerali il postino se n’era tornato indietro, senza la pensione di papà. Io frequentavo il quinto anno di ragioneria. Poi c’erano i miei fratelli, mia sorella, mia mamma casalinga. Da grande uomo quale era, il sindaco Alfonso Menna fece preparare una delibera di giunta per l’assunzione di mia madre. Qualche giorno dopo andammo da lui, pregammo di assumere me perché così mia madre avrebbe potuto continuare a farci da mamma. E Menna disse di sì. Il mio stipendio? Sessantamila lire al mese.

Papà non è stato dimenticato. Nel ’93 è stata posta una lapide in suo ricordo al Vestuti, gli è stata intitolata la curva “vecchia”, per trent’anni c’è stato un club di tifosi che ha portato il suo nome in tutti gli stadi italiani. Allo stadio non ci sarei più andato per dieci anni, fino al ’73, quando diventai responsabile del settore giovanile della Salernitana. Il pallone come uno sfogo. Divenni dirigente accompagnatore, poi direttore generale della prima squadra in anni difficili ma belli, chiusi nel ’78 con la sconfitta in Coppa Italia, quel triste 4-0 in finale a Padova. Ma il periodo più bello è stato quello della serie A. Ero il direttore generale del settore impianti e servizi comunali, ero quindi il responsabile anche dell’Arechi. Tutto però sarebbe finito in quella stagione, un’altra stagione di tragedia e di morte. Il rogo del treno, la morte di quei quattro ragazzi. Rimasi sconvolto, rividi la mia esperienza. Da allora il calcio non l’ho più seguito. Cosa mi è rimasto oggi? La rabbia no, solo un senso insopportabile d’incompiuto. E un vuoto, un vuoto che non si è mai riempito».

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