Che importa se non c’è più, a noi basta quello che abbiamo conosciuto. Alto, il collo di una giraffa. Sorridente, quei dentoni bianchi come Bugs Bunny. Alla moda. Amava Giorgio Armani e Robe di Kappa eppure un suo ex compagno ancora oggi sorride e mentre lo piange e rimpiange, dice: «Guarda che avrebbe avuto bisogno di uno che lo consigliasse nell’abbinamento dei colori». Lo sport è bello ma mica si finisce sempre sul podio. Perché poi c’è la vita che a volte è una carogna, ti chiude gli occhi senza il tempo di incrociare un ultimo sorriso. Un sorriso, amico. Divorato da un cancro all’intestino, dimenticato da tutti quelli che avevi accolto tra le tue braccia, disarcionato da quel podio dove ti avevano collocato. Tu “la leggenda di una nazione”, “l’ambasciatore di un popolo”, “il centravanti della provvidenza” che hai dovuto dire addio al sogno di riconvertire una miniera nella terra dov’eri nato, che hai dovuto svendere tutte le maglie e tutti i tuoi trofei per non essere sfrattato, tu che per sopravvivere sei stato costretto a venderti persino ferro da stiro, tostapane e bollitore.

Bolle invece la rabbia per le celebrazioni al solito postume di chi sarebbe poi venuto a congedarti. Tu e i tuoi 49 anni sigillati in una bara avvolta dalla bandiera arcobaleno e accanto una pomposa sfilata. Il primo ministro, il ministro dello sport, il presidente della federazione, tutti a battersi il petto per il centravanti dei Bafana Bafana che nel ’96, da poco terminata l’Apartheid, vinsero la prima storica Coppa d’Africa, a dolersi per l’attaccante che l’anno dopo col gol decisivo al Congo regalò la prima storica partecipazione ai Mondiali, a glorificare l’ambasciatore del calcio africano che viaggiando dall’Italia alla Germania, dalla Nuova Zelanda al Giappone, ottenne il sì alla prima storica edizione della fase finale dei Mondiali nel Continente nero: era il 2010 e proprio nel tuo Sudafrica. Pianti, ricordi e rimpianti. I tre fratelli, la moglie Ntombi che piange e accusa ” voi l’avete dimenticato, ha bussato alle vostre porte e voi le porte non le avete aperte” e persino l’ex Carol nonostante storie tese e un divorzio diventato zavorra, tre figli fieri. Tutti nella piccola Khuma, il borgo dove sei cresciuto. Lì dove per i tuoi dieci anni mamma Salinah, la benzinaia, ti regalò il primo pallone di cuoio, lì dove tuo figlio Sifiso abbracciato alle sorellastre Timyiko e Tatyana nel giorno dell’addio – il 24 gennaio di due anni fa – così ti ha salutato: “Mio padre era un meraviglioso fiore, un fiore cresciuto dal cemento”.

Finiti i Mondiali e silenziato il frastuono delle vuvuzela, s’era invece alzato un muro di cemento armato davanti a quei 190 centimetri di generosità e intelligenza. Non tutti, ma tanti in Sudafrica sapevano che la parabola del campione stava curvandosi verso la solitudine, la povertà, la tragedia, la fine. Otto anni di buio ma mai un accenno agli amici in Italia, in Svizzera, in Inghilterra, lì dove avevi giocato lasciando impronte dell’uomo prima che del calciatore. Chippa accidenti a te, tu proprio non volevi dirlo. “E se avessi problemi nella mia vita? Chi non li ha, rispondimi? Dimmi, cosa c’è di sbagliato nel tornare a vivere in una borgata? Non voglio pietà, io non finirò come Jake Matlala”: così, sbattendogli il telefono in faccia, replicasti a un cronista del Sunday World che nell’aprile del 2011 ti interrogava sul tuo disperato e solitario lastrico.

Tu giocavi centravanti, e forse avresti dovuto prima imparare a difenderti. Certo, sul prato sapevi farlo. Appostato sul primo palo quando l’avversario batteva angoli e punizioni, a marcare il centravanti nemico in area, ad asfissiare i centrali avversari per offuscarne la costruzione da dietro. Una volta Franz Beckenbauer, il primo grande libero moderno nella storia del calcio mondiale, disse. “Che si vinca o si perda non conta, conta portare a casa la dignità”. Ecco, caro Philemon Raul Masinga detto Chippa, tu la dignità l’hai portata a casa sempre. Fino al tuo ultimo giorno, fino a quel 13 gennaio del 2019 quando te ne sei andato in un lettino d’ospedale dopo quattro mesi di guerra senza più difese perché non avevi nemmeno i soldi per curarti. Via e per sempre, senza incrociare un ultimo sorriso. Però ricordi e sorrisi no, quelli non si cancellano e allora proprio nei giorni di ponte tra aprile e maggio del 2020 pensi “grazie amicomì”. Tutto attaccato, come direbbe il tuo amico Vittorio Tosto. Grazie perché se non ci fossi stato tu quel giorno del ’97, la serie A avremmo continuato a vederla dal cannocchiale.
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E’ domenica 4 maggio 1997 e 20.687 spettatori paganti all’Arechi – ma sono almeno 3mila in più – all’annuncio delle formazioni si chiedono, disperati. “Sì, ma oggi chi segna?”. La Salernitana è terz’ultima, con 21 reti è quella che in B ha segnato meno di tutte. Le restano 7 gare per salvare una stagione che avrebbe dovuto essere trionfale, e dire che a inizio stagione ha comprato persino gli stranieri. Gli olandesi Jansen e Ferrier l’ha sponsorizzati a Cannella un giovane Mino Raiola da Angri e sono già dispersi e scomparsi, a ottobre poi si sono aggiunti l’australiano Tiatto e il sudafricano Masinga. Quattro in soli sei mesi. E pensare che l’ultimo straniero in granata era stato il magiaro Kincses nel ’53 e in curva Sud 43 anni dopo hanno pure srotolato uno striscione. Ammicca a un’ungherese che fa la pornostar: “Se gli acquisti li fate con le videocassette allora comprateci Cicciolina”. Ha cambiato pure allenatore – la prima volta nell’undecennale era Aliberti – ma il risultato non è cambiato. Squadra piatta e forse un po’ spaccata tra vecchia guardia e nuovi: è una squadra che non segna e che non vince. Né al timone di Franco Colomba, né con quello di Franco Varrella. E’ una barca che affonda, senza vento, senza scialuppa. Come sette giorni prima col Padova di Allegri e Lucarelli, sempre all’Arechi. Zero a zero, un’emozione e 16mila imprecazioni quando il capitano Ciccio Tudisco al 28’ sistema il pallone sul dischetto. Il Motorola di Aliberti proprio in quel momento squilla. “Ciao Nello sono Luciano, come va?”, fa Luciano Moggi e ad Aliberti resta il vaffa mozzato sulle labbra.

Sarà pure per questo che sette giorni dopo – è il fatidico 4 maggio del ‘97, sole a picco e tensione boia – si sistema a bordocampo sbottonato in una giacca a renna, gli occhiali fumè a due passi dal tunnel degli spogliatoi. “Ah no, ma poi così chi segna?”. La domanda il presidente l’ha rivolta in settimana al proprio allenatore in un faccia a faccia assai aspro nella sede in via Lungomare Marconi. «Ma quale imposizione, al mister dissi solo: così non va, lei deve trovare un’alternativa, bisogna attaccare e rischiare altrimenti non ci salviamo», ricorda ora sornione l’ex patron. La Salernitana è agonica e la luce non la vede, sebbene il discepolo di Arrigo Sacchi negli spogliatoi dal primo giorno abbia provato a motivare così i suoi: “Mettiamo una serie di mattoni davanti alle finestre, ogni punto fatto ne togliamo uno. Solo così rivedremo la luce”. E invece la Salernitana s’è infilata in un tunnel, la penombra è diventata paura e alle finestre nel ventre dell’Arechi restano troppi mattoni. Appena 2 vittorie in 12 partite. Nel ritorno – Varrella ha esordito l’1 febbraio cascando a Foggia – ha raccolto appena 12 punti, è terz’ultima e il quint’ultimo posto appare sempre più chimera. Sì, è l’ultima spiaggia quella a cui va incontro il 4 maggio.

“Ah, c’è Masinga con Artistico… E oggi chi segna?” si chiedono sfiduciati i ventimila dell’Arechi mentre i granata sfilano a centrocampo. Pirri, e mica tanto a sorpresa perché ormai non serve più il fioretto ma la sciabola, va in panchina e sull’altra s’accomoda un 18enne, sulla distinta accanto al numero c’è scritto Andrea Pirlo. Il centrocampo granata è di lotta e di governo. A sinistra l’encomiabile Rachini, a destra l’imprescindibile Ricchetti, Breda con Tudisco per legna e fosforo in mediana. Del Grosso dietro se ne sta da adattato centrale difensivo al fianco del filiforme Sadotti, ai lati sventolano le bandiere Grimaudo-Tosto e fortuna che tra i pali ci sia la saracinesca numero uno, e cioè Chimenti, anzi meglio sant’Antonio. Perché la Salernitana deve vincere sì, ma deve stare pure molto attenta: di fronte ha la capolista, il Brescia di Reja sta volando verso la A. Doni e Bizzarri in avanti, in mediana De Paola si cementa coi gemelli Filippini; dietro un baldo stopper 22enne, tale Lele Adani. La Salernitana senza domani invece s’affida all’inedita coppia Artistico-Masinga, tutta assieme somma 4 gol in 7 mesi. Il primo ha sostituito Pisano, ceduto nell’ultime burrascose ore di mercato al Genoa dopo 60 gol in granata, secondo di sempre dietro solo a Margiotta: da metà dicembre tocca all’ariete di Trastevere, accompagnato dalla fama di bomber della B e da un quadriennale a sei zeri. Però in 17 gare ha sprecato due rigori, s’è preso un rosso dopo 4’ a Ravenna ed ha segnato solo 3 volte, l’ultima riacciuffando il Chievo qualche settimana prima, «il Chievo che con quei movimenti ci fece impazzire, che domenica bestiale ragazzi, noi quella volta andammo completamente in bambola», ricorda Breda riavvolgendo il nastro di quella disperante stagione. Roberto, l’amico e primo interprete di Phil soprannominato Chippa. «Condividevamo la camera nei ritiri, era un ragazzo serio, aveva un’impronta di stampo europeo più che africano. Aperto, socievole, non patriarcale. Se c’era da farsi una birra in compagnia la beveva volentieri. Allegro, acuto: un compagno generoso e mai sopra le righe. Più riservata la moglie Carol, legò con la mia; mio figlio Stefano e sua figlia Timyiko erano coetanei, spesso li mettevamo insieme nel box. Proprio un bel quadretto». Come i due papà, uno bianco e l’altro nero; ebony and ivory, manco fossero Stevie Wonder e Paul McCartney.

Però la musica in sottofondo per Masinga a Salerno non è mai cambiata, e sono sette mesi. Lo chiamano Mazinga con la z, come l’eroe cult dei cartoni anni ’80, quello che disintegrava i cattivi al ritmo di “veloce e distruttore come un lampo non dà scampo”. A disintegrarsi invece pare lui, Masinga con la s. Diffidenze – “è troppo alto, troppo poco cattivo, troppo scarso, troppo poco incisivo” – diventate poi inappellabili sentenze. “Ma tu non puoi giocare a pallone, vattene. Vai a vendere le banane, vai a pulire i tergicristalli delle auto ai semafori”. Phil a fine gennaio ’97 aveva già preparato i bagagli. «Voleva tornarsene in Inghilterra. Presidente mi lasci andare che una squadra la trovo – rivela Aliberti – venne in sede e ne parlammo per due ore. Era ferito, era dispiaciuto. Quegli insulti gli avevano fatto proprio male. Attenzione, non insulti a sfondo razzista perchè Salerno è sempre stata una città accogliente. Tagliente e affrettata però nei giudizi calcistici. Era un giocatore di livello internazionale, ce lo segnalò Vinicio Fioranelli, il suo procuratore a quei tempi molto legato alla Lazio. Credevamo in lui, in Inghilterra aveva fatto bene ma in Svizzera non s’era ambientato. Amava il mare. Abagnara trovò un’interprete che ogni sera a fine allenamento e in sede dava un’ora di lezione a lui e alla moglie, incantati da quella vista sulla Costiera. Fortuna che dopo due giorni di discussioni riuscii a trattenerlo. Non ci fosse stato contro il Brescia…».

E sì, perché il 4 maggio Masinga ritorna titolare. L’unico gol a Cesena due mesi prima, un colpo di testa in tuffo da punti zero però perché Piangerelli – un’altra volta maledetto lui dopo esattamente un anno – castigherà i granata al minuto 93’. E proprio col Cesena – era il 19 ottobre, gara d’andata – aveva indossato per la prima volta la maglia della Salernitana sfilando all’Arechi, sfidando mugugni e sarcasmi. E per fortuna la Sud la dirigevano Ciccio Rocco e il Siberiano, “raga’ oh, qui si tifa solo per la maglia”. Numeri impietosi, dalla settima d’andata alla dodicesima di ritorno: in 25 giornate 10 presenze, 339’ giocati, 4 volte titolare, 6 subentri, 7 panche, 8 assenze, un gol. Marrone, il preparatore di Colomba, lo faceva correre col paracadute aperto dietro le spalle. Però zero effetto. «Però Phil aveva un problema fisico serio: una cisti enorme all’adduttore. Una palla, una cosa che non ho mai visto in tanti anni di carriera – rivela Breda – e non si riusciva a venirne a capo. Era limitato, triste, dispiaciuto. Ricordo in auto i nostri discorsi. Lui abitava verso San Mango, qualche volta dall’Arechi facevamo un po’ di strada insieme. C’era chi lo chiamava schiappa, chi lo prendeva in giro. Niente cattiverie ma giudizi pesanti. A Salerno quando sei preso di mira come calciatore non è facile venirne fuori, specie per lui che arrivava da un altro mondo». Pesa la maglietta della Salernitana, pesava cento chili come quella cisti all’adduttore per chi l’indossava quell’anno, disgraziato e disperato. «Quella cisti non se ne andava, quante terapie, quanti consulti – ricorda Aliberti – il dottore Palumbo l’accompagnò a Roma dal professore Mariani ma niente da fare, quella palla non andava via. Pavone ci consigliò un dottore, lo conosceva bene Arbotti. Andammo a Perugia dal professore Cerulli, un luminare davvero. Fu lui a restituirci il vero Masinga, quello sul quale avevamo puntato, quello che poi ci avrebbe salvato». Phil da gennaio si mette al pari, pronto a frantumare maldicenze e battutine, come vicini di casa ha Artistico e Dell’Anno ma pure loro non passano giorni d’incanto. Eppure Varrella per 7 partite lo tiene distante, tanto che un giorno Masinga sceglierà la riva del mare all’allenamento. “Phil, ma dove sei? Guarda che Varrella è incazzato nero”. Dal telefono l’impareggiabile segretario generale Diodato Abagnara si sente rispondere: “Dioda’, digli che pure io sono nero”.

Nero, la Salernitana vede solo nero sino a quel pomeriggio, quel 4 maggio 1997. Un piede in C e davanti un calendario da brividi. Sono le ultime 7: dopo la capolista Brescia c’è il Lecce che pure sta volando verso la A, Ravenna e Pescara in piena lotta promozione, infine Castel di Sangro, Venezia e Reggina alle quali servono ancora punti per salvarsi. «Salerno ama visceralmente la Salernitana, l’epidermide del tifoso trasuda granata – Varrella 23 anni dopo torna nello spogliatoio dell’Arechi stoppando il ricordo a 10’ prima del fischio di Treossi da Forlì – i giocatori sono appena rientrati dal riscaldamento, la curva Sud ribolle e ci scuote. Ci sta dicendo: noi siamo qui con voi, e voi? Apro la porta, mi metto al centro e dico ai ragazzi: ve la sentite di uscire al 90’ da qui tradendo tutta questa gente?». Non una parola.

La risposta sono 28 minuti – i primi 28’ – che inceneriscono la capolista, 28’ di assalti e assedio, 28’ senza tregua e respiro. Nei primi 28’ la Salernitana segna tre volte al Brescia che fino alle ore 15 aveva la difesa meno perforata della B. Pronti, via e Tudisco innesca Masinga che cicca la palla, la traiettoria sbilenca finisce sul piede di Grimaudo, il pallone incoccia sullo stinco di Luzardi e scavalca Pavarini. Al 3’ è già groviglio granata, si abbracciano tutti e tutti corrono da Aliberti intanto piombato sul prato. Gli cascano gli occhiali, «che emozioni e quanti fischi vicino al tunnel, brividi che per fortuna non passano». Il groviglio diventa tripudio e sospiro al minuto 28 quando Tosto-Ricchetti confezionano una ripartenza da urlo, da metà campo Ciccio testa pelata ritrova finalmente un sorriso infilando il portiere in uscita. E’ il gol della staffa ma solo perché 12’ prima una capocciata veloce e violenta aveva messo la partita in discesa. L’assist di Tosto, la capocciata veloce e violenta di Philemon Raul Masinga.

Un calabrese e un africano eppure un unico idioma, l’amicizia. «Tu gol e io polpette, sì gli dicevo proprio così. Se non ci fosse stato lui e quella doppietta al Brescia altro che salvezza, altro che gol al Castel Sangro…» dice adesso il terzino venuto da Cariati, il dioscuro della fascia sinistra che nel giorno della morte di Masinga gli avrebbe dedicato un toccante post sui social. “Di stranieri menefreghisti con lo stipendio facile ne ho visti tanti. Lui era diverso, aveva nel sangue la fame della sua famiglia e del suo paese, era un Bafana… Era fisso a casa mia al parco San Matteo. Una sera divorò una teglia piena di polpette rosse con non si sa quanto pane, aveva le mani unte che a vederlo mi faceva allegria. Amicomì per me era il suo nome, non parlavo francese ma lui capiva. Salerno era diffidente dopo il bidone Ferrier. Lo sfottevo: “Tu gol, io polpette” e rideva con quella mascella enorme e denti così bianchi che non capivo come mai visto che non conosceva i dentisti. Semplice, non sapeva cosa fossero le caramelle. Era un giocatore normale ma aveva cuore, testa, fame e soprattutto sangue negli occhi, tipica dote della sua terra selvaggia. Ci salvammo grazie anche alla sua ottima seconda parte di stagione, ai suoi gol decisivi. Quel 4-1 al Brescia, un mio cross e un suo gol di testa sotto la Sud con capriole infinite e l’esultanza di uno che la sentiva la curva, che amava il Sud e mai l’avrebbe tradito”.

Una capocciata violenta, la rete di Pavarini che si gonfia, Masinga che fa una giravolta e stringe i pugni, sorride e fa un’altra giravolta, corre sfrenato e Grimaudo lo placca. Che giorno quel giorno, quello che si chiude al minuto 86’ con una serpentina in area, tre avversari saltati e il pallone che gonfia un’altra volta la rete del Brescia. Il grezzo Phil è appena diventato un diamante, rivede la luce mentre purtroppo un’altra vita sta spegnendosi – Roberto Bani, giovane tifoso bresciano all’intervallo è caduto su un gradone ed è in ospedale, morirà dopo giorni di coma – ma i novemila della Sud non lo sanno ancora e cantano tutti sulle note di Mazinga con la zeta. Tutti in coro per Masinga con la esse e la maglia 27. “E’ Masinga, ha la maglia dei granata e tutto il resto fa da sé, non conosce la paura né il dolore sa cos’è…”. La Salernitana vince e per la prima volta rivede la luce: sest’ultima a 36, quart’ultima a 3 punti. Quella vittoria sarà la miccia, Masinga titolare fisso e detonatore servirà ancora, eccome. Sette giorni dopo contro il Lecce di Ventura la Salernitana è sotto di due gol all’82’ quando Artistico segna e al 90’ Breda poi pareggia. Che botta. «Più che il gol ricordo la gomitata di Francioso che mi ruppe l’arcata sopraccigliare – ricorda l’ex capitano – mio figlio dormiva ancora nel lettone e una sera mi diede una manata, mi svegliai che sanguinavo». Da lì in poi solo rincorse. E “bidoni” che diventano eroi, come Dell’Anno che regala i tre punti ai 30mila in una sera affilata. Poi però il Pescara di Rossi – Delio ha già ridetto sì ad Aliberti, tornerà a guidare la Salernitana però bisogna mantenere il segreto un altro po’ – le suona tre volte ai granata, «avevo la febbre, vomitai all’intervallo e fui sostituito, quanto correvano», ricorda Breda: la serie B torna in bilico e l’uomo nato a Khuma diventerà un’altra volta il signore della Provvidenza. Un’altra domenica, un’altra che non passerà mai.

Il 25 maggio all’Arechi c’è lo scontro salvezza contro il Castel di Sangro. Quattro ore prima dell’inizio il gigante sudafricano è in un’auto insieme al vicepresidente Michele Aliberti e all’avvocato Del Grosso. L’auto corre a 210 km orari, da Capodichino sfreccia direttamente verso l’Arechi. All’aeroporto di Napoli – mentre Varrella sta parlando alla squadra – è da poco atterrato l’aereo di Gazzoni Frascara, il patron del Bologna. Da quel jet è disceso frastornato e assonnato Phil Masinga, il capitano del Sudafrica che nella notte precedente ha sfidato l’Inghilterra all’Old Trafford di Manchester, e all’Inghilterra ha pure segnato. «Non potevamo farne a meno ma il Sudafrica era irremovibile – ricorda Aliberti – così pensammo a come farlo arrivare in tempo. Con Cellino noleggiamo l’aereo di Gazzoni Frascara, un gentiluomo. Nel Sudafrica giocavano Tinkler del Cagliari e Fish della Lazio. Dividemmo le spese con Cellino però bisognava convincere il ct sudafricano perché poi c’era un’altra amichevole. Mio cugino Michele e l’avvocato Del Grosso andarono a Manchester, a fine partita Michele pressò il ct fin quando non gli disse sì. Partirono nella notte però Cellino pretese che il jet atterrasse prima a Cagliari. Bah, meglio lasciar perdere Cellino…». Masinga il 25 maggio del ‘97 arriva in extremis all’Arechi e va in panchina, la partita non si sblocca e a 20’ dalla fine – l’Arechi l’invoca dall’inizio – entra in campo. Dell’Anno all’ultimo assalto pennella, lui di testa schiaccia in porta il pallone che sotterra le paure. E’ l’88’, ormai è fatta. Alla Salernitana basterà poi un punto a Venezia – sarà uno ad uno nel giro di due minuti – per archiviare la rincorsa salvezza in una stagione disgraziata, ripresa per i capelli grazie anche ai gol del sudafricano che saluterà Salerno nell’ultima domenica di torneo, contro la Reggina. In tribuna c’era Carletto Regalia: venuto per Tudisco se ne tornerà stregato a Bari con Masinga. Che un anno e mezzo dopo da biancorosso tornò all’Arechi, lui con il Bari in serie A e la Salernitana pure: un’ovazione al suo ingresso e poi un lunedì intero a casa Breda. «Venne con tutta la famiglia, e con la moglie c’erano anche due matrone africane, enormi e simpatiche. Trecce e treccine a tutti, e poi un pranzo che non finiva mai». Al Bari in prestito con diritto di riscatto fissato a 1,8 miliardi di lire. Un affare. «Avrei voluto tenerlo ma Phil mi chiese di lasciarlo andare, voleva la serie A e la serie A se l’era meritata», rivela Aliberti. Che per convincere Delio il profeta all’epoca passò una sera pure il telefono a Breda. «Eravamo a cena – ricorda il patron – il campionato forse non era ancora finito. Chiesi al capitano di parlare al mister. E mi ricordo che Breda, un ragazzo che mai e poi mai avrebbe consigliato un giocatore figurarsi a Rossi, glielo disse: mister, questo è forte, ci punterei ma poi veda lei. Andò che Rossi disse no, però secondo me sarebbe andata male. Come andò male con Song in serie A…».

In serie A la Salernitana ci arriverà dodici mesi dopo, la storica promozione in serie A nata come un fiore sul cemento nella primavera di un anno prima, perché non ci fosse stato pure Masinga altro che sballo a maggio del ‘98. «Mio padre era un fiore nato dal cemento»: così ti ha salutato tuo figlio Sifiso, così ti salutiamo noi adesso, caro Phil. Ciao e grazie, tu almeno per noi non hai mai smesso di volare. Qui a Salerno ventiquattro anni dopo abbiamo ancora le vertigini.
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